L’Espresso
L'Espresso, 18/05/2006
Reality Rossellini
In coincidenza con il centenario della nascita di Roberto Rossellini si sono sentite alcune polemiche di famiglia, poco interessanti: mentre è di qualche interesse cercare di ricostruire l'idea che il regista di "Roma città aperta" si era formato a proposito della televisione. Meritoriamente, Raisat Cinema World ha dedicato l'intera serata dell'8 maggio al mondo cinematografico di Rossellini: sono stati mandati in onda "Il generale Della Rovere" (1959), "La forza e la ragione" (un'intervista del 1971 a Salvador Allende) e un colloquio con Carlo Mazzarella sul set del film "Viva l'Italia". Ma dal punto di vista della riflessione sulla televisione il documento più significativo di quella serata è stato il film di Jean-Louis Comolli (regista e docente di cinema che è stato a lungo caporedattore dei "Cahiers du Cinéma") "L'ultima utopia", che porta come sottotitolo "La televisione secondo Rossellini" (produzione Ina e Vivo Film). Il film di Comolli prende le mosse dal grande, anzi immane, visonario progetto di Rossellini concepito agli inizi degli anni Sessanta per la Fides: una specie di storia generale della civiltà, dalla preistoria al Novecento, in cui si sintetizzasse ciò che conosciamo come il "realismo" di Rossellini. Ciò che sorprende non è tanto la smisurata grandezza del progetto, di cui il regista realizzò soltanto alcuni capitoli (dedicati fra gli altri a Socrate, Agostino d'Ippona, Pascal); ma è piuttosto la sua radicalità. Rossellini si dichiarava infatti contrario allo «spettacolo»: intendeva la televisione come un mezzo che potesse andare al cuore delle cose, alla loro essenza, senza la minima concessione allo show. «Anch'io ho fatto lo spettacolo, in passato, ma ora non lo voglio fare più». Concepiva evidentemente una potenzialità straordinaria nel medium televisivo, e voleva proporre un programma culturale, quasi un manifesto della televisione per la società di massa. Non tanto per sviluppare una pedagogia civile, quanto per modellare le immagini secondo una necessità artistica e culturale irriducibile, scabra, senza nessun orpello. Non era una televisione fuori dalla realtà, era un progetto senza tempo. Oggi, calati come siamo nella tv tutta spettacolo, tutta reality show, il progetto di Rossellini sembra un reperto d'epoca. Lo è infatti, ma con una forza contestativa che offre ancora un metro di giudizio per capire, e magari esecrare, la tv di oggi.
L'Espresso, 18/05/2006
Nostalgia canaglia
Noi non ricorreremo alla vieta battuta sull'operazione Piedi puliti e su Pedatopoli. Vorremmo semplicemente proporre un piccolo manifesto per rifare il mondo del calcio. Vi chiederete chi siamo noi: siamo i nostalgici. Gente che sa benissimo che il mondo è guasto, non c'è più religione e non c'è mai stata, che il Pallone è sempre stato gonfiato con quattrini, scommesse, partite arrangiate, arbitri comprati, venduti e cornuti. Com'è noto, e come dicevano i vecchi gourmet calcistici, il calcio non è un gioco per signorine. E quando lo è, devono essere signorine molto, molto disponibili. Non siamo mica moralisti. Ci andava bene tutto perché ci avevano promesso una quantità di roba: che il calcio sarebbe diventata un'industria, possibilmente quotata in Borsa, che le società sarebbero divenute imprese, i dirigenti si sarebbero trasformati in manager. Da un lato. Dall'altro, il gioco sarebbe diventato una scienza. Schemi perfetti, moduli esatti, traiettorie tracciate al computer. Nulla lasciato al caso. Il tre-quattro-uno-due o la difesa a cinque come una manifestazione della Trinità o dei Cinque postulati di Euclide (erano cinque, i postulati? Se sono di meno, compriamone qualcuno). E invece ci ritroviamo in una situazione in cui abbiamo il calcio corrotto di una volta, solo che rispetto al passato il piccolo cabotaggio delle combine, delle torte, delle pastette, è diventato a quanto dicono gli esperti un'industria del crimine. Allora, se è soltanto una questione di formato, per favore, non menatecela più. Non raccontateci più balle, dopo il tagliatasse, il salvafallimenti e il lodo sui diritti televisivi comprensivo dei rovesci finanziari. Se il calcio è rimasto quello di una volta, solo infinitamente più gonfiato, si tratta di tirare le conseguenze. Torniamo indietro. Ma integralmente. Torniamo all'epoca dei dirigenti pasticcioni, e anche allo stile faraonico dei presidenti storicamente definiti "ricchi scemi". Ma niente mezze misure: perché essere solo pasticcioni quando si può essere irresistibilmente cialtroni? Perché solo leggermente disonesti quando si può tornare ad agire da autentici farabutti? Non si trascuri che ciò può avere conseguenze entusiasmanti. I presidenti dovranno essere capaci esibire il remake di espressioni celebri come quella in risposta alla diagnosi dell'allenatore di turno sulla mancanza di amalgama: «Quanto costa questo amalgama, ché lo compriamo subito» (ovvero i latinismi imperfetti come "sine qua non", siamo qua noi). Gli allenatori saranno scelti solo tra ubriaconi, bevitori e sottanieri impenitenti. E quanto ai giocatori e al gioco, urge riaprire il discorso. Riaperto il discorso, sia chiaro che si dovrà giocare come una volta, con il libero, i terzini, le ali, senza fisime tattiche di tipo sacchiano o zemaniano. Anzi, i difensori dovranno essere truculenti e assassini, gli attaccanti veloci e potenti anche se possibilmente con i piedi di granito o unipedi. I trequartisti saranno giocolieri, funamboli, foche ammaestrate, capaci di tutto con il pallone anche se fisicamente flebili. E per finire: nel calcio del futuro, cioè quello di una volta, la preparazione fisica andrà considerata e punita come il doping. Cioè un mezzo illegale. Se deve vincere il talento, chi la mette sull'atletico va squalificato. Sine qua non.
