L’Espresso
L'Espresso, 13/04/2006
Tra il Caimano e una nuova Dc
Fino al "numero" dell'Ici, tutti i sondaggi serpeggianti fra i corridoi di partito, commissionati dalle grandi banche, lasciati circolare dalle multinazionali, risultavano omogenei. Per la Casa delle libertà non si poteva parlare di rimonta: anche gli autogol dell'Unione sul fisco erano stati accolti dall'opinione pubblica come una semplice perturbazione, un rumore di fondo che introduceva turbolenza senza modificare sensibilmente le preferenze degli elettori. Ma i giorni successivi all'ultimo confronto televisivo diventavano caldissimi, incendiati dalla volontà del Caimano di giocarsi tutto, proprio tutto. Perfino di offendere deliberatamente, in un intervento alla Confcommercio, gli elettori del centrosinistra, i "coglioni" che non sanno che cosa li aspetta sotto il regime del comunista, altrimenti detto "utile idiota", Romano Prodi. Berlusconi è un talento grandissimo sia quando azzecca il trucco del baro, cioè l'asso che viene fuori dalla manica all'ultimo giro del poker, sia quando pratica la sua tecnica prediletta, il "chiagni e fotti" in tutte le sue varianti. Anche dopo l'accusa di coglioneria ai moderati che votano per l'Unione, accolta con un sentito applauso dai commercianti, ha detto che le sue parole erano state pronunciate con «ironia» e praticamente in tono «affettuoso». Il fatto è invece che il Cavaliere ha ottenuto ciò che voleva: trasformare le elezioni di domenica in un'ordalia, un giudizio di Dio, l'Armageddon tra le forze del Bene e le forze del Male. Un risultato disastroso per una democrazia avanzata, fondata sull'alternanza, cioè sul sacrosanto principio che i governi vengono giudicati alle urne per ciò che hanno realizzato durante la legislatura. Eccoci invece, nonostante i rimbrotti di Carlo Azeglio Ciampi, in piena guerra di civiltà, con ondate di euforia o di panico che si stendono sui due eserciti in lotta. Una battaglia premoderna, in cui la spregiudicatezza berlusconiana sembra riuscita a mettere nell'incertezza un risultato che fino a qualche giorno fa sembrava assodato. Per un esercizio di realismo politico, conviene mettere sul tappeto i tre scenari possibili. La vittoria del centrosinistra, il successo di Berlusconi, e il risultato più controverso, il pareggio. Vittoria dell'Unione Era il risultato più probabile, la conclusione logica di una sequenza di tornate elettorali in cui la Cdl aveva accumulato una sconfitta dopo l'altra. Quando qualcuno gli fa notare che un conto è prendere più voti dell'avversario e un altro governare, Prodi non sembra preoccuparsi: Francesco Rutelli e Walter Veltroni si stanno impegnando sul futuro partito democratico, Fausto Bertinotti, pur citando di continuo l'età postfordista e la precarizzazione della vita, ossia i temi classici dell'ideologia della nuova sinistra, si è dato il profilo dell'uomo di governo e delle istituzioni. Il Professore deve mostrare rapidamente la capacità di formare un governo efficiente, dal profilo europeo: la qualità dei ministri è la prova migliore che il centrosinistra è in grado di schierare uomini capaci di rassicurare i mercati e di tentare il rilancio dell'economia nazionale, facendolo uscire dalla sindrome della crescita zero. Per i dicasteri principali, si prospettano candidature di livello, da Tommaso Padoa-Schioppa a Mario Monti, da Enrico Letta e Pier Luigi Bersani a Massimo D'Alema e Giuliano Amato (se il dottor Sottile deve rinunciare al Colle). Primo provvedimento del nuovo governo Prodi: una "due diligence" sulla condizione dei conti pubblici: le personalità economiche dell'Unione, a cominciare da Vincenzo Visco e Laura Pennacchi, sono convinte che il centrodestra lasci conti spaventosi, molto peggiori di quelli ufficializzati. Mentre si profila una finanziaria di guerra, si tratta di vedere quali sono i contraccolpi nella Cdl. Silvio Berlusconi spera di risultare il capo del primo partito al Senato, in modo da risultare ancora centrale in ogni negoziato, e in grado all'occorrenza di alzare barricate. Gianfranco Fini è il più sconfitto di tutti, perché perde senza avere una strategia di riserva: non può reggere cinque anni di opposizione senza sviluppi. Roberto Maroni ha già annunciato che in caso di sconfitta la Lega se ne va per i fatti suoi. Nell'Udc, Pier Ferdinando Casini, Marco Follini e Bruno Tabacci mandano segnali al centrosinistra, «perché se Prodi radicalizza noi facciamo un'opposizione durissima; ma se Prodi sente la necessità di allargare la maggioranza, noi siamo un partito di governo, non un partito della protesta». Quanto al Quirinale, la prima scelta è Carlo Azeglio Ciampi, dato che Prodi si ritrova perfettamente nella visione ciampiana di un'Italia pacificata. Se il presidente non ci sta, Giuliano Amato è ancora in prima fila. Vittoria di Berlusconi Non è la Cdl a vincere: è un successo tutto del Caimano. È riuscito nell'impresa impossibile, nella rimonta incredibile. Vince perché è senza inibizioni, non conosce tabù. Lacera le convenzioni politiche e civili e poi accusa gli avversari di non avere capito il suo humour. Convince la maggioranza degli italiani che i comunisti sono un incubo, descrive un paese immaginario, esalta riforme fallimentari (anche le "porcate" come la legge elettorale di Calderoli), dipinge una ricchezza inesistente e la descrive come un Eden a rischio di esproprio sovietico. Se nel 2001 aveva illustrato un sogno, ora ha evocato il Terrore. Su tutto ciò, ha piazzato la briscola dell'Ici, un contropiede all'ultimo minuto. I suoi alleati non sono meno sorpresi degli avversari. Fini e Casini, ridotti definitivamente al rango di gregari, accettano un ruolo accessorio nel futuro "Partito del popolo". Mentre il centrosinistra si scioglie come neve al sole, Prodi cerca un incarico internazionale e il partito democratico entra in stallo, Berlusconi prepara un'altra finanziaria illusionista. Nel frattempo manda Gianni Letta al Quirinale, piangendo lacrime di coccodrillo su Ciampi sacrificato alle ragioni di partito. Si sente immortale, invincibile, capace di ipnotizzare per sempre un paese intero. Gli rimane un solo ostacolo, il referendum confermativo sulla riforma costituzionale. Se la Cdl lo perde, come è probabile, il centrodestra è finito. La Lega se ne va, progettando altre marce sul Po. Comincia un'estate davvero da incubi, con un paese spaccato in due come forse non si era mai visto, dopo il Quarantotto. Pareggio Il pareggio equivale a qualsiasi risultato politicamente illeggibile. Esemplificato da una maggioranza diversa fra Camera e Senato. È il trionfo della nuova legge elettorale, il "Porcellum". L'Italia della crescita zero si ritrova nella politica zero. Di rivotare non se ne parla. Ed è anche la gioia di tutti gli inciucisti, i sostenitori della teoria di Mario Monti che le riforme necessarie per il paese sono troppo pesanti per essere realizzate da una sola parte politica, e ci vuole dunque uno sforzo corale e bipartisan. Solo che ci sono due modi per farlo: un governo di salute pubblica sostenuto dai poteri forti, una specie di consiglio d'amministrazione della borghesia, con la benedizione di Luca Cordero di Montezemolo e di Diego Della Valle; oppure una chiamata a raccolta di tutta l'Italia postdemocristiana. Si tratta di uno scenario meraviglioso per i politici più manovrieri, per la razza doc Prima Repubblica. Da Clemente Mastella a Ciriaco De Mita, da Casini e Buttiglione ai socialisti razza pentapartito. Prodi è fuori tempo e fuori gioco, Berlusconi anche, a meno che non si ricicli, perfetto Zelig, come padre nobile dell'Inciucio. Fini deve darsi da fare come un disperato per non essere emarginato. Fassino e D'Alema pure. Umberto Bossi gode, pensando alle potenzialità disgregatrici che si spalancano per la Lega. Cominciano i preparativi per realizzare la Terza Repubblica (o siamo già alla Quarta?). Dopo avere annunciato il suo possibile voto a Pippo Franco, Giulio Andreotti contempla soddisfatto un'Italia che diviene di nuovo eterna, premoderna, corporativa. Quindici anni di transizione politica vengono buttati nella spazzatura della storia. Quasi quasi, fa meno impressione la vittoria del Caimano (si sottolinea quasi).
