L’Espresso
L'Espresso, 22/06/2006
La Venier è un peccato veniale
Vedete come sono avventurati questi tempi: quasi quasi ci tocca difendere anche Mara Venier. Quante volte l'abbiamo sfottuta, quante volte abbiamo criticato con severità forse eccessiva la sua mondanità fin troppo famigliare e domestica. Non ci piaceva il suo look da casalinga in festa. Non ci andava giù che a ogni serata pubblica la si trovasse a fare il trenino sulle note delle canzoni che ovviamente rappresentano la colonna sonora della nostra vita, e blablà, e che naturalmente ci hanno scassato i cosiddetti. Adesso però la signora Venier è al centro di un dilemma cosmico, almeno per noi, perché sostanzialmente l'hanno cacciata da "Domenica In". Per favore, evitare di rispondere immediatamente "chissenefrega". Il programma domenicale è un rito che per le fasce classiche dell'Auditel costituisce un appuntamento di grande rilevanza. Un punto di equilibrio politico delicatissimo. Un assetto che deve rispettare tutto il manuale Cencelli della Rai e della politica. Dunque, se qualcuno ci mette dentro le mani, o mette i piedi nel piatto, non è una questione di banale intrattenimento e della sua gestione. È un affare politico. Tanto più a tenere conto di alcuni fattori di grande rilievo. Calcoliamo innanzitutto che almeno nella versione della Venier la decisione sarebbe stata presa dal direttore di Raiuno, Fabrizio Del Noce, notoriamente facente riferimento all'area di centrodestra, il quale avrebbe accampato misteriose pressioni del Vaticano a favore di una mezza-suora-mezza-vamp che piacerebbe di più nelle stanze petrine. Del Noce ha smentito, qualcuno giudica la vicenda irrealistica, ma noi non riusciamo a dimenticare che il Vaticano c'entra spesso: c'è di mezzo un religioso perfino nelle intercettazioni di Luciano Moggi, che più o meno infatti dice: nun me piasce, quel prete intrallazzone; io so' religioso, ma quel prete nun me va gù. Quindi nessuna sorpresa se il Vaticano avesse fatto sapere che la cerimonia di "Domenica In" meritava altre conduttrici invece della laicista Venier. Immolarsi per Mara, allora? Decidete voi. Certo, sarebbe piuttosto strano che la rivoluzione della Rai dovesse cominciare proprio dalla Venier. Conviene seguire bene la vicenda, anche perché, rivoluzione per rivoluzione, e lottizzazione per lottizzazione, sarebbe più divertente una conduttrice esplicitamente prodiana, o di Rifondazione comunista: oppure dei Comunisti italiani. Avanti Auditel, alla riscossa.
L'Espresso, 22/06/2006
La rivolta dei padroni
Nelle conversazioni riservate a Palazzo Chigi, Romano Prodi lo ripete spesso: «Un muro contro muro fra governo e imprenditori non conviene a noi e non conviene al paese. Bisogna che lo facciamo capire». Ma fra il dire e il fare c'è di mezzo Vicenza. Cioè il numero di alta spettacolarità circense in cui Silvio Berlusconi si è presentato a casa Montezemolo e si è ripreso la base confindustriale, lasciando stordito il vertice della Confindustria. Gli effetti dell'exploit vicentino non si sono spenti. Il ceto imprenditoriale ha risposto all'appello. Nelle sedi territoriali della Confindustria serpeggia un'insofferenza sorda. Verso il governo, ma soprattutto verso la fase nuova, la maggioranza di centrosinistra. Al potere sono andati "gli altri". E un gran pezzo della base imprenditoriale all'improvviso si è sentito orfano. Amareggiato. Anche incattivito. Deluso dal destino cinico e baro e anche da una Confindustria troppo sbilanciata a sinistra. Con i sentimenti non si scherza. Prima delle elezioni di aprile l'élite confindustriale era inequivocabilmente convinta del fallimento del governo della Cdl. Il vicepresidente Andrea Pininfarina, politicamente un moderato, lasciava capire che applicando con rigore il principio maggioritario e bipolare, il criterio dell'alternanza, c'era una sola conclusione possibile. Questi, cioè i berluscones e i loro alleati, hanno fallito; adesso mettiamo alla prova gli altri, cioè il centrosinistra. Berlusconi ha fatto saltare il quadro. A fine maggio Romano Prodi è stato accolto con freddezza all'assemblea confindustriale di metà mandato. Luca Cordero di Montezemolo ha sollevato ovazioni quando ha citato il grand commis di Berlusconi, Gianni Letta. Ha riscosso consensi soprattutto quando nella sua relazione ha rimarcato i passaggi più "di destra". Successivamente, ha dovuto padroneggiare l'incidente diplomatico di Varese, i fischi (o «i brusii», secondo la versione minimizzante di viale dell'Astronomia) all'indirizzo del segretario della Cgil Guglielmo Epifani. Nel complesso, un clima segnato da una ideologizzazione inedita: per ritrovare un atteggiamento così antigovernativo, da vecchia "razza padrona" bisogna tornare