L'Espresso, 18/05/2006
Lord Giorgio d’Italia
Il punto decisivo della vicenda politica di Giorgio Napolitano si fissa a metà degli anni Ottanta, allorché il Pci dell'ultimo Berlinguer raggiunge l'acme del risentimento antisocialista, contro il Psi della «mutazione genetica», contro la figura ingombrante di Bettino Craxi. Fu una parte minoritaria del Partito comunista a cercare di mantenere un contatto con i socialisti. Ma il mainstream del partito era modellato su una contrapposizione irriducibile, quasi sulla ripugnanza che a Berlinguer e ai berlingueriani ispirava il modernismo spregiudicato dei craxiani. Mentre per i movimentisti come Pietro Ingrao, la stessa concezione di un compromesso con il Psi risultava insostenibile se configurava una mediazione "socialdemocratica" al ribasso. E un uomo come Napolitano, indiscutibilmente il leader della "destra" comunista, veniva facilmente esorcizzato dagli ingraiani con l'epiteto di "migliorista", con un chiaro riferimento, come ha ricordato in questi giorni Emanuele Macaluso, al migliorismo prampoliniano (ossia a un'azione politica che intende migliorare le condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice senza rivoluzionare le condizioni strutturali del capitalismo). Allora apparve a molti che l'azione di Napolitano fosse insufficiente. Lo ha ricordato di recente, e in modo spregioso, Giuliano Ferrara, accusandolo sarcasticamente di avere segatura al posto del sangue. Certamente fu debole il suo tentativo di reagire dall'interno all'iniziativa del Pci contro il referendum sulla scala mobile, che si sarebbe rivelato uno dei colpi gobbi di Craxi in quella che allora appariva una strategia di stampo mitterrandiano, teso a ridimensionare e a relativizzare il partito comunista. Ma occorre considerare che a dispetto dell'aplomb aristocratico, dell'anglofilia, del gusto puntiglioso e di un'eleganza formale indubitabile, Napolitano è sempre stato, fin quasi all'ultimo, un uomo di partito, e dunque di "quel" partito. Di un organismo quindi in cui non si tolleravano strappi, dove i mutamenti avvenivano in modo bradisismico, dopo essere stati valutati con attenzione lenta e macchinosa, e infine vidimati con un senso di liberazione finale e collettiva. Fin dal momento in cui si iscrisse al Pci, nel novembre del 1945, «presentato» da Mario Alicata e Renzo Lapiccirella, il ventenne Napolitano, che sembrava destinato a una vita culturale d'alto bordo, entrò in simbiosi con quell'entità singolare che era il Pci. Aveva frequentato per qualche mese Curzio Malaparte, uno strapaesano fascista sulla via di un comunismo nazionale, salvo poi rinunciare a quel rapporto per l'incompatibilità fra psicologie, e dei rigori; Alicata gli aveva affidato la rubrica di critica teatrale sulla «Voce», quotidiano che allora usciva a Napoli; era insomma intriso della cultura di quella Napoli vivacissima che usciva dalla guerra cercando una propria via, fra il crocianesimo e orientamenti nuovi, il cinema, la poesia, l'America di Elio Vittorini, con una spruzzata di marxismo che allora si limitava al "Manifesto" del 1848, letto in appendice del Labriola ripubblicato da Croce. «Continuavo in realtà a soffrire di insufficiente approfondimento e convinzione dal lato "ideologico", ma sempre più forte si era fatto in me l'impulso politico e, direi, morale, il senso della necessità di un impegno concreto a operare in una realtà dolorante, carica di ingiustizie e di miserie». Nacque in quel contesto il rapporto con Giorgio Amendola, «energia politica allo stato puro», e si confermò allora «l'intimo rifiuto del destino di avvocato» (come ha confessato con una lievissima autoironia nella sua autobiografia politica, "Dal Pci al socialismo europeo", uscita pochi mesi fa da Laterza). Bastano queste annotazioni per capire una personalità complessa, intrisa di intellettualità meridionale attraverso il rapporto precocissimo con i giovani del settimanale "IX maggio" dei Guf di Napoli, organizzazione universitaria fascista che «era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherato e fino a un certo punto tollerato». Il gruppo napoletano comprendeva Raffaele La Capria, Luigi Compagnone, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Tommaso Giglio, Massimo Caprara. Tutti destinati a carriere di primo piano nella letteratura, nel cinema, nel giornalismo (ancora oggi, parlandone con affetto volutamente spudorato, Antonio Ghirelli dice: «Giorgio è mio fratello»). Dicono i suoi nemici che Napolitano è sempre stato un campione nel rilevare a posteriori gli "errori" del Pci a cui aveva contribuito. L'opposizione al progetto degasperiano di integrazione europea, considerata «un sottoprodotto della strategia di divisione e di asservimento dell'Europa attribuita agli Stati Uniti», e che configura oggi ai suoi occhi «forse il più grave segno di cecità della sinistra, che avrebbe pesato a lungo sul suo ruolo nazionale e internazionale». Nel 1956, la giustificazione dell'intervento militare sovietico in Ungheria, i carri armati a Budapest, con un intervento polemico contro Antonio Giolitti (che in seguito ai sanguinosi fatti ungheresi uscì dal Pci): «Mi mosse allora anche un certo zelo conformistico», avrebbe poi confessato; e questa confessione, unita al «tormento autocritico» che perdura a distanza di mezzo secolo, di nuovo lo accomuna esistenzialmente, se non politicamente, a Ingrao e a tutta una generazione comunista passata attraverso le tragedie del Novecento. In fondo, Napolitano è la sintesi migliore dell'impossibilità del Pci di essere normale: della sua impossibilità di condurre tempestivamente una revisione in senso non marxista, come i socialdemocratici tedeschi della Spd avevano fatto già nel 1959; dell'incapacità dunque di presentarsi come alternativa politica reale, dopo il fallimento del centrosinistra (quello di Moro, Nenni e Fanfani). Uno degli episodi meno ricordati di questi tempi risale al momento in cui Amendola lanciò su "Rinascita", in risposta a Norberto Bobbio, l'idea del «grande partito unico del movimento operaio», né socialdemocratico né comunista. Ne venne una bufera nel Pci, soprattutto alla base. Naturalmente alla federazione di Napoli, di cui era diventato segretario, Napolitano assunse un atteggiamento «misurato, sdrammatizzante», anche se oggi è disposto a riconoscere: «Finii per sottovalutare il senso della scossa salutare che era venuta da quelle prese di posizione, per quanto contraddittorie o non conseguenti, di Amendola». A guardarle con gli occhi di oggi, contraddittorie o non conseguenti erano le posizioni del Pci: capace di esprimere il suo «grave dissenso» nel 1968 rispetto all'invasione di Praga, di impegnare tutta o quasi la propria credibilità nell'esperienza di solidarietà nazionale, in coincidenza con la gravità degli choc economici e con l'aggressività del fenomeno terrorista sfociata nell'assassinio di Aldo Moro; ma nello stesso tempo impossibilitato dal suo Dna, dalle storie personali dei dirigenti, dal peso della cultura gramscian-marxista, a portare fino in fondo una revisione che lo legittimasse senza residui al governo del paese. «I nostri limiti di fondo furono due», dice Napolitano: «Da un lato, quello di restare impastoiati nella falsa coscienza che il Pci aveva di sé come forza rivoluzionaria; dall'altro, di non fare i conti con la necessità di sbloccare il sistema democratico italiano, traendo da questa necessità tutte le ineludibili implicazioni». Oggi, la sua elezione al Quirinale viene salutata come la fine di ogni possibile pregiudiziale anticomunista. Grazie all'ossessione berlusconiana, si dimentica, come Napolitano ha raccontato spesso, che questa pregiudiziale cadde ufficialmente