L'Espresso, 13/04/2006
Fini e Casini dioscuri oscurati
In attesa di conoscere il risultato del voto popolare, ci sono comunque già due perdenti. Vittime di una sconfitta secca, cattiva, forse irrecuperabile. Sono la nuova generazione della Casa delle libertà, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini. Avevano cominciato la campagna elettorale belli pimpanti, ottimamente disposti in campo secondo lo schema spettacolare delle "tre punte"; l'hanno conclusa in difesa, oscurati dal forcing mediatico di Silvio Berlusconi, ridotti al rango di riserve, utilizzati soltanto nei ritagli di tempo e nelle partite minori. Qualunque giudizio si possa nutrire sui due cinquantenni del Polo, il loro oscuramento testimonia in primo luogo il fallimento del centrodestra sotto il profilo politico e culturale. Tanto Casini quanto Fini dovevano rappresentare un'alternativa reale alla leadership del Cavaliere, ma sono bastati due mesi di campagna elettorale esasperata per ridurli al rango di gregari. Berlusconi ha giocato tutte le sue carte per salvare se stesso, per drenare voti dagli alleati cercando di concentrarli su Forza Italia, per mantenere un ruolo politico nella fase post- elettorale, per far sapere che comunque vadano le cose nella prossima stagione politica sarà ancora lì. La conseguenza più importante è che come progetto politico il centrodestra non esiste più: esiste semmai l'armata berlusconiana, un esercito di fedelissimi pronti a rilanciare il Verbo del capo. Ma intanto la Lega ha già fatto sapere che in caso di sconfitta elettorale tornerà alla politica delle mani libere (e occorre aggiungere che la probabile bocciatura della riforma costituzionale della Cdl al referendum confermativo darà un colpo durissimo alla tenuta della coalizione). E non si hanno notizie significative, se non qualche ballon d'essai berlusconiano, sui progetti di costruzione del partito unico dei moderati. Sicché ci sono notevoli possibilità che dopo il 10 aprile la Cdl torni a essere un cantiere. Lo stato di malessere delle due mezze punte, chiamiamole così, è testimoniato dal disagio di Fini, praticamente respinto a priori dall'ingresso nel Partito popolare europeo; e dal nervosismo di Casini, particolarmente incattivitosi nelle ultime due settimane di campagna. Ma su tutto si staglia la certezza che nonostante ogni sforzo di immagine il centrodestra sta insieme solo ed esclusivamente grazie al coagulo di Berlusconi. Le varie culture della Cdl non hanno prodotto nessuna sintesi apprezzabile, se non il compattamento a scopo elettorale. L'unica personalità politica in grado di sfidare Berlusconi è stata quella di Marco Follini, che non ha immagine ma ha cultura e coraggio: tuttavia il suo schema, orientato alla sostituzione del Cavaliere alla guida della Cdl (che poi era quello di Bruno Tabacci e di poche altre menti libere dell'Udc), gli è stato ritorto contro, come se fosse una quinta colonna, un nemico che aveva aperto un fronte interno nel centrodestra. Vada come vada, i dioscuri sono stati oscurati. Nel caso della sconfitta di Berlusconi, Fini e Casini si troveranno nella condizione di essere poco credibili nella lotta per la successione. Già appaiono poco convincenti adesso, mentre fanno la voce grossa contro la sinistra e manifestano con flebili sussurri le loro obiezioni al trionfalismo berlusconiano. Hanno commesso il peccato maggiore che si possa fare in politica: vale a dire che hanno manifestato una gratitudine vagamente riluttante a chi li aveva riscattati politicamente dal loro passato missino e democristiano (quando dire dc era un insulto). Ma si è visto che oggi non vanno di moda le misure mignon. Berlusconi ha imposto un duello elettorale in cui mezze figure e mezze punte scompaiono nell'anonimato. Fini e Casini hanno accettato il loro ruolo di comprimari, forse puntando sul paradigma di Gianni Agnelli, secondo cui se Berlusconi vince, vincono anche loro; se viene sconfitto, perde solo lui. È possibile che siano già proiettati sul dopo. Ma con quale carico di credibilità può proporsi come leader chi ha accettato per convenienza di essere gregario? Il futuro di un centrodestra rinnovato passa essenzialmente per questa domanda.
L'Espresso, 20/04/2006
Se tre minuti vi sembran pochi
Dopo i duelli elettorali in tv abbiamo a disposizione una buona quantità di materiale da analizzare. Meglio l'efficienza fredda di Clemente Mimun o la veste tricamerale di Bruno Vespa? E soprattutto, funzionano i confronti a minutaggio? Prima di rispondere, conviene prendere nota di un aspetto particolare. In un libro recente, "Convergenza multimediale e analisi sociologica" (edizioni Il Segnalibro), la studiosa di processi comunicativi Angela Maria Zocchi, sulla scia di Pierre Bourdieu, mette in rilievo che la televisione tende a privilegiare i cosiddetti "fast thinkers", ovvero gli specialisti del pensiero usa e getta. L'argomento è che dietro l'apparenza di equilibrio democratico che ogni ribalta televisiva esibisce c'è un «lato oscuro» in cui il «pluralismo apparente dei media» rivela un aspetto essenzialmente manipolatorio. Si tratta di vedere intanto se il "pensiero veloce", quello imposto dai 30 secondi della domanda, dai due minuti e mezzo della risposta e dal minuto della eventuale replica rappresenta una modalità praticabile o una distorsione implicita. In teoria il tempo limitato, che riduce a slogan i programmi politici, dovrebbe essere una regola favorevole al "fast thinker" Berlusconi, uomo di televisione, padrone del mezzo e soprattutto padrone dei mezzi. Mentre Romano Prodi doveva trovarsi in difficoltà a riassumere le sue argomentazioni in 150 secondi. Si è visto invece che in certe momenti il tempo contingentato era perfino troppo ampio, e i contendenti dovevano riempirlo con sequenze di parole amorfe, riempitivi o scarti laterali, passaggi strumentali o incongrui ad altro argomento. C'era la disabitudine dei duellanti al rispetto dei tempi, e va bene. Ma nel format del faccia a faccia si è anche riscontrato un aspetto richiamato ancora dalla Zocchi, «un'elevata autoreferenzialità consolidata anche dalle relazioni personali» (sempre le stesse facce, come diceva Bourdieu, che producono «effetti di chiusura e, tanto vale dirlo, di censura»). Un giornalista che conduce, due giornalisti che formulano domande, due contendenti che dibattono di entità enigmatiche come l'avanzo primario: l'effetto di autoreferenzialità è inevitabile. Eppure non si capisce come alcuni abbiano rimpianto le tele-risse con le voci sovrapposte, le urla, i commenti beceri. Non si può volere l'America solo quando fa comodo. E quanto al confronto Mimun-Vespa, meglio Vespa, ai punti.
L'Espresso, 20/04/2006
Feticismo Madonna
Alberto Moravia teneva accesa la tv su uno dei canali musicali in cui apparivano i primi videoclip, dove si sbizzarrivano fantasie alla ricerca di uno choc visivo: «Una forma di surrealismo minore», li definiva. Non occorre riandare a Disney per sapere che l'incrocio fra musica e immagini, fra melodie, ritmi e film è sempre stato un modo per esaltare la musica e per farla diventare a due dimensioni. Anzi, nei casi più elaborati si è assistito al tentativo di creare un mondo particolare: basti pensare all'iconografia beatlesiana del Sottomarino giallo e della banda del Sgt. Pepper; oppure alla narrazione targata Pink Floyd di "The Wall", dove l'artificio del disegno animato traduceva la musica in piccole icone, cammei e frammenti mitologici. È la tecnica che ha portato al capolavoro di John Landis, "Thriller" con Michael Jackson, in cui la reinterpretazione dell'universo horror si trasforma in estetizzazione pura (qualcosa di simile a quello che farà più programmaticamente Quentin Tarantino con i due "Kill Bill", ad esempio). Perché attraverso la musica si definiscono soprattutto sistemi di fissazione del trend: Madonna che esplora la corporeità dell'America neolatina esibendo un feticismo cristianista orientato al sexy è forse l'esempio più rilevante. Tanto che mentre oggi i Rolling Stones continuano a esporsi nei video come "band", cioè mimando la tradizione, la signora Ciccone, con "Confessions on a dance floor" recupera sequenze in cui il ballo è una dichiarazione di identità. Come in un "Flashdance" del nuovo millennio, in cui non c'è trama ma solo l'ideologia del quattro quarti.