ai primi anni Sessanta, all'opposizione durissima dei monopoli contro la nazionalizzazione dell'energia elettrica (che portò a una specie di temporaneo ritiro della fiducia alla Dc a favore del Pli di Giovanni Malagodi). Il fatto è che in questa stagione non sono i vertici del mondo imprenditoriale a fare la faccia cattiva. È soprattutto la base. «Non dobbiamo dimenticare», dice da Palazzo Chigi Enrico Letta, uno degli uomini della squadra di governo che con Pier Luigi Bersani ha sempre avuto un rapporto di sintonia con la realtà produttiva, «che il fattore Berlusconi ha avuto un ruolo eccezionale». Il Cavaliere è riuscito ad agitare in profondità il sentimento politico degli imprenditori, appellandosi a una loro identità di destra, risvegliando un'istintualità politica che sembrava annegata nel pragmatismo "modernizzante" di Luca Cordero di Montezemolo. Stiamo assistendo allora alle premesse di una "rivolta dei padroni"? Aldo Bonomi, uno studioso che esplora da anni il capitalismo di piccola impresa, sostiene che prima di guardare agli schieramenti politici occorre tenere presente una questione quasi "antropologica": «Quando un'impresa famigliare approda in Confindustria, è come approdare a una spiaggia di lusso dopo avere navigato nel mare aperto del capitalismo molecolare. Non perde il suo Dna, che è fatto di famiglia, territorio, comunità locale, reti corte di produzione. La spaccatura che si è vista a Vicenza è fra questo mondo, che fa i suoi conti difficili con la globalizzazione, e il salotto buono, dove le banche e la finanza contano più del lavoro duro nel mercato». La divaricazione fra élite e seconde file del mondo industriale è diventata un problema cruciale per Montezemolo. Il grande federatore, colui che aveva ricucito la Confindustria e riannodato i fili con il sindacato dopo gli strappi di Antonio D'Amato sull'articolo 18, si trova in una condizione complicata. Dice Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma e braccio destro di Prodi: «Montezemolo si sforza di accreditare le imprese italiane come la punta più avanzata del paese, come la parte che ha già compiuto gran parte del cammino verso la modernizzazione. Ne deriva per converso che è il sistema paese, e segnatamente la parte pubblica, a essere in ritardo e a costituire un freno al recupero di competitività. Ma non è esattamente così». Secondo osservatori attenti anche il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, nel presentare la "due diligence" sui conti pubblici ha lasciato filtrare giudizi freddi sulla struttura industriale e sull'adeguatezza degli investimenti nelle imprese. Il governatore di Bankitalia Mario Draghi ha segnalato nelle "Considerazioni finali" la necessità che la concorrenza diventi senza sconti un elemento strutturale del sistema italiano (guadagnandosi per questo la qualifica di "capo del partito che non c'è, quello del mercato"). La vistosa perdita di competitività dell'industria italiana non può essere imputata soltanto al deficit infrastrutturale, all'insufficienza dei servizi pubblici o alla "over-regulation" burocratica. Anche se, sottolinea Bonomi, «l'arcipelago delle imprese, che ha affrontato negli ultimi dieci anni una selezione feroce, sconta come una difficoltà scoraggiante l'arretratezza di contesto, il mancato adeguamento del sistema». Secondo Santagata, tuttavia, il sistema delle imprese è molto variegato al suo interno; a fianco di realtà molto dinamiche e competitive ci sono ampie aree che non se la sentono di affrontare la competizione e cercano protezione in nicchie a bassa concorrenza o nell'incentivazione pubblica. Quindi una forte domanda di innovazione finalizzata alla competitività convive con una comanda di conservazione protettiva: «Ne deriva una difficoltà oggettiva a rapportarsi in modo lineare con la politica e il governo, e a schierarsi su una linea di riformismo incisivo». Anche il sottosegretario Letta tenta di analizzare la psicologia imprenditoriale: «Il problema è che dalla destra la maggioranza delle imprese italiane accetta anche parole al posto dei fatti. Dal centrosinistra no. Quindi dobbiamo far parlare i fatti. E per far parlare i fatti, cioè realizzazioni vere e durature in chiave di competitività, c'è bisogno di tempo». Non sarà facile. In qualche occasione la base confindustriale sembra apprezzare le posizioni chiare e distinte, come è accaduto con Massimo D'Alema al convegno dei Giovani a Santa Margherita. Meglio un politico "cattivo" e addirittura sprezzante che un muro di gomma. A Montezemolo tocca il compito improbo di riunire tutte queste anime confindustriali. Come commenta Bonomi: «La Confindustria di Montezemolo è stata un incrocio operoso della media impresa, simboleggiata