già all'epoca della "non sfiducia" (1976), dopo che Ingrao era stato eletto alla presidenza della Camera, e con la nomina di numerosi esponenti comunisti alla presidenza di varie commissioni parlamentari. Tutto ciò mentre la figura di Napolitano continuava a evolvere proiettandosi sempre più su uno sfondo culturale e "diplomatico": l'amicizia intellettuale con Piero Sraffa a Cambridge, il primo viaggio in America nel 1978, con una storica presentazione di Franco Modigliani a Harvard, con l'intellighenzia americana intenta a osservare con simpatia il rappresentante dei comunisti "pinker than red". Ogni evoluzione possibile del rapporto con i socialisti, e del Pci stesso, crolla con il referendum sulla scala mobile che si sarebbe tenuto nel 1985. Racconta Napolitano: «Avevo espresso le mie preoccupazioni a Reichlin, ma furono soverchiate dal clima parossistico e dalla lotta di logica a oltranza che dominava il vertice del Pci». A incaricarsi di provocare il cambiamento del Pci sarebbe stata la storia, con la caduta del Muro, la Bolognina, lo strappo di Achille Occhetto. Già nell'agosto del 1989, mentre "Der Spiegel" titolava "Explodiert Ddr" e in Italia pochi si erano accorti della crisi finale dell'impero comunista, Napolitano diceva a "L'espresso" che le ultime contorsioni del comunismo sovietico «inducono a giudizi e conclusioni che vanno al di là di ogni nostra posizione precedente». Era la premessa della svolta che avrebbe portato al cambiamento del Pci. Ma anche alla proiezione di Napolitano sempre più verso la dimensione europea. In ogni caso, presidente della Camera nei due anni di Tangentopoli, ministro degli Interni con Romano Prodi, figura eminentemente istituzionale, riconoscibile nel profilo dei gesti come nella forma delle esternazioni, si trova ora sul Colle più alto, al vertice dello Stato. Finisce per l'ennesima volta la discriminante "anticomunista", e si spera che sia quella buona. Ma c'è anche chi sottolinea un aspetto politico: mentre un Quirinale dominato da D'Alema poteva configurare una ricomposizione "socialista" dell'Unione, una sorta di egemonia su tutta l'alleanza, il presidente Napolitano è l'ombrello migliore per completare il cammino che porta al partito democratico. Se l'operazione riuscirà, anche Napolitano l'europeo, l'americano, il vecchio "ministro degli esteri del Pci", potrà dire di non essere stato soltanto un notabile recuperato dal Novecento. n
L'Espresso, 25/05/2006
Se il troppo Crozza
Il tentativo di Maurizio Crozza di allestire uno spettacolo da largo pubblico è ammirevole, così come è apprezzabile che La7 abbia deciso di mandare "Crozza Italia" in prima serata (il martedì, poi in replica a tarda sera il sabato). Tanto per chiarire: Crozza è uno dei migliori talenti che siano apparsi nell'intrattenimento contemporaneo. Imitazioni che ricreano il personaggio, lo rifanno, lo scavano, ne accentuano un tratto per farlo diventare assoluto. L'Arrigo Sacchi dell'intensitè, dell'umiltè e dello straordinèrio. Il Serse Cosmi del "crosse", nel senso del traversone. E così via. Anche la sua presenza nell'ultimo show di Adriano Celentano, "Rockpolitik", aveva una funzione di esorcismo e di antidoto: vale a dire l'introduzione nell'omelia del "re degli ignoranti" di qualche venatura anarchica e finalmente irresponsabile. Oh, insomma, il giullare deve far ridere, sennò che giullare è? Lo "Zapatero" di allora rappresentava una trovata maliziosa che acchiappava lo spirito del tempo, tanto da essere accolta da peana generali. E allora, funziona "Crozza Italia"? Sì e no. Diciamola tutta: reggere due ore di "one man show" è una faticaccia. Talvolta perfino Fiorello rischia di mostrare la corda, salvandosi con un mestiere infinito. Crozza ha i numeri, e una riscontrabile cattiveria bipartisan, utile per non apparire un propagandista dell'ovvio. Ma dà l'impressione di essere ancora un fantasista capace di dare il suo meglio facendo il comprimario, non il protagonista. È perfetto quando irrompe in uno schema altrui, più che quando è il primattore. Dunque, giudizio sospeso. Ma le ultime puntate vanno godute, anche perché "Crozza Italia" ha una briscola aggiuntiva, ossia la moglie di Crozza, Carla Signoris. Talmente svampita, nelle sue quasi-interviste, da risultare ogni volta irresistibile. La si guarda, con la sua aria quietamente domestica, una casalinga tutt'altro che disperata, e si vede una signora morbida, a suo agio e a suo modo piacente: capace di offrire un tale senso di disponibilità nei confronti degli ospiti da apparire attraente. Anzi, se non è un sacrilegio, addirittura sexy. La televisione ha i suoi misteri: uno comincia a seguire un programma perché c'è il tale, e si ritrova incapricciato artisticamente della talaltra. Comunque Crozza non se ne abbia, di questa intromissione fra moglie e marito: succede, lo si sa, nelle migliori famiglie. Anzi, solo nelle migliori.
L'Espresso, 25/05/2006
E adesso si gioca tutto
Non c'è da fare le mammole, dicono i prodiani, ogni governo è nato da una trattativa tesa fino all'ultimo. Non è una novità che si sia dovuto fare i conti con le ambizioni delle formazioni minori, Rosa nel pugno, Comunisti italiani, il partito di Mastella. Inutile stupirsi per un déjà-vu. Tanto più che lo sanno tutti che il Professore non ha un esercito alle spalle, ma solo una pattuglia striminzita. E che quindi i partiti abbiano rimesso le mani sul giocattolo. È il sistema proporzionale, no? I bei sogni vanno nel cassetto, almeno per ora. Ottimo. Cioè, mica tanto. Insomma, una cosa grigia. Domani è un altro giorno. Il centrosinistra ha una formidabile capacità di dimenticare. Dimenticare la "lezione" delle primarie, tanto per dire, i celebri quattro milioni e tre. Nonché il risultato dell'Ulivo alla Camera, che il 9-10 aprile ha salvato la baracca. Ma mettiamoci anche le dichiarazioni dette e ripetute da Walter Veltroni, «ogni volta che abbiamo messo a disposizione una casa più grande, i cittadini hanno detto: qui stiamo meglio». Tutto nell'oblio? Intanto, a governo fatto, c'è un punto da mettere in chiaro: Romano Prodi dura. O perlomeno: non è a rischio immediato. A risultato elettorale appena acquisito, il suo braccio destro Giulio Santagata aveva confessato agli amici: «Le prospettive del futuro governo Prodi si capiranno subito. Basterà osservare la composizione ministeriale». Adesso il test è pronto: nell'esecutivo sono entrati Francesco Rutelli e Massimo D'Alema, e hanno assunto un ruolo centrale. Si giocano la faccia e il futuro politico. Si stagliano nelle foto accanto al premier. Vuol dire che scommettono sul governo dell'Unione. Probabilmente non avevano altre possibilità. Sarebbe stato paradossale, se non comico, che i due maggiori partiti della coalizione avessero preso una posizione attendista, tipo «vai avanti te che a noi scappa da ridere». Nonostante le manovre e manovrine, i veti, i ricatti, le minacce, le mosse e contromosse sullo scacchiere dei dicasteri che hanno segnato il negoziato per formare il governo, Rutelli, D'Alema, Fassino e tutti gli altri capi e capetti del centrosinistra hanno una consapevolezza: che l'Unione con i prossimi mesi si gioca la pelle, non soltanto la faccia. Il centrosinistra infatti con le ultime elezioni politiche è riuscito a spremere tutto il suo elettorato. Si è trattato di uno sforzo immenso e praticamente irripetibile. I ventiquattromila voti di scarto che hanno significato il successo elettorale, quella fragilissima barriera allo strapotere berlusconiano, sono il segno, il battesimo, il crisma del governo Prodi. «Se il governo fallisce», dice Enrico Letta, trait-d'union con le élite economiche, «siamo pronti per l'estrema unzione». Quindi, governo