L'Espresso, 20/04/2006
Operazione Unione
Nel corso della notte delle streghe, mentre dal Viminale affluivano lentamente i voti della Camera, Arturo Parisi rifletteva: «Che cosa significa vincere? Vincere vuol dire prendere un voto più degli altri». Era già scivolata via da un pezzo la souplesse con cui si attendeva un risultato dato per già acquisito, la larga vittoria dell'Unione attestata dai sondaggi, la sconfitta "fisiologica" della Casa delle libertà. Un gioco di miraggi che si era trasformato all'improvviso in un'incubo. Già il Senato se n'era andato, erano state perse regioni come il Piemonte e il Lazio, date per sicure al centro-sinistra. Ondate di panico politico si stavano diffondendo a Piazza Santi Apostoli, nel quartier generale di Romano Prodi. «Vincere vuol dire un voto in più». Ma in realtà ci si attaccava a una speranza esilissima, e cioè che il risultato della Camera si differenziasse da quello del Senato, come sosteneva uno degli analisti più quotati nell'entourage prodiano, il docente di scienza politica Roberto D'Alimonte. «D'Alimonte sostiene che alla Camera si può ancora vincere», anche se il margine si sta assottigliando in modo da far sbigottire, da far torcere le viscere per l'inquietudine. E perché mai ci dovrebbe essere un risultato diverso alla Camera? In parte per alcune superstizioni da Prima Repubblica, congetture sociologiche, con l'idea che il voto dei giovani contiene peculiarità: ci sono sette classi di età che, secondo alcune opinioni, potrebbero preferire il centro-sinistra. Fino al punto di rovesciare il pessimo risultato del Senato? Forse no, con un primo conto a spanne. Ma oltre alle congetture c'è anche un elemento più pesante, «l'offerta politica» diversa rispetto al Senato, con la presenza del simbolo dell'Ulivo, che rastrella più voti rispetto alla somma di Ds e Margherita. Tensione che mozza il respiro, Giulio Santagata che ansimando controllava i dati delle ultime 500 sezioni, i suoi collaboratori intenti soprattutto a frenare l'angoscia di un margine che si assottigliava via via che aumentavano le sezioni scrutinate. Non tiene. Non tiene, forse non tiene, tiene, oddio, speriamo che tenga. Tiene. Non si riesce neppure a gioire. Si conclude così una consultazione elettorale pazzesca, con il cuore che balla a forza di extrasistoli, le coronarie a rischio. Voglia di piangere, freddo nella schiena. La scena di Prodi, Fassino e Rutelli sul palco, Rutelli con un impermeabile vagamente incongruo. Lo scampato pericolo della rimonta che si trasforma in parole che dicono di una vittoria che ancora non c'è, o non c'è del tutto. Ci sarà da aspettare il voto degli italiani all'estero, il frutto dell'impegno del ministro postfascista Tremaglia, per avere una maggioranza anche al Senato. Sono i paradossi di una legge elettorale «sfascista» secondo Marco Pannella, approvata per limitare la sconfitta, per confondere le acque, per introdurre turbolenza in un risultato che veniva dato per scontato da mesi, da anni, dalle elezioni amministrative e regionali. Un attentato alla stabilità e alla razionalizzazione del sistema politico, qualcosa che ha rischiato di vanificare quindici anni di faticosissima, estenuante transizione. Ma in quella notte spaventosa, in quel finale da raccapriccio, non c'era il tempo di ragionare sulle questioni di sistema. Un voto in più era la vittoria, un voto in meno la sconfitta. Poi, naturalmente, a mente appena più fredda, la mattina seguente, si potevano fare altre considerazioni. Roberto Cartocci, uno degli studiosi meno conformisti della politica italiana, anche nelle sue dimensioni simboliche e psicologiche, le meno esplorate dai «positivisti» delle indagini demoscopiche, quelli che hanno creduto ai loro dati in apparenza così nitidi, fino al giorno prima aveva diffidato esplicitamente della vittoria "sicura" del centro-sinistra. Esattamente come il maestro della scienza politica italiana, Giovanni Sartori, che a ogni sondaggio trionfalistico si stringeva nelle spalle e mormorava: «Speriamo bene». Mentre Ilvo Diamanti segnalava sfasature fra il campione nazionale e le indagini condotte su base regionale. La mattina di martedì 11 aprile, dopo la notte dei sondaggi zombie e dei voti resuscitati, Cartocci ragionava sui dati : «Dai primi calcoli la prova elettorale si può sintetizzare all'incirca così: c'è stato un milione di voti validi in più rispetto alle politiche del 2001, pur scontando una diminuzione di due milioni di aventi diritto, in seguito alla bonifica degli elenchi elettorali». È un risultato a suo modo spettacolare, che va riconosciuto in larga misura a Silvio Berlusconi. Il Caimano ha realizzato un'impresa straordinaria, superando colli pirenaici in grandissimo recupero, anche se sul traguardo ha perso la volata. Ha perso le elezioni, ma ha avuto ragione su tutto. Tutto. Aveva detto che oltre una certa soglia di partecipazione, superando l'80 per cento di votanti e spingendo il voto fin verso l'84 per cento, avrebbe potuto vincere, ed era nel giusto. Ne sapeva evidentemente più lui di tutti i sondaggisti; oppure i suoi analisti erano migliori. Ma un'intuizione di questo genere va sostenuta da una campagna formidabile, e Berlusconi è riuscito a imprimere una velocità parossistica al confronto. Condotto sempre in testa, imponendo l'agenda, fissando i temi in discussione, attaccando avversari via via più frastornati. Certo, Berlusconi ha potuto contare su un contesto televisivo che lo ha vistosamente favorito. Nonostante i distinguo degli snob, bastano i rilievi dell'Autorità per le comunicazioni e le multe inflitte per registrare uno squilibrio grave a favore del Cavaliere. Padrone del mezzo, come si dice, ma anche padrone dei mezzi. E tuttavia possedere e controllare gli strumenti non significherebbe molto se non ci fosse la presenza, la voglia, la determinazione, il senso del conflitto anche personale che Berlusconi è stato capace di attizzare. Mentre Prodi e tutto il centro-sinistra conducevano una campagna ora fiacca, ora manierista e ora quasi suicida (sulle tasse), o a essere buoni gravemente autolesionista, il Caimano ha dettato il suo populismo forsennato, con l'intenzione di snidare ogni elettore "deluso" dal miracolo non avvenuto, ogni evasore potenziale e reale, lanciando un messaggio a cui la società del nostro paese ha mostrato di essere sensibile: guardate che questi, la sinistra, vogliono farvi cacciare fuori dei soldi. A questo forcing di intensità mai vista, condotta con un dispendio anche fisico eccezionale, Romano Prodi ha risposto alla sua maniera. Appellandosi alla serietà, facendo ricorso alla necessità di unire un paese lacerato da cinque anni di governo del centro-destra. La via emiliana all'ulivismo. Ma anche lasciandosi incastrare sulla questione fiscale, cioè senza rendersi conto che il tema delle tasse era un argomento mobilitante: il Caimano stava stanando tutte le fasce sociali, tutti i gruppi, tutti gli interessi sensibili. Non poteva più promettere prodigi, dato che l'economia italiana è in condizioni degradate, ma è riuscito a fare interagire due paure: la paura dei "comunisti", valorizzando in modo quarantottesco una frattura storica e psicologica che evidentemente si fa ancora sentire nella cultura e nella psicologia degli elettori, e la paura del "furto socialista". Agli occhi di un'Italia che mostra un «egoismo pauroso e impaurito» (come ha scritto Rossana Rossanda), Berlusconi è apparso come il campione della gramsciana «plebe borghese», richiamando alle urne il popolo delle partite Iva, dei piccoli imprenditori mobilitati in chiave anti Confindustria, contro i poteri forti, contro i salotti buoni, contro l'aristocrazia industriale e gli establishment più sofisticati. Ha chiamato al voto «il figlio del professionista contro il figlio dell'operaio», lotta di classe purissima. Di fronte a questa offensiva, l'Unione e Prodi hanno barcollato, talvolta reagendo con durezza, ma di solito contemplando con sbalordimento la violenza dell'attacco berlusconiano, e rispondendo con genericità alle accuse più demagogiche: è passata l'idea che l'Unione volesse tassare addirittura i titoli di Stato (non i capital gain), e gli sbandamenti sulla tassa di successione hanno spaventato molti piccoli proprietari. Ancora: il centro-sinistra è perfettamente adeguato per segnalare i guasti pubblici prodotti dal governo Berlusconi, a partire dal bilancio dello Stato; mentre il Caimano è efficacissimo nel descrivere e promettere soddisfazioni private. Il Professore accusava l'azzeramento dell'avanzo primario, entità inafferrabile; il Cavaliere parlava tutto ispirato della ricchezza individuale, case, auto, telefonini. Per rispondere all'offensiva del premier sarebbe stata necessaria una campagna propositiva, mentre le molte pagine del programma dell'Unione contenevano tutto fuorché gli slogan per indicare obiettivi aggreganti. Mentre Berlusconi parlava, e qualche volta gridava, a un paese reale, Prodi e l'Unione avevano in mente un paese largamente immaginario, dedito alla sobrietà e al rispetto delle regole. La vittoria dell'Unione era interiorizzata come un riscatto perfino etico dopo la distorsione prodotta dalla Cdl in cinque anni di leggi ad personam e trucchi contabili, senza parlare delle riforme unilaterali come la revisione costituzionale e l'approvazione dello sciagurato "Porcellum", legge elettorale su misura (anche se catastroficamente ritortasi contro chi l'aveva progettata e realizzata). Le illusioni del centro-sinistra erano alimentate da una