dalla Ferrari, dall'impresa di Pininfarina, dalla Brembo di Bombassei: ma adesso, dal basso, i "piccoli" gli fanno capire che ha prestato troppa attenzione alla punta della piramide. Lui si trova obbligato ad ascoltarli, a tenere insieme il capitalismo delle grandi utilities e il capitalismo turbolento dei piccolissimi». Mentre il governo Prodi si trova nella condizione di dover dire soltanto due parole al mondo imprenditoriale, risanamento e crescita, la Confindustria è a un bivio. Mettersi di traverso, e produrre una nuova virata lanciando per il prossimo mandato candidature "oltre Montezemolo", tutte legate massimalisticamente alla realtà lombarda o veneta, espressione del "male del Nord". Oppure cominciare a cercare un punto di mediazione possibile, in cui potrebbero avere un ruolo figure come quelle di Emma Marcegaglia e di Annamaria Artoni. O ancora tentare di costruire un progetto politico nuovo. Lunedì scorso ha destato notevole impressione il discorso con cui l'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne è intervenuto all'assemblea dell'Unione industriale di Torino. Diciotto cartelle che rappresentano il più lungo discorso pubblico pronunciato in due anni di lavoro a Torino: «Un manifesto neo-industriale», lo definisce lo storico Giuseppe Berta, autore del fortunato e discusso volume "La Fiat dopo la Fiat". Marchionne ha delineato una visione in cui rifiuta il modello ultracompetitivo americano, propone un «dialogo costruttivo» con i sindacati, critica «le fissazioni della maggior parte degli analisti finanziari e anche di pensatori e commentatori economici liberali» a cui piacciono i licenziamenti e gli spargimenti di sangue in azienda. In sostanza, un capitalismo sociale di mercato, che dovrebbe piacere, e in effetti è piaciuto, al centrosinistra. L'autocandidatura della Fiat a fungere di nuovo da interlocutore del governo. E anche un messaggio interno alla Confindustria, per dire che va bene l'irritazione, niente da dire sulle nostalgie berlusconiane, ma conviene fare i conti con la realtà. Il che significa parlare con Prodi e i suoi ministri, e rinunciare alle idee di rivolta che non sono mai morte (era "Contessa" di Paolo Pietrangeli: allora, a minacciare di picchiare, era il proletariato). n
L'Espresso, 29/06/2006
Tanto sesso siamo inglesi
Chi vuole una riprova dell'utilità di allargare il mercato può guardare il programma "Segreti di coppia - The Sex Inspector" (il mercoledì sera su Sky Vivo). Il programma è talmente demenziale da risultare irresistibile. Una coppia di "ispettori del sesso", un uomo e una donna dall'aria fra il sadico, il divertito e l'entomologico, "segue" una coppia di amanti, coniugi o conviventi, ne scruta la vita sessuale, formula la diagnosi, propone una terapia, la fa applicare, giudica i risultati, che generalmente sono incerti. Certo a noi della vita erotica di quelle coppie inglesi non importa nulla, anche se è utile sociologicamente osservare che in Inghilterra il sesso ha due tipologie fondamentali: 1. Sesso rapido e insoddisfacente, con ejaculatio praecox e relativi problemi e drammi annessi; 2. Sesso molto complicato, con coppie che hanno collezioni strepitose di "toys", giocattoli erotici, vibratori di ogni genere compresi quelli piccolissimi dotati di telecomando per potersi sbizzarrire anche al ristorante. Nel primo caso, gli ispettori del sesso consigliano alle coppie senza fantasia di sbrigliare l'immaginazione, concedendosi pratiche fra le più eccentriche; nel secondo, inducono i troppo fantasiosi a tornare al naturale. Molto spesso i consigli fondamentali riguardano gli esercizi di potenziamento dei muscoli pelvici, che sono utili ai maschi per ritardare l'orgasmo e alle donne per avviare l'itinerario molto difficile e lungo che conduce alla sperimentazione degli orgasmi multipli. Robaccia? Chiaro che sì, ma anche piuttosto comica, soprattutto quando le coppie mimano a freddo alcune posizioni severamente complicate, sotto l'occhio degli esperti che rettificano posture e modalità. Eppure un semi-reality di questo genere sembra la riprova perfetta che il mercato è il mercato. Aumentare l'offerta consente in questo caso di evitare la pubblicità sul referendum che compare sulle reti Rai e Mediaset, così come i programmi mattutini, pomeridiani e serali. Gli effetti collaterali sono anche migliori: mentre nella Rai governata dai partiti si vede quali sono le condizioni che conducono alle conduzioni (sesso in cambio di programmi), qui l'andamento è più onesto. Il sesso è in televisione, non sotto o sopra le scrivanie. Probabilmente, dato quanto si apprende dalle intercettazioni, l'ispettore del sesso bisognerebbe mandarlo direttamente in viale Mazzini o a Saxa Rubra.