imbullonato, blindato, ferreamente contrattato per assicurare solidità. Per questo non c'è stato nessun colpo d'ala, niente invenzioni dalla società civile, solo il sigillo tecnocratico di Tommaso Padoa-Schioppa all'Economia: una figura di riferimento e rassicurazione per l'Unione europea, la Banca centrale di Francoforte, i mercati finanziari internazionali, le agenzie di rating. Con Pier Luigi Bersani (e Antonio Di Pietro) a fare il lavoraccio sull'economia reale, le infrastrutture, le grandi opere. Anche per tentare, soprattutto attraverso il pragmatismo popolare del ministro piacentino, di ricucire un rapporto con il Nord, con le associazioni territoriali della Confindustria, nelle quali non si è ancora spento il brusco rigurgito filoberlusconiano (che nella base ha determinato attriti, e se non attriti certamente mugugni, con il vertice di Viale dell'Astronomia). In sostanza, i "poteri forti" dei partiti sono dentro il governo, resi visibili dalle figure di Rutelli e D'Alema alla vicepresidenza di Palazzo Chigi. Il senso è: niente scherzi. Le scaramucce, gli scontri, la politica politicante deve rimanere fuori dal perimetro dell'esecutivo. Solo che in questo modo si profila subito un problema. Il Partito democratico rischia l'ibernazione. La divisione di ruoli fra il governo e il parlamento, fra la gestione del paese e la politica espone una cesura fra un governo politicamente commissariato e le aspettative di rinnovamento del "formato" dei partiti all'interno dell'alleanza. Per ora evidentemente si tratta soprattutto di raffreddare il clima generale. Dopo le battaglie sui vertici istituzionali, incluse le battaglie all'interno della coalizione, il centrosinistra ha bisogno di un varo senza scossoni. Si trova davanti due scogli, le elezioni amministrative e il referendum costituzionale, su cui la Casa delle libertà cercherà di radicalizzare nuovamente il faccia a faccia con l'Unione. Silvio Berlusconi lascia circolare sondaggi secondo cui il centrodestra sarebbe in vantaggio di quattro-cinque punti percentuali, e sta valutando se il suo elettorato è in grado di rimobilitarsi per una ulteriore battaglia campale. Incassate le sconfitte sulle Camere e il Quirinale, il referendum è il passaggio estremo per dimostrare la sua tesi, secondo cui «la vera maggioranza è la mia». Ma anche per l'Unione l'iter costituzionale è uno snodo complicato. Perché la tentazione è quella di sterilizzare il confronto sulle riforme, scegliendo la strada dell'amministrazione. Tuttavia il centrosinistra non può contare solo sull'inerzia: se la spinta riformatrice si stempera, e nel frattempo la prospettiva del Partito democratico si oscura, tutta la retorica sul rinnovamento va fuori corso. Il fatto è che l'Unione non può puntare soltanto sulla credibilità di un governo che si qualifichi come un consiglio d'amministrazione. «Non possiamo rischiare un contraccolpo di delusione», dice il principale teorico del Partito democratico, Michele Salvati. Lo stesso Veltroni, che aspetta dalle elezioni comunali di Roma un'investitura plebiscitaria, ha mandato a dire che la legislatura dovrà avere due fasi: «creazione del Partito democratico nella prima, riforma istituzionale nella seconda». Nel frattempo, Prodi deve cercare un sentiero fra risanamento e crescita. Forse i dati statistici sul Pil gli daranno una mano. Ma intanto bisognerà trovare un ufficiale di collegamento fra il governo e la politica. Circola un identikit, e ha tutte le fattezze di Walter, re di Roma. n
L'Espresso, 25/05/2006
Rosa nel pugno e spina nel fianco
Ad ascoltare con una certa frequenza Radio radicale, è difficile non restare ammirati per la capacità della Rosa nel pugno di martellare su qualche tema politico per portarlo all'attenzione del pubblico. È il caso della polemica aperta da Marco Pannella sui quattro, ovvero otto, senatori non eletti nella Rnp. Si tratta di un caso piuttosto complicato sotto il profilo giuridico e che probabilmente è sintetizzabile nel modo seguente. In base allo spirito della legge elettorale non ci sono dubbi: la Rosa nel pugno non ha raggiunto la soglia di sbarramento al Senato, e quindi non ha diritto a nessun senatore. Ma socialisti e soprattutto radicali si appellano esplicitamente "alla lettera della legge": infatti nella norma elettorale, essendo questa stata scritta con i piedi (come non poche altre leggi della Casa delle libertà) è rimasto un varco. In questo varco Pannella e i rosapugnisti hanno infilato prima un dito, poi il braccio. E andranno avanti a lungo, perché questa è la tecnica su cui Pannella, Emma Bonino e i radicali in genere hanno fondato la loro azione politica. Conta pochissimo che il risultato elettorale della Rnp sia stato particolarmente deludente, a dispetto di quanto si aspettavano i simpatizzanti, che sono particolarmente numerosi nelle strutture mediatiche: i rosapugnisti, o rosapugnoni come li chiama "Il Foglio" si sono comunque arrogati la rappresentanza di quel modesto peso elettorale che ha consentito di far pendere il piatto della bilancia elettorale dalla parte del centrosinistra. Invece conta, e molto, la qualità polemica del piccolo partito aggregato all'Unione. Il caso del Senato non sarebbe molto più che pretestuoso se non fosse l'indizio di una sindrome che ha già colpito il centrosinistra, e che ha mostrato un'eccellente capacità di disorientare i simpatizzanti durante l'iter di formazione del governo. Chiamiamolo "effetto proporzionale", o in qualiasi altro modo, ma il risultato non cambia. La Rnp si è distinta ad esempio con una esplicita operazione di lobbying politico per imporre la figura della Bonino al ministero della Difesa. Non è immediatamente intuitivo quali siano le sue competenze in materia, e per quale motivo invece la Bonino, ex commissario europeo, non potrebbe ricoprire egregiamente il ruolo di ministro delle Politiche comunitarie o un'altra poltrona ministeriale. Sempre ammesso che alla Rosa nel pugno "spetti" una quota di ministeri. Perché per la verità non è affatto detto che il governo debba essere composto in seguito a un sistematico processo di spartizione. Certamente non è ciò che si aspetta quella metà della società italiana che ha votato per il centrosinistra. E invece la sindrome rosapugnista sta agendo in modo virulento dentro l'Unione. Si è vista una sorda lotta per l'aggiudicazione dei ministeri fra i partiti maggiori. Con lo scandalo del povero Giuliano Amato, colui che fu il dottor Sottile, ed è vicepresidente del Pse, palleggiato fra Ds e Margherita, nel senso di rendere chiaro che chi Amato insedia, in carico lo piglia, essendo lui senza tessere di partito. In sostanza, finora l'Unione ha trovato l'unità soltanto nelle elezioni per i vertici delle Camere e per il Quirinale. E quindi bisogna rilevare una notevole sfasatura fra la solidarietà di coalizione, che si vede quando si tratta di occupare caselle istituzionali, e la rivalità fra i partiti, che insorge allorché si passa alla fase della lottizzazione. Non è certo responsabilità soltanto della Rnp o di Clemente Mastella, né di chiunque tratti sulle posizioni di potere e di governo. Resta comunque il fatto che lo spettacolo finora non è stato di buon livello. Anzi. Sembra di essere tornati all'ambiente della prima Repubblica, con i veti, i negoziati, i ricatti. Dice: è l'effetto della legge elettorale voluta dal centrodestra. Sì, può darsi. Ma le leggi sono le leggi, e dopo le leggi ci sono i comportamenti. Per quanto l'opinione pubblica sia distratta dal collasso catastrofico del calcio nazionale, se cominciasse a serpeggiare anche qualche insoddisfazione per il modo in cui il centrosinistra va al governo, verrebbe voglia di dire: chi mal comincia...