serie di illusioni minori, esemplificate dal risultato deludente della Rosa nel pugno. Che nelle aspettative della bolla mediatica in cui talvolta sembrano vivere dirigenti e tifosi dell'Unione si erano dilatate oltre misura. Il risultato finale è un bagno di realismo, che deve fare i conti con alcuni dati di fatto. Lo sconquasso nel centro-destra non c'è stato. Anche le due mezze punte, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini hanno portato a casa la pelle. Ma ciò che più conta è che la classe politica si trova davanti due Italie, divise da un soffio di voti e da un abisso di ostilità. I segni di una campagna elettorale trasformata in un'ordalia medievale potrebbero restare a lungo nella società, lasciando tracce difficili da eliminare. È superfluo ripetere che la responsabilità di avere trasformato un confronto elettorale in un giudizio di Dio, in uno scontro fra antropologie irriducibili, ricade sul Caimano. Ora si tratta di vedere se un'affermazione elettorale risicatissima, dilatata alla Camera dalla formula tecnica, può essere tradotta in prassi istituzionale. Dovrebbe essere evidente che per tener fede a una qualche razionalità delle regole occorrerà che l'Unione formi il suo governo: anche se Prodi si è indebolito, anche se il centro-sinistra sembra un esercito che era partito per Austerlitz e si è ritrovato a Stalingrado e ha rotto l'assedio con un combattimento all'ultimo uomo. Senza abusare della retorica, dopo avere evitato per un soffio l'implosione del sistema, come sarebbe avvenuto nel caso di due maggioranze diverse fra Camera e Senato, è necessario condurre la politica e il paese intero su un sentiero di linearità politica e istituzionale. Non solo: proprio tenendo conto della inquietante spaccatura della società italiana, occorrerà cercare di portare sul piano delle istituzioni il successo del centro-sinistra, ma con un'attenzione supplementare a quella parte d'Italia e a quella parte politica che sono risultate tecnicamente soccombenti. In passato si era scherzato sulla fortuna di Prodi e sulla sconfinata grandezza del suo posteriore. La fama non è stata smentita: vittoria all'ultimo respiro alla Camera, affermazione rocambolesca al Senato grazie all'invisa legge del ministro Tremaglia. E in ultimo il tempismo della cattura di Bernardo Provenzano, che se fosse avvenuta qualche ora prima avrebbe forse fornito al governo la briscola decisiva: il governo "amico dei mafiosi" secondo chi demonizza la Cdl, che prende il capo della mafia, ma con un giorno di ritardo. Adesso, dopo la fortuna, ci vuole rigore istituzionale, intelligenza politica, e quella serenità a cui il Professore si è sempre appellato. Ne ha bisogno l'Unione, e ne ha bisogno tutto il paese. n
L'Espresso, 27/04/2006
Pugni e carezze
Tutti voi sapete che "Per un pugno di libri" (pomeriggio della domenica su Raitre) è al nono anno di programmazione. Nel sito web viene definito un "book game", e questo è male, ma è condotto da una coppia notevole. Lo diciamo a tutti voi che non lo guardate mai perché volete vedere la Venier: Neri Marcorè esibisce una souplesse invidiabile, ed è, diciamo così, il poliziotto buono della cultura; Piero Dorfles è inflessibile, ed è il poliziotto cattivo, il professor Carogna. Insieme, naturalmente, funzionano benissimo, visto che il book game in realtà è qualcosa a metà fra un'interrogazione e un'interrogatorio (il programma è scritto da Andrea Salerno con Marta Mandò, Gabriella Oberti, Alessandro Rossi; regia Igor Skofic). Di per sé, "Per un pugno di libri" sarebbe da catalogare come uno di quei programmi esecrabili, che vogliono istruire divertendo, o divertire istruendo; che ben presto fanno venire il sospetto di andare in onda per un'ubbia programmatica e di sinistra. Scolaresche che si confrontano, piccoli premi, una formula da boy scout: ma basta restare appiccicati cinque minuti al programma per avvertirne il fascino lieve. Quasi il sentore di un'Italia reale, fatta di scuole abbastanza per bene, anche se le aule sono cadenti e la Moratti si è fatta fottere i fondi per le scuole o li ha dati alle private (evviva). E studenti, non solo ragazze, che avranno evidentemente insegnanti decenti, anche se maltrattati dallo Stato. Insomma, l'avete capito. Dategli una mano. Al programma, ai conduttori, agli autori e al regista. Dev'essere dai tempi di "Babele" di Corrado Augias che in tv non c'è un programma come si deve sui libri. Non che se ne senta la mancanza, ma qualche volta viene da dire: chissà perché non siamo capaci di spettacolarizzare un po' la cultura. Perché non si organizza una trasmissione con dentro un bel match Buttafuoco contro Baricco, i commenti alla classifica, un po' di Bar sport sulle polemiche (se ne fanno sempre meno, ma si può sempre attizzarne qualcuna). D'accordo che c'è il rischio che in pochi mesi l'eventuale programma culturale diventi un teatrino di freak, tutti convinti di essere il più grande scrittore italiano contemporaneo, ma insomma, perché no? Intanto, auguri a tutti quelli del "Pugno di libri", che trattano Conrad e Faulkner come nostri contemporanei, che non fanno tanti record, ma almeno vanno un po' meglio della Rosa nel pugno.
L'Espresso, 27/04/2006
Si può ricominciare dal Colle
Il primo obiettivo di questa fase politica consisterebbe nel rientrare nella normalità. Dopo una campagna elettorale stressatissima, dopo un esito al fotofinish, dopo i colpi di coda del Caimano, adesso si tratterebbe di ricucire. Perché è vero che come ripetono tutti l'Italia è spaccata in due; ma intanto la soluzione non consiste di necessità nella Grande Coalizione. Non è il caso nemmeno di ergere verità dogmatiche sul diritto/dovere di governare e velleitarismi sulla logica stringente dell'alternanza. Va riconosciuto semplicemente che lo scontro politico è stato fortissimo, e se una coalizione ha vinto, e se la sente di formare un governo, lo schema è appropriato. Anzi, come spiega un anonimo che ha spedito via sms un talentuoso rap "civile", dopo l'avance di Silvio Berlusconi sulla Grosse Koalition: «Trent'anni e più sono passati / ma gli argomenti non son poi molto cambiati / «con la metà più uno il paese non si governa, / è troppo il rischio per una democrazia moderna». / Le parole di Berlinguer fanno un effetto strano / nell'affilata bocca del Caimano». In sostanza, prima di arrivare a una sorta di nuovo compromesso storico, occorrerà esperire tutte le possibilità offerte dal funzionamento dello schema bipolare. Anche perché non sfugge a nessuno che ciò che per Marco Follini significa mediazione per riprendere in seguito, e in migliori condizioni, la formula dell'alternanza, per molti altri rappresenterebbe una voluttuosa chance di ritorno al pentapartito, o giù di lì. Resta sul tappeto, in ogni caso, il problema di una riconciliazione delle due Italie che si sono scontrate il 9-10 aprile. Perché non è affatto vero che lo scontro politico non ha coinvolto più di tanto la società civile. La guerra civile a bassa intensità innescata da Berlusconi ha lasciato una scia di rancore. Ci vuole un'illusione tipicamente buonista per ignorare il fatto che mezza Italia guarda l'altra metà con sospetto, gli uni che considerano gli altri dei "coglioni", e quelli dell'Unione che giudicano delinquenti gli elettori della Cdl. E allora come si fa a trovare una modalità per riavvicinare queste Italie contrapposte e ostili l'una all'altra? Al momento non ci sono tante possibilità se non quella di trattare con intelligenza e duttilità le decisioni istituzionali che dovranno essere prese nei primi atti della legislatura. È opportuno riportare e chiudere il conflitto entro la prassi istituzionale, all'interno di un efficace funzionamento delle istituzioni. Ci sono tre passaggi chiave, nelle prossime settimane: l'elezione dei presidenti delle Camere, l'elezione del presidente della Repubblica, il referendum confermativo sulla riforma costituzionale. Sui presidenti di Camera e Senato non c'è troppo da dire. Non ci sarebbe niente di scandaloso se si trovasse modo di concordare con la Cdl, in un ramo del parlamento, l'elezione di una figura considerata di garanzia, senza sollevare squilli di tromba partigiani, che a sinistra si sono già sentiti (nel senso di: eleggiamo chi ci pare, perché abbiamo vinto noi). Quanto al Quirinale, il gioco si fa ancora più complicato. Eppure il Colle è la casella forse decisiva sulla scacchiera istituzionale, quella che darà la misura dell'intensità residuale di conflitto. Sotto questa luce, l'offerta di una trattativa aperta e civile alla Cdl, una consultazione decente fra gentiluomini (se non si vuole parlare con il Caimano si può sempre parlare con Gianni Letta) può portare a una soluzione che non appaia un atto di forza, e che dia rappresentanza a tutti quei cittadini che hanno apprezzato lo sforzo di solidarismo nazionale che ha modellato il settennato di Carlo Azeglio Ciampi. Infine, il referendum. D'accordo, la riforma della Cdl è un obbrobrio e va buttata via. Ma va persa di vista una prospettiva riformatrice sul piano costituzionale? Ecco allora che contatti e consultazioni con il centrodestra saranno utili per aprire un discorso per il futuro. Non per progettare insieme stupidaggini presidenzialiste sudamericane, ma per razionalizzare un sistema parlamentare in chiave moderna, e renderlo capace di prendere decisioni. Alla fine, se lo si riporta dentro il meccanismo istituzionale, il diavolo, cioè il conflitto fra le due Italie, potrebbe anche essere meno cattivo di quanto non appaia.