L'Espresso, 29/06/2006
Il re è nudo l’Italia pure
Ma è mai possibile, o porco di un cane, che le avventure, in codesto reame, debban risolversi tutte con grandi puttane...: d'accordo che grazie al cielo il reame è stato abbattuto con un referendum preveggente sessant'anni fa; tuttavia le parole di Paolo Villaggio usate da Fabrizio De Andrè nella canzone che racconta ironicamente del re Carlo Martello reduce dalla battaglia di Poitiers sembrano l'epitaffio più appropriato per incorniciare poeticamente l'ultimo scandalo, scoperchiato dal pubblico ministero John Woodcock. Sesso, bugie, videopoker, tangenti, affaracci di casa reale; ma anche una vicenda macroscopica di manipolazione della politica, il Watergate laziale che il folklore dei ricatti sessuali a sfondo televisivo sta tenendo paradossalmente quasi coperto. Nonché più generalmente un ritratto della società italiana che dal caso Ricucci, passando per il caso Moggi per giungere al caso Savoia sta rivelando davvero una nazione eternamente infetta (anche se va rilevato che il lessico di Stefano Ricucci era molto più spiritoso di quello del mancato re d'Italia). A distanza di 14 anni dall'esplosione di Tangentopoli, il quadro è sconfortante. Perché il quadro di Puttanopoli è privo di centro. Si estende in forma ameboide. Le intercettazioni rivelano un virus profondo, apparentemente inestirpabile, diffusissimo, che ha minato interi gruppi sociali: ragion per cui l'appello a fare pulizia sembra un grido di dolore senza speranza. Espressioni come etica pubblica sembrano penosamente remote davanti al panorama di quell'Italia che le intercettazioni mettono sulle prime pagine dei giornali. Nello stesso tempo si susseguono gli inviti a non cadere nel moralismo. D'accordo, proviamo allora a infilarci nella sociologia politica. L'ipotesi più apocalittica è che nei cinque anni di governo della Casa delle libertà un intero ceto di sradicati abbia messo le mani in qualsiasi spazio di potere: sono cadute le inibizioni, i tabù civili, il galateo pubblico e privato, le regolette della buona educazione. Lo avevano scritto i pedagoghi del diritto come Franco Cordero, ed erano stati sbertucciati dagli antimoralisti: Cordero aveva scritto che i «sicofanti» del Cavaliere avrebbero restituito un'Italia depredata, priva di ogni vitalità, sfibrata nel morale e nella morale. Adesso, dopo il Laziogate con cui una banda di spioni ha cercato di far vincere le elezioni regionali a Francesco Storace, riesce piuttosto difficile ricorrere agli schemi a cui solitamente si ricorre, per sfoggiare garantismo: secondo cui la responsabilità penale è personale, ogni cittadino è innocente fino all'ultimo grado di giudizio, le intercettazioni sono talvolta «una barbarie», come insistono in modo un po' stridulo i garantisti del centrodestra. All'epoca di Mani pulite, Antonio Di Pietro ricorse alla formula della «dazione ambientale», per descrivere un sistema in cui politica e affari si intrecciavano in una fisiologia corrotta, talvolta senza poter individuare con precisione assoluta la colpevolezza degli individui. Adesso si sta disegnando un'area brutta e grigia, in cui la criminalità economica convive con il malcostume personale e sociale: reati economici da provare, ma piuttosto evidenti nel romanzo a puntate delle intercettazioni, sono affiancati da comportamenti di bassa e feroce trucidità, a cui forse non si riuscirà ad attribuire un rilievo penale, ma che dipingono con una certa chiarezza tutto un ambiente. Che ci sia un rapporto esplicito fra cinque anni di pessime leggi sulla giustizia e la spettacolare catastrofe comportamentale rilevata dalle intercettazioni dipende da un giudizio politico: ma è indubitabile che il "riequilibrio" tra