L'Espresso, 01/06/2006
Molto meglio le news corsare
Ogni volta che si sente parlare di servizio pubblico, viene voglia di mettere mano alla pistola. Un passo indietro: nel centrosinistra c'è una tesi prevalente, secondo cui il duopolio va certamente ridimensionato, e quindi la Rai privatizzata, ma mantenendo una rete dedicata al servizio pubblico. Che cosa sia il servizio pubblico, intanto, nessuno lo sa. Forse le dirette televisive dei congressi di partito, delle grandi sedute parlamentari, delle manifestazioni sindacali di massa. E poi programmi in prima serata con l'opera lirica, i concerti, la prosa, la cultura, molto Piero Angela. Tutte storie. Chi ha seguito uno dei grandi momenti della religione democratica e istituzionale del nostro paese, cioè l'elezione del presidente della Repubblica, non può non avere condiviso il giudizio di Aldo Grasso: il migliore servizio pubblico l'ha fatto Sky Tg 24 (vale a dire un canale rigorosamente privato e quindi senza alcuna responsabilità istituzionale). Proprio mentre si svolgeva lo spoglio della votazione che ha portato all'elezione di Giorgio Napolitano, la Rai mandava in onda interviste di Anna La Rosa ad alcuni personaggi politici minori, particolarmente desiderosi di apparire; le reti Mediaset mostravano il loro tradizionale disinteresse (ma non si può fargliene colpa, le tre reti di Silvio Berlusconi devono fare i loro calcoli di mercato senza fisime istituzionali). Se la cavava con decenza La7, anche se una piccola rete corsara potrebbe forse valorizzare meglio la propria capacità di intervenire nella vita pubblica. Su Sky Tg 24 si dava lo spoglio dei voti in diretta, cioè la possibilità di interpretare sul momento ciò che stava accadendo. Insomma, dalle chiacchiere alla sostanza c'è un oceano. Il servizio pubblico è sempre stato lo strumento o l'ideologia dietro cui si è acquattata la lottizzazione. Qualcuno obietterà che il servizio pubblico la Rai lo fa effettivamente in certe ore mattutine, cioè nelle fasce commercialmente meno ambite. Ma questo non cambia la sostanza della questione: se una donna fosse virtuosa durante il giorno e troppo disponibile invece la sera, quando scorrono i soldi e lo champagne, la conclusione sarebbe fin troppo evidente. La virtù non è una faccenda oraria. Ragion per cui, quando la Rai fa i documentari in ore antelucane e la sera programma i reality show, la conclusione è una sola: altro che servizio pubblico, trattasi di mignotta.
L'Espresso, 08/06/2006
Modernità su due ruote
Nel ciclismo contemporaneo è successo di tutto, a partire dal doping per proseguire con il sospetto perdurante, ma lo spettacolo del Giro d'Italia è sempre una bellezza, sia in corsa sia nel panorama. Non stupisce quindi che la corsa a tappe abbia dato luogo a libri belli e importanti (si possono ricordare fra gli altri il saggio di Daniele Marchesini "L'Italia del Giro d'Italia", ormai un evergreen, e il recentissimo Gian Luca Favetto "Italia, provincia del Giro", un resoconto avvincente anche sul piano stilistico, vissuto con partecipazione all'interno della carovana). Resta da capire allora se funziona anche la letteratura televisiva, se possiamo chiamare così le cronache quotidiane della corsa. Dopo anni di faticosa messa a punto, le cose vanno meglio. È vero che nei tempi morti Auro Bulbarelli non rinuncia talvolta a esprimere stupore, incredulità e meraviglia rispetto all'ordinaria amministrazione. Tuttavia è preciso, informato, conosce corse, crisi e miracoli di ogni singolo ciclista, campione o ultimo dei gregari, e lo individua alla prima occhiata. Il commento di Davide Cassani è come al solito supercompetente, e anche Silvio Martinello è diventato sciolto nel linguaggio ed efficace nella descrizione (a dimostrazione supplementare che il cliché del ciclista troglodita che dice «son contento di essere arrivato uno» appartiene alla preistoria). Un aspetto curioso delle telecronache di quest'anno è la perdita delle inibizioni rispetto allo "specifico ciclistico". Tutti sanno che le tappe sono lunghe e certi bisogni sono irreprimibili: si sa di leggendari giri persi per un attacco di mal di pancia. Ma in questo 2006 il tabù è caduto definitivamente. Si parla di continuo di corridori che si fermano per soddisfare alcuni bisogni "fisiologici", di attacchi di dissenteria che hanno spremuto questo o quello, di infiammazioni al "soprassella". Se si aggiunge che in certe tappe particolarmente impegnative si guarda con lieve inquietudine allo sforzo dei ciclisti in salita, attestati dai parametri cardiaci che appaiono in sovraimpressione, la conclusione che ne deriva è obbligata: il ciclismo contemporaneo è più che mai una disciplina del corpo. Che poi tutto questo sia sintetizzato dal mezzo etereo per definizione, la televisione, è una delle ulteriori curiosità di una modernità continuamente in bilico fra il passato e l'ultrafuturo, fra il materiale, l'immateriale e l'immaginario.