L'Espresso, 04/05/2006
La telenovela va in onda con il tg
Facciamo i conti della serva. Una delle meglio bubbole inventate dai gran mondani è che la televisione non incide sull'opinione pubblica. Fior di mondani sostengono questa eccellente tesi, con gesti di schifata superiorità su quelli invece che sostengono la contraria. Si ricorda qui che una dozzina di anni fa lo stimato professor Luca Ricolfi, ora idolatrato a destra, sostenne che la tv aveva spostato, a favore del Cavaliere delle libertà, circa quattro milioni di voti. Gli sfiziosi di allora dissero che l'analisi era grezza e che i processi comunicativi sono molto, molto più complessi. Come no. Siamo tutti scafati e non crediamo a quello che raccontano gli ideologi dell'antiberlusconismo. Ma d'altronde non crediamo neppure a ciò che raccontano Clemente Mimun e Carlo Rossella: e andiamo, boys, abbiamo smesso di credere in Dio e in Marx e dovremmo credere nel Tg1 o nel Tg5? Per capire qualcosa dell'Italia forse è più utile registrare ciò che scrivono ai giornali i lettori dall'estero, gente semplice che fa ragionamenti semplici, poco mondani. Che suonano così: noi abbiamo la fortuna di non vedere i tg italiani; vediamo i tg francesi, tedeschi o brasiliani, che sono poco influenzati dal potere berlusconiano. E allora ci siamo convinti che Clemente e Carlo sono dei simpatici narratori di una realtà romanzesca. Fuori dal romanzo noi, noi elettori "esteri", ci siamo fatti un'idea più realistica delle cose, e votiamo contro Berlusconi. A questo punto, è chiaro che agli occhi degli italiani all'estero il fenomenale Caimano, altro che statista, è quel tale del kapò, uno che si rivolge ai deputati chiamandoli «turisti della democrazia», e che al momento buono fa le corna in foto. Ma a onore e gloria di Carlo e Clemente, e soprattutto di tutti quei fini intellettuali che hanno sostenuto che la tv non conta nella formazione del consenso, bisognerà pure farsi la domanda finale. Vale a dire: se è vero che la tv non conta niente, per quale motivo i berluscones hanno fatto di tutto per metterci le mani sopra? Se la tv era inessenziale, uomini eleganti e stilisticamente impeccabili come certi amici della Cdl avrebbero dovuto dire: siamo superiori a queste bassezze, la televisione prendetela voi. E invece no, se la sono presa e l'hanno militarizzata. Delle due l'una: o non credevano a ciò che dicevano i mondani, oppure vale lo schema di Totò: «La serva serve». Ovvero, la tv conta.
L'Espresso, 04/05/2006
Cavalier Camaleonte
Silvio Ultimo, o Penultimo, ovvero l'eterno rifiuto della normalità. Il Caimano non può essere normale. Deve puntare sempre sull'eccezionalità. «Sovrano», dice Carl Schmitt, teorico della politica come mobilitazione totale, «è chi decide sullo stato di eccezione». Già, ma l'eccezionalità va creata, sollecitata, aizzata. E Berlusconi è riuscito a crearla. Il suo recupero in campagna elettorale, quando da almeno due anni tutti lo davano per sconfitto e si preparavano al dopo, è stato realizzato proprio puntando sulla divisione del paese in due parti avverse, addirittura antropologicamente irriducibili. Due Italie incompatibili, ostili, sovraccariche di inimicizia. Come sia riuscito in questa impresa ha quasi dell'incredibile. Ha giocato tutta la prima parte della campagna elettorale sui suoi temi più classici, a cominciare ovviamente dall'anticomunismo. Nell'ultima parte della campagna, via via che il voto diventava incombente, ha sollevato il tema delle tasse, cioè dell'esproprio delle "sinistre" ai danni della borghesia berlusconiana, i presunti moderati. Lotta da ultima spiaggia contro i rossi, ed esorcismo ideologico sulla "robba", la proprietà, la successione: è riuscito a fare un Quarantotto sul Settequaranta. Ma non basta: secondo il suo ex sondaggista Luigi Crespi, colui che inventò il Contratto con gli italiani, il Cavalier Caimano ha evocato paure profonde, «miseria terrore morte», e ha scosso la società italiana sulla tassa di successione, «che implica un evento luttuoso». Era l'ultima possibilità che gli rimaneva: ha quasi settant'anni, poco da guadagnare e molto da perdere. Come tutte le personalità fuori dall'ordinario, i grandi mercenari, i condottieri disperati, i giocatori che incarnano insieme il re e il giullare, il "king" e il "fool", Berlusconi non ha né inibizioni né tabù. Ha deciso consapevolmente di reinnescare una specie di guerra civile a bassa intensità, convinto che solo il grande caos e pulsioni più profonde potevano ravvivare la sua leadership, in quanto condottiero di un fronte impegnato in uno scontro di civiltà. Gli è andata male. Malino o malissimo dipenderà dai prossimi giorni, settimane, mesi. Bene o benissimo dall'impazzimento della politica. A posteriori, dopo il voto al fotofinish, può apparire incredibile la successione degli eventi, quella rincorsa pazzesca, senza respiro, che lo ha condotto a meno di 25 mila voti di distacco dall'Unione. Gli è mancato un niente, un sospiro, un sogno, un naso di Cleopatra. Quasi incredibile che la storia possa decidersi nella casualità ineffabile dei piccoli numeri; che il perfezionista per autodefinizione Silvio Berlusconi si sia dovuto arrestare di fronte a quel diaframma fragilissimo. È per questa sensazione di frustrazione impotente, o di onnipotenza frustrata, che il giorno dopo i risultati detta il suo comando: «Il voto deve cambiare». Il sovrano getta il peso dello scettro sulla bilancia della democrazia liberale? Oppure sta semplicemente giocando ai bussolotti con il sistema politico? Calma e sangue freddo. Il Caimano è un rettile, sangue arterioso e venoso un po' mischiati, temperatura del corpo fredda o calda a seconda del clima esterno. Qualche volta il maestro Giovanni Sartori lo ha chiamato sarcasticamente «il Cavalier Traballa», ma per una volta aveva frainteso le acrobazie berlusconiane. I traballamenti non dipendono infatti da scarso equilibrio, ma dall'adeguamento alle condizioni ambientali. Ci vuole aggressività, furore, addirittura ferocia? Re Silvio digrigna, schiuma, si inarca e inveisce. Occorre invece pacatezza e persuasività? Le labbra si spianano nel sorriso, la dentatura si ingentilisce, e il "fool" si trasforma in un mostro di simpatia e di buone maniere. In fondo, è sempre rimasto un imprenditore. Sa quando deve attaccare; e sa benissimo, allorché viene respinto, come arretrare. In questo momento tuttavia, è drammaticamente combattuto. Le persone a lui più vicine, da Fedele Confalonieri a Gianni Letta, lasciano capire che il Cavaliere è nelle sue fasi altalenanti. Traballa, direbbe il solito Sartori? No, non traballa: ma oscilla, il suo umore barcolla. Un giorno, a Portorotondo, si lascia andare, il pessimismo lo invade, pensa al «governo delle