il primato della politica e il potere dei giudici praticato attraverso le riforme della Cdl e la durissima battaglia contro l'ordine giudiziario coincide temporalmente con il trionfo dei metodi basati sulla sensazione esaltante dell'impunità. La risposta della Casa delle libertà, da parte sia di Silvio Berlusconi sia del partito per ora più coinvolto dalle intercettazioni nelle storiacce politiche, affaristiche e sessuali dell'ambiente romano, ovvero Alleanza nazionale, appaiono quelle classiche. Le intercettazioni sono uno strumento gestito in modo infame, c'è un complotto, vogliono colpirci, davamo fastidio, basta con la gogna mediatica, siamo sereni, non c'è nulla di penalmente rilevante. Sono tutte storie. Anche se l'inchiesta della procura di Potenza dovesse naufragare sulle secche dell'indimostrabilità giudiziaria di certi comportamenti pecioni, lo spettacolo rivelato dalle telefonate dei protagonisti rivela un aspetto di vistosa semplicità: sono bastati pochi anni di intrinsecità con il potere per assistere a un crollo distruttivo nello stile e nella soglia della decenza pubblica e privata. Anzi, l'intreccio tra la politica e l'ambiente circostante è strettissimo. Investe le relazioni fra il portavoce di Gianfranco Fini, Salvatore Sottile, e il démi-monde della Rai. Tocca i procacciatori di starlet ma anche la collusione fra programmi di informazione e uffici stampa dei politici. Coinvolge anche le paradossali ipotesi politiche del rampollo Emanuele Filiberto, con il suo progetto di partito intitolato Valori e futuro, con le pizze al tartufo nel ristorante Il Quirinale di Ginevra, il governo ombra ventilato da Vittorio Emanuele di Savoia, le "porcelle" a cui si richiede sesso in cambio di comparsate in programmi minori della tv di Stato, le imprese di famiglia che sfruttano al meglio le relazioni improprie con la politica. Il catalogo è talmente vario da lasciare la sensazione disarmante che questa sia soltanto una piccola porzione della palude. Sicché ci si chiede, sfidando ovviamente il fuoco preventivo contro il "qualunquismo", se la corruzione non sia ormai talmente diffusa da risultare incontrastabile. Non solo: in condizioni di normalità della vita pubblica, l'uso pubblico delle intercettazioni dovrebbe essere giudicato vivamente problematico. Per una quantità di ottime ragioni: per le possibili distorsioni che esse introducono nelle vicende penali, per le chiamate di correo improprie, destinate a figure laterali che vengono esposte altrettanto impropriamente al giudizio, e talvolta al ludibrio, generale, per le violazioni della riservatezza personale, per l'inquietudine che genera una società controllata dalle registrazioni. Ma di questi tempi risulta impossibile non chiedersi che cosa succederebbe se le intercettazioni non ci fossero. E istintivamente si risponde che verrebbe a mancare anche l'ultimo, anomalo, strumento di contrasto della corruttela. Sfortunato il paese che ha bisogno di intercettazioni telefoniche per sfuggire a un destino di affari sporchi, di viltà civili, di ricatti, di tangenti. E si capisce quindi la provocazione di Marco Pannella, principe dei garantisti ma atterrito evidentemente dalla diffusione dell'infezione civile: pubblicare tutto, subito, sempre. Perché la situazione è eccezionale, e nessuno sa che cosa accadrebbe nel tessuto del paese, se non ci fosse almeno il contrasto delle intercettazioni. Ma è chiaro che la struttura di una società non può essere tutelata soltanto dal Grande Fratello. Si tratta di vedere se ci sono meccanismi da introdurre razionalmente per ridimensionare l'abuso delle posizioni di potere. Fine della tolleranza sull'evasione fiscale, rispetto del merito indipendentemente dalle