L'Espresso, 08/06/2006
Fiorello Camilleri
Finora la Sicilia di Andrea Camilleri era possibile solo immaginarla. Oppure osservarla nel ritratto e nelle ricostruzioni della fiction televisiva; certo, si poteva anche lasciarla scorrere, quasi come un film naturale, una pellicola psichica, sullo schermo della fantasia. Ascoltarla no, non era possibile, anche se qualcuno, quando esplose al livello di massa il "fenomeno Camilleri", ipotizzò che sarebbe stato impagabile ascoltare quelle "stories" sicule dalla viva voce dello scrittore. Certo, la voce di Camilleri, impastata dal fumo, arrochita dalle sigarette, è sempre apparsa perfetta per raccontare la Sicilia profonda di Vigàta, luogo della mente e sede di una cronaca che prova a farsi mito, e ancora storia: nella lentezza della scansione, nella perfetta sicilianitudine delle consonanti e delle vocali, nella pigra sillabazione di quel linguaggio miracolosamente sospeso fra il moderno e l'arcaico, si ritrova un'isola che non c'è, ma che in realtà è un continente, uno spazio che attraversa i secoli: e anche strati di cultura, sedimentazioni di antropologia, la Magna Grecia e la mafia, la tragedia e l'ironia, e alla fine il suo profilo appare e scompare proprio come un sottile filo di fumo, sull'orizzonte del mare; oppure sul confine estremo del fantasticare, in una controra narrativa che richiama figure e personaggi dalla trama di quella Sicilia apparentemente immutabile. Lo stesso romanzo che appare in questa nuova iniziativa, "Un filo di fumo", introdotto allusivamente dal celebre verso della "Butterfly" pucciniana, sembra perfettamente adeguato per ritrovare le tracce, i segni e gli indizi di quella Sicilia forse introvabile, ma che comunque ha lasciato le sue impronte sulla letteratura, sulle mentalità, sui comportamenti, perfino sugli stereotipi. "Un filo di fumo" infatti è un breve romanzo pubblicato da Garzanti nel 1980, e ripubblicato da Sellerio nel 1997 (oggi è giunto in prossimità delle trenta edizioni, a riprova che Camilleri non è soltanto uno scrittore di polizieschi destinati ai serial televisivi). Procede di lato, infatti, rispetto al personaggio più famoso di Camilleri, l'ineluttabile commissario Montalbano, ed è per questo che forse consente di gettare uno sguardo (o forse meglio prestare un orecchio) alla letteraria, ma non solo letteraria, Sicilia camilleriana. Chi possiede quel piccolo volume, sa che riporta ancora in appendice un lessico siciliano, una summa del particolare linguaggio di Camilleri. Annota lo scrittore, lievemente esponendo la sua sornioneria: «Livio Garzanti volle pubblicare questo mio romanzo risolvendo le perplessità di alcuni suoi eminenti collaboratori. Mi domandò però, quasi a guardarsi le spalle, un glossario». Oggi il glossario sarebbe in fin dei conti superfluo, perché per intuito o per abitudine di lettura le specialità regionali della lingua di Camilleri sono diventate un patrimonio condiviso, che si può citare come elemento di riconoscibilità, con cui si può scherzare in una conversazione serale. Ma occorreva ancora sentirle risuonare, queste parole, avvertirne il fascino acustico, anzi, l'eco suggestiva della vita e delle storie che esse contengono. L'idea di ricorrere all'arte popolare e sopraffina di Rosario Fiorello è ad un tempo originale e necessaria. Originale perché induce immediatamente a mettere a confronto due grandi di Sicilia, il fantasista e lo scrittore. Due figure che si stagliano idealmente quasi come due pupi in un teatrino. Due eroi popolari che si misurano secondo la loro disciplina. Lo spadaccino Fiorello, il guascone destinato a diventare moschettiere dopo una specie di epopea dumasiana dell'intrattenimento, il talento assoluto capace di fare il verso a tutti o a tutti di dare un verso. Di imitare a "Viva Radiodue" Carlo Azeglio Ciampi ma anche Gianni Minà, e naturalmente Camilleri, «il noto scrittore siciliano» delle telefonate più esilaranti. Chi ascolterà la lettura di Fiorello non potrà non apprezzarne il ritmo, e l'aderenza perfetta al racconto. Si riconosce il clima, l'ambiente della Vigàta di fine Ottocento. È una storia che riporta a paesaggi e a psicologie che sembra di interpretare facilmente, in quanto appartengono anche al nostro impoverito immaginario di non siciliani. Echi di Aci Trezza, suoni di Tomasi di Lampedusa, risonanze di una Sicilia inventata che diventa più reale di quella effettuale. E soprattutto una Sicilia che trova una voce, una musica, uno sfondo "sociale", una personificazione. Per questo si è parlato di necessità. Fiorello infatti non è soltanto un performer. La sua demoniaca abilità di aderire al racconto, di scrutarne le pieghe e le svolte, trasforma in effetti la vicenda di un commerciante di zolfo prepotente e losco in un rendiconto corale, uno spezzone di realtà che dal vecchio Ottocento rimbalza fino a oggi. L'impressione è che il multiforme Rosario sia riuscito a prendersi tutta la Sicilia, e a farla parlare, con quell'inflessione antica e sempre nuova, e stupefacente, perché stupisce in ogni accento: che non recita il dialetto, ma dà un suono a quell'«italiano regionale», nobilitato dalle analisi di Tullio De Mauro e restituito oggi a una specie di universalità sonora. E poi c'è la presenza di Camilleri, il protagonista nascosto. Non soltanto lo scrittore, che conosciamo benissimo: è uno sceneggiatore fantastico, anche lui diabolico nell'immaginare e stendere storie paradossali che alla fine si rivelano reali, o più vere del vero. Chi lo ama ne apprezza ogni volta lo stile apparentemente dimesso, umile perché al servizio della trama, che tuttavia si illumina all'improvviso, in una trovata stilistica, in un colpo di talento dell'immaginazione narrativa. Eppure la presenza di Camilleri è reale. Nel senso che si sente la sua voce che interviene associandosi a quella di Fiorello che sta sfumando: e questo sovrapporsi e sostituirsi conferisce al racconto una specie di piccolo choc rivelatore, qualcosa come un'emozione supplementare, un'altra verità in più. Sembra quasi che nel momento in cui la voce dell'autore interviene nella narrazione, tutto si compia: il racconto trova la sua conclusione più appropriata, la Sicilia trova le proprie parole e una voce, anzi due; e l'ascoltatore può lasciarsi prendere dall'incanto di una storia che, volendo, è pronta per ricominciare. Perché si sa che è sempre stato un piacere ulteriore e sommesso, quello di riprendere un libro da capo, dopo averlo letto, e riandare a vedere ciò che si è perso e ciò invece che è restato aggrappato alla memoria. Qui basta un clic sul tasto "play", e l'intera vicenda può ricominciare: per risentire Fiorello che tenta tutte le corde della propria vocalità, per risentire le musiche di Rava, Sellerio, Damiani, Leveratto. Il suono di una voce, di due voci, di un coro. Il suono e la parola di un'isola. n