sinistre» e confida: «Questi dureranno cinque anni». Poche ore dopo Fausto Bertinotti produce alcuni degli effetti pirotecnici, «Mediaset deve dimagrire», e allora Berlusconi richiama all'ordine il suo esercito, lo schiera di nuovo in formazione di battaglia contro quello che i giornali di destra chiamano «l'esproprio proletario». Politica, affari, proprietà, il solito groviglio inestricabile. Ma intanto Re Silvio torna a fare politica. Prende tempo. Rallenta i meccanismi istituzionali. Intima che non sia Carlo Azeglio Ciampi a conferire l'incarico di governo. E intanto intravede la possibilità di sparigliare la situazione creatasi in Parlamento. Il progetto Andreotti. Difficile stabilire con esattezza dove sia nata l'idea della candidatura alla presidenza del Senato del divo Giulio. Di sicuro chi l'ha enunciata con maggiore precisione è stato Rocco Buttiglione, al consiglio nazionale dell'Udc: «Se eleggiamo il senatore a vita Andreotti, che può prendere voti anche fra i senatori dell'Unione, si dimostrerà che Romano Prodi non ha una maggioranza, e il presidente della Repubblica non potrà dargli l'incarico di formare il governo». È la via più breve all'implosione della legislatura. La sterilizzazione del premio di maggioranza con un riequilibrio anomalo al Senato. Il grande incubo di sistema. In ogni caso l'apertura di una fase politica illeggibile: da un lato ci sarebbe una estenuante trattativa su modelli di larghe intese, inciuci, "schema Monti", la Bocconi al governo; e dall'altro la pressione di organismi internazionale come il Fondo monetario per avere un governo di rassicurazione dei mercati. Qualcun altro si incaricherebbe di ventilare la possibilità di votare nuovamente soltanto per il Senato: «Un'ipotesi accademica», secondo un costituzionalista come Augusto Barbera, mentre Sartori si è già schierato contro il «rivotismo», sintomo di una malattia infantile del maggioritarismo imperfetto. Eppure le larghe intese sono state il primo espediente messo in campo da Berlusconi dopo l'esito del 9-10 aprile; anche con sceneggiate formidabili, come quella di accusare Prodi di insensibilità democratica e di irresponsabilità civile perché non aderiva all'invito della Grande coalizione. In realtà la Grosse Koalition è un'ipotesi particolarmente complicata, perché spaccherebbe le due alleanze elettorali. Piace naturalmente a Pier Ferdinando Casini, perché riporterebbe in auge quel processo di scomposizione e scongelamento dei poli che i postdemocristiani hanno sempre auspicato. Probabilmente non dispiace a Gianfranco Fini, nonostante i maldipancia che potrebbe provocare dentro An, in quanto creerebbe le condizioni di fondo per il transito del partito tra le file del Partito popolare europeo. Ma più di tutti piace naturalmente al Caimano. Il quale sarebbe messo in difficoltà da un governo di legislatura. Certo, potrebbe esercitare il suo ruolo di capo del maggiore partito della Cdl, mettersi di traverso sulle decisioni governative più fastidiose, trattare cocciutamente su tutto, fare ostruzionismo, bombardare il paese con campagne ossessive. Ma è una prospettiva guerrigliera. Implica che il Cavaliere si rintani nella foresta e organizzi la resistenza "anticomunista" convincendo di nuovo l'opinione pubblica che i suoi affari privati e pubblici coincidono con quelli del paese (è stato il suo capolavoro più fantastico, finora, persuadere i poveri a sostenere i ricchi). Ma se la situazione politica dovesse evolvere verso un governo istituzionale, o di garanzia, o qualsiasi formula di solidarietà nazionale, Berlusconi potrebbe trovare un'altra incarnazione, un altro ruolo da interpretare in modo sublime. Padre nobile della Grande coalizione, uomo disinteressato capace di gesti spassionati come il passo indietro, animatore della riscossa nazionale nel nome delle riforme indifferibili. Eccetera. Con un ennesimo colpo magistrale, il Caimano si trasformerebbe in un altro animale. Deporrebbe la ferocia, abbandonerebbe i suoi istinti più selvaggi, ed eccolo pronto a ripresentarsi sulla scena. Suadente, affabile, pragmaticamente irresistibile. Dietro l'ombra di Andreotti, delle larghe intese, della caduta preventiva del governo delle odiate sinistre, sembra già prendere forma e colore la silhouette del grande Camaleonte. n
L'Espresso, 11/05/2006
Piero Angela santo subito
Messa in archivio la tv delle ragazze, nessuno si aspettava la bella sorpresa della tv delle suore. Bene, secondo quanto ha riportato sulla "Stampa" Gianluca Nicoletti esiste un periodico online, "Marketing&Tv", che ha realizzato un'inchiesta su un campione di 350 monache. Il parere delle religiose ha una sua importanza perché si depreca sempre che non si parli mai del paese reale, cioè di quella parte sconosciuta della società dove ci sono le persone vere, gente autentica. Certo, vediamo i numeri dell'Auditel, ma sono cifre e percentuali. A prima vista sembrerebbe che le suorine, «attive in 80 oratori, «costantemente a contatto con giovani e famiglie» (di bene in meglio, sempre più paese reale), fossero un campione fin troppo prevedibile. Riferisce infatti Nicoletti che il 38 per cento delle sorelle individua in Piero Angela l'esemplare televisivo più amato. Fin qui, niente di speciale. Tutti noi siamo afflitti da indagini demoscopiche secondo cui il pubblico vuole l'approfondimento e le inchieste, la serietà e possibilmente la noia. Possibile che anche nei conventi prevalga questa lieve ipocrisia? Che le suore pratichino la dissimulazione, per quanto onesta? Ma no. Alle suore piace la tv. E anche loro sanno benissimo che l'intrattenimento è l'intrattenimento. Che non si vive soltanto di documentari. Alla fine non ci si può accontentare soltanto di fiction sui papi e su Padre Pio. Difatti, anche le suore hanno un cuore. Che batte certamente per Don Matteo (il quale di recente ha inflazionato la Rai con continue ospitate di Terence Hill provocando violente ondate di ateismo di ritorno, nonché accessi di anticlericalismo vecchio stampo); ma «una suora su due vorrebbe il ritorno di Paolo Limiti in video; per le sorelle è un uomo rassicurante e ottimo storico della cultura popolare». Vedete che cosa succede a fare le inchieste. Si scopre che le sorelle invitano Michele Cucuzza a tornare opportunamente al tg, che preferiscono la "Domenica sportiva" di Paola Ferrari alle maschere di "Controcampo" e che qualcuna apprezza anche l'Annunziata, nel senso di Lucia, non della Santa Vergine. Ma il colpo gobbo è proprio Limiti. Quello che secondo Aldo Grasso faceva «un karaoke dall'oltretomba», la tv delle mummie, l'archeologia canora. E ridateglielo, Limiti, allora. Lo dice il paese reale. Lo vogliono le suore. Questa è una crociata, lo dice anche l'eremita: Dio lo vuole.