basi di partenza sociale, durezza legislativa sulla criminalità finanziaria (i casi Parmalat, Cirio e bond Argentina hanno avuto un ruolo fondamentale nel diffondere sfiducia e togliere credibilità all'economia), scelte chiare a favore della concorrenza e contro la rendita corporativa sono gli strumenti per aggredire le posizioni di privilegio. Ma probabilmente occorre andare fino in fondo con l'eliminazione del primato e del condizionamento politico nei servizi pubblici e in particolare nel servizio pubblico, nel senso della Rai. Su questo tema è facile riscuotere grandi insuccessi d'opinione, ma il problema in fondo è semplice: la Rai da tempo è lo specchio della politica, delle sue spartizioni, dei suoi metodi clientelari, e ora anche della spregiudicatezza comportamentale delle mezze tacche che controllano il quartier generale. Tutte le soluzioni intermedie, a questo punto, risultano palliative. Tanto vale passare con metodo alle vie di fatto radicali, cioè alla privatizzazione integrale. Per fare in modo che gli eventuali servizietti ai potenti e ai semi-potenti siano tutti riconducibili al privato: e che non ci siano più di mezzo, come una tentazione evidentemente irresistibile, le opportunità e le complicità del servizio, o del servizietto, pubblico. n
L'Espresso, 06/07/2006
Bar Sport Rai
Ogni volta che un cittadino italiano non trova una partita del Mondiale sulla prima rete Rai, si chiede con irritazione per quale motivo deve poi pagare il canone. E vabbé, siamo qualunquisti fino in fondo: il canone serve tangenzialmente per dare la possibilità a qualche minchione furbacchione di farsi fare servizietti dalle squinzie. Ma se uno deve farsi una cultura calcistica (ogni quattro anni vogliamo vedere tutto, ogni partita maggiore, minore o infima) e deve ricorrere a Sky, la domanda fondamentalista e demagogica contro la Rai ha il suo rilievo. Perché a noi non importa nulla se la Rai mette su dei baracconi di speciali e di notturni sul Mondiale. Noi vogliamo vedere le partite. E intanto bisogna dire che di partite buone se ne sono viste poche. Molto spesso poi sono funestate da un commento continuo, un basso borbottante, da esclamazioni praticamente incomprensibili. Un rumore di fondo che favorisce il sonno, sicché ci si addormenta spesso. Un'eccezione non infelice sono alcuni commentatori che operano proprio per la Rai: uno è Sandro Mazzola, che pure si sente costretto a trarre conclusioni sull'andamento dei match dopo appena sei o sette minuti dal calcio d'avvio: ma Sandrino ama ancora il calcio; è moderato, non esagera, e quindi non dà fastidio (fra l'altro, molto apprezzabile la sua prefazione alla recentissima raccolta di scritti di Gianni Brera "Il Club del Giovedì", editore Aragno). L'altro è Fulvio Collovati, che riesce sempre a calarsi nel gioco, individuando errori e capacità tecniche. Il caso di migliore interpretazione tecnico-tattica di una partita è sembrato a molti il commento di Beppe Dossena ad Argentina-Messico. Dossena infatti ha spiegato con chiarezza che il Messico, dato per grande sfavorito, era messo in campo meglio dei campioni sudamericani; ha illustrato per quali motivi, in base al modulo di gioco, riusciva a creare superiorità numerica a centrocampo, ha individuato tutte le mosse tattiche decisive. Che poi alla fine, dopo i supplementari, abbia vinto la squadra di Crespo e Maxi Rodriguez dipende dal fatto che l'Argentina include un alto numero di fuoriclasse, mentre il Messico praticamente nessuno. Così è la vita. Ma così dovrebbe essere anche la tv quando fa vedere il calcio. Perché c'è un solo modo per raccontare bene il pallone, in questi tempi sgonfi: stare sulla tecnica, con poca enfasi, possibilmente con molti silenzi.