L'Espresso, 08/06/2006
Ma dietro l’angolo c’è il Caimano
Ve lo ricordate? Che cosa c'è dietro l'angolo, chiedeva il sor Costanzo, personificazione dell'italiano popolare, sapiente furbacchione che fa il povero fessacchiotto per non pagare dazio. «Sono stato un cretino», confessò allora a Giampaolo Pansa, quando venne fuori la storiellina della P2, e riuscì ad autosdoganarsi, perché nel Paese del Fottere il chiagnere è la premessa obbligata. Comincia forse in quel momento il supremo capolavoro tattico di Maurizio Costanzo, che raggiunge il suo apice allorché l'uomo coi baffi riesce a diventare il vero punto di equilibrio nel sistema geopolitico di Mediaset. Perché in una costellazione televisiva "scesa in campo" con il Cavaliere, Costanzo ce la fa miracolosamente a impersonare un prodigioso, rocambolesco gioco acrobatico fra la destra e la sinistra. Sinistro lui, perché nella sua mappa deve avere stabilito, a fiuto, a naso, che in Italia non si governa senza un rapporto o una mediazione con la sinistra. E di conseguenza è stato in grado di allestire una rete di relazioni in cui la sua figura si è posta come un punto di riferimento dentro l'universo mediatico berlusconiano. Capacissimo di dialogare con Berlusconi da posizione bonariamente frondista, ma evidentemente complice, e intimamente convinto molto prima di Nanni Moretti che il Caimano ha già vinto, anzi stravinto, cioè ha egemonizzato le coscienze, è penetrato nei cuori e nelle menti degli italiani: e dunque diventa più che mai necessaria una figura come la sua, lui che è prontissimo a interpretare la sinistra televisiva dentro la tv della destra. Con alcune manovre altamente spettacolari, che lo qualificano come un Clausewitz romanesco: come quando lancia l'idea del "terzo polo" televisivo, insieme con l'altra star della riva pubblica, Michele Santoro. E con la convinzione totale, ma vera solo parzialmente, che il potere è la televisione. Cioè che alcuni sfortunati (Silvio, Massimo) sono costretti a sporcarsi le mani con il governo, ma l'élite vera, il potere vero, sono rappresentati in realtà da chi governa il mezzo televisivo. Seppure con fortune via via declinanti, il giochetto dura a lungo. Nel momento delle peggiori batoste della sinistra, Costanzo può criticare il fallimento politico ed elettorale ascrivendolo all'imperfetta conoscenza dello strumento televisivo da parte dei leader sconfitti. Ma di fronte ai poveri vinti si mostra come un garante possibile, un nodo strategico, un ambasciatore potenziale. Ammaestra quindi gli inadatti, fornisce decaloghi per migliorare l'apparenza, depreca chi non riesce a bucare il video. Sicuro che al momento buono, anzi cattivo, la sinistra dolorante dovrà rivolgersi a lui per trovare un contatto, un'apertura, l'abbozzo di un dialogo. Adesso sembra che la corda si sia spezzata. Succede sempre così quando entrano in scena i rapporti di forza veri: e dal momento che il Caimano ha deciso che le Italie sono due, divise da un fronte non permeabile, non c'è più spazio per le terze forze, le terze figure, le diplomazie personali. O con noi o contro di noi, ha stabilito Berlusconi. E quindi anche le famiglie si adeguano, riconoscono la quinta colonna e la esorcizzano con un paio di interviste: d'altronde lo si sa che se basta una dichiarazione di John Elkann per liquidare il superpotere di Luciano Moggi, sarà sufficiente il giudizio di una ragazza Berlusconi per rivelare chi veramente possiede il potere e chi invece agita solo ombre. Insomma, quando il gioco si fa duro, con quel che segue. Adesso bisognerà vedere se il talento drammaturgico del sor Costanzo lo indurrà a cambiare parte, a passare nuovamente nel ruolo della vittima. Parte nobile, quella della vittima politica, che si presta a un feuilleton virtualmente infinito. Anche se c'è da scommettere che in queste ore, un po' scioccato, Costanzo starà pensando che, non voglia il cielo, potrebbe essere caduta su di lui, rovinosamente, la malattia che provoca la sparizione, la deprecata sindrome Funari.
L'Espresso, 15/06/2006
I mangiatori di bambini
Una delle prove più convincenti che si può fare intrattenimento di livello è offerta dalla programmazione di RaiSat Extra. Per esempio, sabato 3 giugno, in prima serata, è andato in onda "Mangiavamo i bambini", un programma di Raffaella Spaccarelli (regia di Luca Nannini). Era un talk show piuttosto insolito: i protagonisti erano Miriam Mafai, Giorgio Napolitano, Mario Pirani e Alfredo Reichlin, riuniti in una "conversazione televisiva con il pretesto degli ottant'anni". Naturalmente nel programma, girato a gennaio, il presidente Napolitano è ancora un tranquillo senatore a vita; la banda dei quattro è unita da una evidente complicità; la piccola chiesa romana e raffaellesca di Sant'Eligio degli Orefici consente un racconto disteso e non di rado ironico, come diviene evidente nella conversazione (Pirani: «Io ho smesso di mangiare i bambini abbastanza presto, dopo l'Ungheria». Mafai: «Ma io, ogni tanto... ogni tanto li mangio ancora»). Ma al di là dell'interesse per un colloquio che investe le scelte del passato, l'antifascismo, la critica per l'irrigidimento del socialismo reale, ma anche le ragioni famigliari, le svolte di tipo esistenziale e privato, e si stende sulla politica di oggi con gli «approdi riformisti», va analizzato questo tipo di televisione perché consente un approccio complementare alla storia contemporanea. Gli storici del futuro, infatti, dovranno decidere se affidarsi soltanto alle fonti scritte, oppure accedere anche, tra gli altri, ai documenti filmati. Nel qual caso non si tratterà soltanto di riscontrare le affermazioni, di valutare il realismo e l'equilibrio dei giudizi, bensì di osservare anche le espressioni, le psicologie, i gesti. Con il che, la storia contemporanea si complica, ma si complica anche il ruolo potenziale della tv. Perché si aprirebbero spazi impressionanti di operatività, per chi volesse svolgere questo lavoro di storia "complementare": in Italia mancherà di tutto, ma non i testimoni d'epoca. Anzi, varrebbe la pena di proiettare l'attenzione sui due decenni (anni Cinquanta e Sessanta) in cui l'evoluzione sociale e politica è stata la madre di tutti i cambiamenti. Ci sono due momenti, il miracolo economico e il primo centrosinistra, che aspettano soltanto di essere narrati. E qui non si tratta di fare, come si dice troppo spesso, "servizio pubblico"; basterebbe provare a fare programmaticamente un po' di servizio "civile".