L'Espresso, 11/05/2006
Tutti i santi Michele
Dieci anni di articoli per "la Repubblica", l'impegno quotidiano di uno scrittore che si consegna al commento dell'attualità, pedina fatti e misfatti, grandezze e piccolezze, minuzie, inezie ed eventi colossali: il giornalismo è anche un modo per far finta di essere sani, e Michele Serra ha raccolto le sue malattie ricorrenti in "Tutti i santi giorni" (che esce in queste ore da Feltrinelli). I lettori riconosceranno la prosa apparsa nella rubrica "L'amaca", e diversi articoli di intervento sollecitati dalla cronaca. Ma letti a distanza di tempo i testi montati in questo libro acquistano un'altra intonazione, una tonalità che stupisce per coerenza e consequenzialità nel tempo. Vuol dire probabilmente che dalla cronaca nasce una filosofia. Basta leggere le prime pagine, inedite, dedicate a una mattinata qualunque, allorché l a radiosveglia diffonde nella camera da letto la voce di Roberto Calderoli, per capire che l'ottimismo che Serra giudica necessario per affrontare una giornata altrettanto qualunque è per la verità lo specchio del suo pessimismo: in ogni caso, di quel sentimento psicologico necessario per affrontare la realtà «quando la prima impressione del mondo è che i mostri ne abbiano preso possesso, sotto forma di ganze con la bocca rifatta che invadono il video, o dei bruti di fondovalle che incredibilmente fanno il ministro». Dopo questa ouverture, il libro è strutturato come una giornata tipo, con il lavoro, il mezzogiorno, il dopopranzo, la cena. Si diverte, Serra, a fare il reazionario, l'anticonsumista, l'antiamericano (prendendosela magari lateralmente con lo spugnoso pancake, da inzuppare con lo sciroppo d'acero, «un'orribile puccia melensa e stucchevole», «che era la sola cosa americana, assieme al baseball, fin qui giudicata inesportabile»). Solo che nel corso di una giornata qualunque si attraversano quasi tutte le mitologie contemporanee, dal "brunch" alla temperatura «percepita», al raffreddore da fieno dipinto come un fragello dal tg di turno, tra una fauna composta di «centrocampisti e veline», nell'infinito reality show in cui viviamo tutti, magari rabbrividendo. Sicché alla fine sembra del tutto adeguato lo schema sarcastico del «Mangiate merda: cento miliardi di mosche non possono sbagliare». Ma bisogna considerare che l'esercizio esorcistico di Serra, i suoi contravveleni sociopolitici, le sue dichiarazioni di opposizione sono in esplicita controtendenza, il frutto dell'atteggiamento disfattista dei «soliti moralisti di sinistra come me». Michele, ovvero la negazione perfida dell'euforia: «So che è un pensiero economicamente scorretto, ma ogni volta che i consumi calano non riesco a condividere del tutto il lutto generalizzato». È come se lo spettatore Serra vedesse davanti a sé uno spettacolo che capisce perfettamente ma di cui non condivide nulla. E allora, di fronte all'indicibile, alle porcate del calderolismo, fugge nel nonsense più di buonsenso: «Vedo con particolare favore un'invasione cinese della Padania. Sono maneschi come gli americani, ma hanno una cucina migliore». Perché forse una salvezza possibile è nello stupore, nello sbalordimento, forse addirittura nella catalessi percettiva. Serra commenta la crisi dei sondaggi (perché abbiamo attraversato anche la crisi dei sondaggi, dopo la fede nei sondaggi e ultimamente la sfasatura degli exit poll): «Più della metà dei sondati rifiuta di rispondere». E allora l'ammutolimento è forse l'unico modo per continuare a ragionare, e a scrivere.
L'Espresso, 11/05/2006
Laboratorio Veltroni
Parliamo con Walter Veltroni poco dopo che Franco Marini ha conquistato il seggio più alto di Palazzo Madama, affiancando Fausto Bertinotti al vertice delle Camere, ponendo fine a una impasse piena di inquietudini per il centrosinistra, e subito dopo la cerimonia con cui le autorità italiane hanno accolto a Ciampino le salme dei militari italiani uccisi nell'attentato di Nassiriya. Sentimenti contrastanti, quindi, mentre il popolarissimo sindaco di Roma si sta preparando al rush che lo riconfermerà al Campidoglio: il suo antagonista, Gianni Alemanno, sembra rappresentare più una candidatura di bandiera che non un'alternativa politica reale. Anzi, il fatto che l'ex missino Alemanno rappresenti una posizione di frontiera, sul margine estremo dello schieramento della Casa delle libertà, ha già determinato effetti imprevisti nel centrodestra, come la nascita della lista "Moderati per Veltroni", creata da Alberto Michelini, membro dell'Opus Dei, che alle elezioni politiche del 9 aprile era candidato per Forza Italia. In ogni caso, Veltroni rappresenta un unicum nel panorama dell'Unione. Forse la sola personalità politica che nel futuro potrebbe rappresentare un autentico scatto in avanti "postideologico", una risorsa politica in grado di dare un impulso originale all'evoluzione politica del centrosinistra. Il possibile protagonista, come sta dimostrando con la sua azione in Campidoglio e con il consenso che raccoglie nella capitale, di un salto culturale di cui l'Unione ha un bisogno essenziale. Quando dice «noi», sembra infatti riferirsi non soltanto e generalmente all'Unione, ma a una specie di Camelot romana, dove con la sua "band of brothers" sta sperimentando un metodo di governo e il paradigma possibile del centrosinistra futuro. Sindaco Veltroni, qual è la sensazione che si prova di fronte al primo passaggio politico della legislatura? Al Senato è sembrato che l'Unione rischiasse di incartarsi, e avesse successo l'offensiva della Cdl tesa a dimostrare che c'è una prospettiva di ingovernabilità. L'elezione di Marini risolve tutto? Le nuvole si sono dissolte? La strada è già in discesa? «In questo momento c'è la sensazione consapevole di essere usciti finalmente dal collo dell'imbuto: eravamo in una condizione di sospensione, di incertezza, dentro una transizione che sembrava non finire mai. Ora, dopo tutte le polemiche innescate da Silvio Berlusconi, dopo accuse che ormai appaiono infondate, torniamo dentro la realtà. L'elezione di Bertinotti e Marini, la soluzione del puzzle di Camera e Senato, fissa ufficialmente il momento del cambio di fase politica. È un processo speculare: si chiude un'epoca segnata dal centrodestra e nello stesso tempo si apre quella sotto il segno del centrosinistra. In questa specularità si manifesta il cambiamento, la sensazione che la politica ha preso un'altra direzione». Una specie di momento storico per il nostro paese e per il centrosinistra. E quindi impegnativo. Forse troppo, per un'alleanza variegata come l'Unione. «Siamo davanti a un crinale, a una prova decisiva per il riformismo. E questo deve indurci a ragionare con passione e insieme con freddezza. Un momento simile non accadrà mai più, e non ci sarà un'opportunità come questa». Di fronte a questa occasione come deve porsi il centrosinistra? «C'è innanzitutto la necessità di un accertamento rigoroso delle condizioni in cui il centrodestra lascia il paese. Noi siamo convinti, anche adesso, fuori dalla campagna elettorale, che l'Italia è in uno stato drammatico, come il presidente Ciampi ha confermato con le sue parole il primo maggio. Non è questione di propaganda politica, o di disfattismo, di "declinismo": bisogna guardare i conti veri, e valutare qual è stato l'effetto delle politiche del centrodestra. Il sospetto è naturalmente che la realtà sia molto peggiore dei dati ufficiali. Siamo abituati a faccende del genere: quando Marrazzo è entrato alla Regione Lazio, ci ha messo niente per accorgersi che il deficit della sanità era il doppio di quanto dichiarato». D'accordo, ci vuole la "due diligence". Ma non si può governare recriminando, come ha fatto per cinque anni il centrodestra. «No, dobbiamo dare subito l'idea del cambiamento. E dobbiamo darlo in base a due profili. Il primo, quello della sobrietà. Il secondo, quello del rapporto con il popolo». Addirittura il popolo. «Mi lasci spiegare. Sulla sobrietà dovrebbe essere facile intendersi, dopo cinque anni di berlusconismo: mi riferisco a uno stile di governo, basato su un'idea sana della politica. Non è vero che i cittadini rifiutano la politica: accettano invece facilmente una politica lieve e alta, lieve e non invadente, con partiti non intrusivi, i quali devono capire a fondo la relazione del tutto nuova che la gente chiede alla politica. Tutto questo si deve vedere nella scelta degli uomini, nella ricchezza delle competenze portate in politica, nella terzietà come valore». Che cosa intende con terzietà? «Ci sono aree e settori della vita pubblica che devono essere sottratti all'occupazione della politica e alla logica dello spoils system. In questo senso la terzietà è un valore che va dalla Corte costituzionale al servizio pubblico televisivo, e che non può essere consegnata alla tagliola bipolare». E il popolo? «Vede, le esperienze più belle del centrosinistra, dei governi riformisti nelle democrazie avanzate, si sono basate su due pilastri: la capacità di unire crescita e modernizzazione, da un lato, a uno sguardo aperto alle opportunità e ai disagi, dall'altro. È questa in fondo la maggiore differenza rispetto al pensiero di Berlusconi, esemplificato dalla frase infelice sul figlio dell'operaio e sul figlio del professionista, e