L'Espresso, 06/07/2006
Il Cavaliere bocciato
Era l'ultimo snodo politico. L'ultima occasione per scardinare la maggioranza e il governo, dopo il risultato allo spasimo delle politiche. Fallita la spallata delle amministrative, il referendum costituzionale del 25-26 giugno era l'opportunità estrema per scuotere l'equilibrio politico. Infatti Romano Prodi era preoccupatissimo. In treno da Roma a Bologna, alla vigilia del weekend elettorale, consultava sondaggi che lo riempivano di inquietudine. Al crescere della partecipazione verso il 50 per cento, il vantaggio del No si riduceva avvicinandosi alla sfera dell'errore statistico. Sarà stato l'effetto Ciampi. Secondo Nando Pagnoncelli di Ipsos il pronunciamento del presidente emerito ha favorito in modo sensibile il delinearsi delle convinzioni, ha convinto gli indecisi e li ha portati ai seggi. Per altri analisti, Ciampi può avere spostato un milione di voti, una quota di quasi il 5 per cento. In ogni caso ciò che è uscito dalle urne ha spazzato via molte nuvole. Si è sentita subito aria fresca. Perché è vero che per ora la condizione operativa del governo non è migliorata. Ma perlomeno la Casa delle libertà non può rivendicare il successo politico "morale" che avrebbe reclamato in caso di approvazione della riforma costituzionale. Sarebbe stata la prova che la maggioranza di aprile era una finzione. Invece adesso il risultato si rovescia sul centrodestra, aprendo ipotesi politiche inedite. «Il referendum confermativo ha sancito a posteriori quell'affermazione politica che l'Unione aveva afferrato in modo rocambolesco alle politiche», dice il politologo Piero Ignazi. E di conseguenza la Casa delle libertà col referendum ha perso definitivamente anche le elezioni. Questo vuol dire che in condizioni "normali" la Cdl non è in grado di scalzare il centrosinistra. La mobilitazione straordinaria di aprile, con la chiamata alle armi del Motore azzurro (i volontari o «mercenari» berlusconiani, secondo la contestata definizione di Prodi), insieme con la capacità berlusconiana di evocare pulsioni profonde con le tasse di successione, cioè con la "morte" fisica e metaforica evocata da un'imposta applicata su un evento luttuoso, avevano condotto il centrodestra a meno di un passo dalla vittoria. Il referendum sulla Costituzione ha riportato le cose alla normalità. Normalità vuol dire che il giudizio dell'elettorato si concentra non più sulla lotta fra il Bene e il Male, bensì sul giudizio fattuale riguardo al centrodestra e alle sue riforme. E anche sul progetto solidificatosi intorno all'"asse" costituito da Forza Italia e Lega Nord: che l'allegro falò di schede referendarie ha incenerito. Con ogni probabilità il distacco di oltre 20 punti al referendum segnala la fine del "forzaleghismo", il movimento che ha per ispiratore Umberto Bossi, per braccio politico e organizzativo Silvio Berlusconi, per ideologo Giulio Tremonti. In realtà non c'erano buone ragioni sostanziali per votare Sì alla riforma della Cdl. Anche i sostenitori più attrezzati culturalmente, fra gli osservatori, come Sergio Romano e Angelo Panebianco, avevano dovuto utilizzare criteri politici: il Sì a un impianto scalandrato come scelta a favore del riformismo costituzionale, per uscire dallo storico immobilismo italiano. Un sostegno a prescindere dalla qualità della riforma. «In realtà», commenta Franco Bassanini, «la riforma era avventurosa nei modi e avventuristica nei contenuti, con invenzioni costituzionali inesistenti nelle democrazie avanzate». D'altronde, anche gli studiosi che si erano pronunciati a favore della riforma, una stretta minoranza fra i costituzionalisti italiani (anche se comprendeva alcuni specialisti di prestigio come Carlo Fusaro e Giuseppe De Vergottini), si erano dovuti arrampicare sugli specchi, arrabattandosi fra un via libera politico e un giudizio costituzionalmente perplesso sulla «farraginosità» del processo legislativo previsto nel nuovo testo. E anche altri studiosi contigui alla destra avevano guardato con malcelata antipatia al processo contraddittorio di rafforzamento della forma di governo da un lato, e dall'altro allo sfarinamento del sistema politico provocato dalla legge elettorale proporzionale approvata dalla Cdl. Ma queste considerazioni sulla materia costituzionale ormai sfumano nell'insignificanza. La riforma promossa dai saggi di Lorenzago era un testo indecente, un malsano frutto politico del compromesso tra le componenti inconciliabili del centrodestra. La devolution alla Lega, l'interesse nazionale ad An, il rafforzamento della premiership a Forza Italia, il taglio dei parlamentari alla demagogia antipolitica che alligna in tutto il centrodestra. All'Udc era andato