L'Espresso, 15/06/2006
Animali esseri umani
Forse il cavallo Barbaro ce la farà, grazie alla chirurgia, alla tecnologia e alle preghiere di cento milioni di americani, compreso il presidente George W. Bush. Il "superhorse", lo strepitoso purosangue imbattuto che aveva trionfato nel classico Kentucky Derby e che domenica 21 maggio si era spezzato una zampa (o meglio una gamba secondo il lessico ippico), alla partenza di una gara nel Maryland, ha sopportato l'operazione che con un'imbragatura di titanio e acciaio gli ha rimesso insieme lo stinco, l'osso pastorale e il sesamoide della posteriore destra. Dean Richardson, il primario della Clinica veterinaria dell'Università di Pennsylvania che ha operato l'arto spezzato in più di venti frammenti, si era dimostrato cautamente ottimista già dai primi giorni dopo l'intervento. Ma questa è semplicemente la vicenda clinica di un animale. L'altra storia è quella di un'America che trepida per la bellissima bestia che aveva visto interrompersi la sua corsa sulla soglia della morte. Una possibile allegoria della conquista americana, con Barbaro che incarnava il mito dei mustang nel West; e il galoppo che si fermava nel dolore folle dell'osso frantumato poteva anche suggerire auspici spaventosi per l'intera America, ossa gemelle spezzate da un destino nemico. L'ultima storia invece non parla soltanto di un cavallo, ma racconta com'è cambiato il rapporto con gli animali. Il rapporto del mondo ultramoderno, tutto artificiale, con il mondo della naturalità, con l'essenza vivente, con il fattore animale. Proprio così, fattore umano e fattore animale a confronto, in una relazione via via più complessa e forse mai del tutto descrivibile. Negli Stati Uniti, territorio marcato dalla modernità materialista, sono censiti cinquanta milioni di cani nelle famiglie, e altrettanti gatti. Ma se dalla statistica si passa alla filosofia, vale la pena di riprendere l'opus magnum di Martha C. Nussbaum, "L'intelligenza delle emozioni", tradotto dal Mulino nel 2004, che agli animali dedica un capitolo aperto da "stories" clamorose: il piccolo Flint, figlio della scimpanzé Flo, che dopo avere assistito con immenso stupore alla morte della madre rimane accanto al cadavere, lo veglia, non mangia più e si lascia morire di stupefatto dolore. La storia degli studiosi George Pitcher e Ed Cone, che «stavano guardando la televisione, una sera, nella loro casa di Princeton: un documentario su un ragazzino inglese con un disturbo cardiaco congenito. Dopo molti alti e bassi, il ragazzo morì. Pitcher, seduto a terra, si ritrovò gli occhi pieni di lacrime. Immediatamente i loro due cani, Lupa e Remus, saltarono su di lui, facendolo quasi cadere, e gli leccarono gli occhi e le guance con tristi guaiti». «Gli animali provano emozioni», annota la Nussbaum, che con semplicità ma senza nascondere una poderosa documentazione filosofica propone una visione «neostoica» dell'interazione fra uomo e animale, per giungere a una concezione degli animali come titolari e portatori di diritti. E lo fa con molta forza anche nel recentemente pubblicato negli Stati Uniti "Frontiers of Justice: Disability, Nationality, Species Membership". A questo punto si potrebbe ironizzare sulle invenzioni zapateriste, leggi e diritti per i grandi primati. E invece è il segno che si è aperta una fase nuova, oppure antichissima, nel faccia a faccia tra le specie: in cui la separatezza fra l'homo sapiens e i suoi predecessori sul pianeta Terra, o nella comunità vivente di Gaia, mostra varchi insospettati, anche se "sentiti" dagli animi più puri, sentimentali, selvaggi. Il che ha implicazioni rilevanti nella vita quotidiana. Non tanto per il gossip che ha allargato il proprio raggio anche alla zoologia (la labrador nera di Massimo D'Alema, Lulù; il labrador biondo del direttore del Tg5, Carlo Rossella; il bassotto di Giuliano Ferrara, eccetera), quanto per il diffondersi di una concezione "non nichilista" e non utilitarista del rapporto fra differenze. Sembra infatti che in una concezione postmaterialista gli animali non possano più essere considerati bestie da soma o carne da macello: anche prescindendo dalle correnti culturali animaliste e dai loro veti alimentari e comportamentali, resta comunque il fatto che l'affermarsi di una cultura "sostenibile" interpella spesso con radicalità la coscienza contemporanea. È sostenibile infatti la grande ecatombe di suini, bovini, polli, volatili e pesci su cui è basata l'alimentazione di massa? Si tratta di una domanda che può apparire provocatoria. Ma chiunque conviva nella propria casa con un animale qualche domanda del genere è indotto a farsela. Ha imparato a spiare il cane o il gatto, a interpretarne umori e dolori, felicità astruse, scodinzolii, malinconie e guaiti; e talvolta gli è sembrato che quella barriera che si alza fra le specie sia permeabile, che alcune parole e certi gesti filtrino fra intelligenze diverse, creando qualcosa che assomiglia a una comunicazione, a un rozzo, ma anche variamente sofisticato, alfabeto delle emozioni. E dunque "rilegge" con una consapevolezza ulteriore l'atteggiamento verso gli animali, come pure i riflessi che il mondo animale getta sulla produzione di immaginario. Film, romanzi. Non tanto le varie e ripetute epopee semi-erotiche di King Kong, quanto i grandi "romanzi" della psicologia animale, il progetto lungo il quale Allen e Beatrice Gardner hanno insegnato l'Ameslan (il linguaggio gestuale americano per i sordi) alla femmina di scimpanzé Washoe e alla femmina di gorilla Koko: progetto che ha trovato il suo epos nel bestseller di Michael Crichton "Congo". Per il resto, non passa giorno senza che vengano pubblicate notizie sulle modalità lessicali e comunicative di scimmie, balene, delfini. Nuove scoperte antropologiche mostrano che per un milione di anni i grandi primati sono stati contigui, senza distinzioni fra l'abbozzo di specie uomo e il suo convivente scimmia. A queste osservazioni etologiche fa da contrappunto il rilievo simpatetico che assumono certe curiosità cronachistiche, come quelle relative a "Chico", presunto gatto di Benedetto XVI, forse una leggenda (ma non è una leggenda la passione di papa Ratzinger per i felini; e non ci sarebbe una novità in Vaticano se è vero che anche Paolo VI portò nell'appartamento papale il suo bel gattone). Ma c'è anche il dibattito che di recente ha investito l'apparato teologico del cristianesimo, a partire dal discusso libro di Andrew Linzey "Teologia animale" (edizioni Cosmopolis). La nuova prossimità con gli animali avrà pure dato luogo al boom commerciale di prodotti specifici, ma soprattutto a un appariscente cambio di paradigma mentale: oggi infatti ci si stupisce di più al pensiero dell'atteggiamento ottocentesco e novecentesco, che incorporava le battute di caccia grossa e il grande massacro degli animali, che non di fronte al sentimento di vicinanza, o di convivenza, con le bestie. Ma è un sentimento, una condivisione, che viene da lontano e appartiene alla memoria dell'umanità. Viene dal paradiso terrestre, prima del frutto proibito. Ma c'è anche in epoca storica: ancora la Nussbaum racconta che nel 55 avanti Cristo il generale romano Pompeo organizzò un combattimento tra uomini ed elefanti. «Accerchiati nell'arena, gli animali capirono di non avere alcuna speranza di fuga. Allora, secondo Plinio, essi cercarono di attirarsi la compassione degli spettatori con atteggiamenti indescrivibilil, e li supplicarono come piangessero la propria sorte con una sorta di lamentazione. Gli spettatori, mossi a pietà e rabbia dalla loro situazione, si alzarono a insultare Pompeo: sentendo, scrive Cicerone, che gli elefanti hanno "qualcosa in comune" con la razza umana». Qualcosa in comune: l'emozione, la paura, l'irrequietezza, il dolore. Il vaticanista Filippo Di Giacomo dice che avverte ancora un brivido quando ricorda il funerale di Raymond Dupas, il parroco che reggeva il seminario di Malole a Kananga (nel Congo), e aveva accompagnato nella formazione sacerdotale il giovane Albert Malula, destinato a diventare il primo vescovo africano. In quei lunghi pomeriggi africani, il parroco Dupas amava accudire la tribù dei suoi animali: sei cani, e poi vari pappagalli che imitavano la sua voce, perfino la sua tosse, e quando lo vedevano gli cantavano l'inno nazionale congolese. Senza contare i gatti, i tacchini, i polli, i colombi, due manguste. Allorché il carro funebre si avvicinò al rettilineo davanti al seminario, tutta la tribù animale si sollevò sulle zampe, alzò la testa, e cominciò un lamento corale, ciascuno con il suo verso, un pianto che non si interruppe se non quando l'auto con la bara attraversò i padiglioni e raggiunse il cimitero, fuori dalla vista di quelle bestie "amiche". Una storia africana, un'immersione sconfinata in una natura priva di barriere. Ma anche una storia che a suo modo illumina quella del purosangue Barbaro, delle scimmie Washoo e Koko, e anche molti interni domestici delle nostre città così artificiali, così innaturali, così bisognose di verità animale. n