sulla sinistra che vorrebbe colpevolmente, a suo parere, portare il primo al livello del secondo. Ma è proprio così, noi siamo diversi, e vogliamo dare opportunità a tutti: anzi, oggi uno dei principi tradizionalmente più forti della sinistra, la tensione verso l'uguaglianza, va interpretato politicamente nello sforzo di abbattere le barriere sociali, nel costruire parità di occasioni, nel favorire la mobilità. Benvenuta una società in cui il figlio dell'operaio può competere con il figlio dell'avvocato, non le sembra?». In realtà la destra accusa la sinistra di difendere privilegi e i cosiddetti diritti acquisiti, cioè una società immobile. «Potremmo rispondere che la destra vuole una società castale. Ma il punto vero è che noi, il centrosinistra, non dobbiamo avere paura della nostra idea di società. Io ho sempre diffidato di un riformismo "freddo". La fortuna della nostra esperienza di governo a Roma dipende da un'idea di modernità che non è centrata soltanto sulla città "connessa", su una comunità collegata a Internet grazie al wi-fi, ma anche sui centri di trattamento e di assistenza per l'Alzheimer, su un welfare che unisce politica pubblica e volontariato. Il riformismo che arriva vicino alla gente, che valorizza le opportunità, è un sentimento caldo, con un calore particolare per i cittadini meno avvantaggiati, che devono sentire la vicinanza del riformismo, la sua concretezza...». Ciò che lei definisce il «governo di prossimità». Ma non le sembra che finora, almeno fuori di Roma, il centrosinistra non abbia saputo offrire un messaggio culturale, un'idea di governo, nonostante l'ampiezza enciclopedica del programma dell'Unione? «Occorre comunicare alcuni messaggi, elementari ma centrali. Il primo: ci vuole una politica integrata sulla formazione e la ricerca. È essenziale far capire che dobbiamo girare pagina». Questo che cosa significa, ad esempio rispetto alla riforma Moratti, che molti a sinistra considerano regressiva sul piano sociale? «Premetto che non si può vivere nell'ossessione della destra, e quindi non penso che si debba abbattere tutto, perché non si può rivoluzionare le riforme a ogni legislatura: credo invece che sia necessario uscire dallo schema delle riforme a stralcio, a pezzi e bocconi. Senza un disegno complessivo non si va da nessuna parte. Ci vuole un disegno organico dagli asili nido all'università e alla ricerca, in modo che si veda l'intenzione generale di una politica. Certo, è più difficile, ma si tratta di un tema politico su cui ci giochiamo il futuro». Sulla formazione e la ricerca è arduo essere in disaccordo. Poi però ci sono le scelte che incidono sull'economia e cioè sugli interessi. E qui comincia il difficile. «Non è mia intenzione fare della retorica. Dobbiamo guardare la realtà, senza sconti. A Roma, tanto per dire, abbiamo definito la costruzione di campus universitari nei quartieri periferici della città, con un evidente doppio significato sociale, di connessione a due vie fra la ricerca e il concreto tessuto urbano. Quanto all'economia, comunque, sono convinto che il centrosinistra deve scegliere esplicitamente una prospettiva legata allo sviluppo sostenibile. Se pensiamo alla trasformazione che l'apparato industriale italiano dovrà affrontare, l'orizzonte della sostenibilità, e il tema connesso della qualificazione dell'ambiente, diventano centrali. Anche in questo caso, non c'è soltanto un enunciato politico. Noi abbiamo prodotto politica: ad esempio, abbiamo approvato una delibera simile a quella di Barcellona, secondo cui tutte le costruzioni nuove devono essere alimentate con energia rinnovabile, l'acqua per il 50 per cento e l'elettricità per il 30». Può darsi che Roma sia un laboratorio del centrosinistra. Ma si può proiettarlo sul piano nazionale? «Pensiamoci su: o noi scegliamo una specificità autenticamente italiana, che nel cambiamento della struttura economica punti esplicitamente sulla cultura e l'ambiente, oppure rischiamo di perdere il vecchio senza conseguire il nuovo. Ci sarà pure qualche ragione se nel turismo Roma cresce del 6 per cento mentre l'Italia cala simmetricamente della stessa percentuale. Più 6, meno 6: ma la crescita di Roma non è casuale, non è data solo dal fatto che noi abbiamo il Colosseo e la Fontana di Trevi. C'è stata una valorizzazione del tessuto urbano, iniziative come l'Auditorium, un lavoro continuo sulla specificità artistica e culturale della città, ma anche una tensione costante alla inclusione sociale e al recupero delle periferie». Sembra un'idea di sviluppo "leggero". Eppure il paese ha un deficit rilevante anche su aspetti pesanti come le infrastrutture. «Vero, ma anche un grande progetto sulle infrastrutture va concepito in chiave di sostenibilità, per trasferire traffico dal privato al pubblico; e inoltre le metropolitane, il trasporto pubblico, le grandi utility, insomma tutte le dotazioni infrastrutturali, vanno collocate su uno sfondo di sviluppo che faccia i conti con obiettivi sociali rilevanti, a partire dalla riduzione della conflittualità. Grazie al cielo noi non abbiamo periferie abbandonate a se stesse come quelle parigine; ma in prospettiva anche le infrastrutture vanno pensate come strumenti per una società che non esclude, anzi, una società volutamente inclusiva». Lei sembra convinto che l'economia è secondaria, rispetto ai grandi sentimenti collettivi. «No, l'economia è centrale, ma un paese vive se ci sono due segni più: più crescita e più integrazione sociale. Oggi il sentimento sociale può oscillare dalla paura alla speranza. La paura è il sintomo di una grande fragilità, il timore di perdere ciò che si ha. Il centrodestra ha investito su tutte le paure possibili, dall'immigrazione alla tassa di successione, dalla criminalità alla concorrenza cinese. Noi dobbiamo cercare di riprendere il filo tra le persone e una speranza, e quello che chiamiamo il governo di prossimità è il tramite che mette a contatto chi amministra con la vita reale delle persone». Si tratta di capire chi sarà in grado di proporre questa speranza. «Il voto del 9 aprile ha detto una cosa semplicissima, che moltissimi avevano capito da tempo, semplici cittadini, semplici elettori: ogni volta che ci date una casa più larga stiamo meglio». Il che significa che il Partito democratico è uno sbocco obbligato. «Naturalmente, ne sono convinto, l'ho detto in ogni occasione e lavorerò perché diventi una realtà. Tuttavia occorre essere coscienti che il Partito democratico non è la semplice somma di Ds e Margherita. Dobbiamo coinvolgere milioni di italiani che hanno voglia di partecipare a un'esperienza di riformismo realista». Oppure al realismo utopico del primo Blair, ispirato da un intellettuale come Anthony Giddens. «Sia come sia, è necessario che il Partito democratico nasca quartiere per quartiere, nelle città, nei paesi, raccogliendo i cittadini, i giovani, gli intellettuali, gli imprenditori, i lavoratori. Deve essere un partito leggero nella struttura, ma dotato di convinzioni forti. Guardi, voglio sbilanciarmi: credo che in prospettiva sia un soggetto politico che può diventare maggioritario, a patto che sia pluralista in campo etico e culturale. E intanto l'Ulivo, cioè l'embrione parlamentare del partito nuovo, rappresenta lo sfondo migliore e più rassicurante per il governo di centrosinistra, la sua base di consenso e il suo strumento parlamentare più efficace». E sul piano del riformismo costituzionale? Qualche osservatore avverte il rischio che la bocciatura della riforma della Cdl porti a una stagnazione del rinnovamento istituzionale. «Intanto bisognerà dire la verità all'opinione pubblica sui conti e chiarire quali politiche dovranno essere attuate. Sono convinto che in seguito, nella seconda parte della legislatura, dopo avere rimesso in linea di volo il paese, occorrerà trovare uno strumento di discussione con l'opposizione, un organismo ad hoc, un tavolo di confronto. Perché c'è l'esigenza di ricostruire un assetto istituzionale funzionante, a cominciare ovviamente dalla legge elettorale, cercando un buon equilibrio fra il ruolo delle assemblee elettive, la cui funzione di controllo deve essere rafforzata, e il potere da attribuire al premier. La mia convinzione è che un sistema elettorale e istituzionale che proietti sul piano nazionale la legge per l'elezione popolare dei sindaci sia un buon metodo. La formula per i sindaci ha cambiato il modo di essere delle città, che sono diventate motori di sviluppo, fonti di innovazione, luoghi in cui la responsabilità politica viene messa a confronto con il giudizio diretto dei cittadini». Ma si può fare una riforma condivisa con l'opposizione, dopo che per tutta la campagna elettorale il capo del centrodestra ha giocato alla guerra civile? «La società non è così divisa come appare, e neanche intossicata, avvelenata. Avvelenata semmai è la politica, e gli avvelenatori non sono mancati. Per questo credo che invece sia possibile trovare un metodo che porti a negoziati e accordi. È lo stesso concetto che ha ispirato la richiesta di un "pit stop" da parte di Luca Cordero di Montezemolo. Io farò il possibile per dare una mano. Una mano al Partito democratico, così come a un accordo per le riforme. Le due cose, secondo me, vanno avanti insieme». n