un compenso esterno all'ambito costituzionale, vale a dire la legge elettorale proporzionale. A questo punto si tratta di vedere su quale punto dell'alleanza agirà il crollo del progetto complessivo. Il primo terreno molle è ovviamente quello della Lega. Perché Umberto Bossi e il suo movimento politico avevano investito tutto il loro capitale sulla conquista della devolution, e ora si trovano nella casella di partenza. Il Nord ha votato No; le uniche soddisfazioni sono venute dalla Lombardia e dal Veneto. Questo risultato fissa l'ennesima smentita del teorema politico con cui Bossi ha "ricattato" per anni la politica italiana. Il leader leghista ha sempre giocato, con abilità manovriera, sull'idea che la Lega è un movimento d'avanguardia, e quindi minoritario; ma al momento buono, quando si fosse trattato di scegliere sulla materia fondamentale, l'autonomia, la secessione, tutto il Nord si sarebbe schierato a favore dello sfondamento leghista. Per la verità la Lega aveva fallito la "marcia sul Po" del 1996; aveva mancato la mobilitazione con le elezioni "padane" nei gazebo; si erano rivelati un bluff il "governo" e il "parlamento" insediati a Mantova e a Venezia. Ciò nonostante Bossi era sempre riuscito a vendere sul mercato politico il suo ruolo strategico, di ago della bilancia e di interdizione. Ma ora le invenzioni bossiane sono smentite dai fatti e dai numeri. L'Italia del Nord è un fenomeno assai più complesso di quanto non raccontino propagandisticamente i leghisti. E quindi per la Lega c'è il rischio immediato di ridursi a insediamento pedemontano, residuale, ma soprattutto di perdere la centralità che le aveva garantito rapporto privilegiato con Berlusconi. Nei prossimi mesi il tema delle riforme, e in particolare dell'approfondimento del federalismo, marcherà il passo. È probabile che l'equilibrio si sposti sul terreno politico, e in questo caso occorrerà seguire con attenzione le mosse dei centristi. Pier Ferdinando Casini ha già indicato la necessità di una riflessione dentro la Cdl. I gemelli del No, Follini e Tabacci, possono riguadagnare una posizione nel partito. Da questo punto di vista, l'Udc ha già messo di fatto sul tappeto la questione della leadership. Berlusconi infatti traballa. Psicologicamente è ancora fermo al giorno delle politiche, alla contestazione del risultato: sembra non essersi accorto che al di là del risultato di aprile, favorito da una drammatizzazione estrema e realisticamente irripetibile, arrivata fino al punto di quasi azzerare l'andamento storico del "partito delle schede bianche", il clima politico ha cambiato segno. È improbabile che in futuro la Cdl possa ripetere quella mobilitazione; inoltre le spallate non sono riuscite. Berlusconi non ha voluto impegnarsi fino in fondo nella campagna per il referendum, ma comunque con le fiacche apparizioni televisive negli ultimi giorni prima del voto ha offerto il suo volto alla sconfitta. Il centrodestra, secondo l'Udc, deve rimettere in discussione il proprio profilo; questo indurrà la Cdl a concentrarsi entro il perimetro dell'alleanza. Nello stesso tempo, anche il centrosinistra deve pensare ai problemi suoi. Nei due giorni del referendum la base dell'Unione ha raggiunto un livello di partecipazione e di impegno analogo a quello delle primarie: ma l'insoddisfazione per il comportamento della maggioranza e del governo serpeggia senza più censure. La delusione è emersa con nettezza negli incontri fra la base e i dirigenti dei partiti: e occorrerà vedere come i vertici di Ds e Margherita parleranno ai militanti che premono per accelerare il partito Democratico (a Roma, martedì 4 luglio, all'hotel Radisson, Piero Fassino e Francesco Rutelli potrebbero misurare con precisione l'insofferenza del "popolo" che spinge per la fusione nella nuova entità politica). In queste condizioni, immaginare una ripresa dell'iniziativa riformatrice sulla Costituzione sembra illusorio. Non tanto per le ragioni addotte dagli osservatori di destra, secondo cui il No era la pietra tombale sulle riforme, una briscola formidabile per i fondamentalisti dell'intangibilità della Carta. Piuttosto, per la ragione appena detta che entrambi gli schieramenti devono prima di tutto guardare all'interno. Anche la frammentarietà del centrosinistra infatti è un problema, che si riverbera sul governo, e influenzerà tutto il percorso che conduce alla legge finanziaria, cioè alla pesante manovra di risanamento di cui ha parlato con chiarezza il ministro dell'economia Tommaso Padoa-Schioppa, rendendolo ancora più accidentato di quanto già non si prospetti. Ma la situazione veramente eccitante è nel centrodestra: da un punto di vista oggettivo è finito un ciclo, si è esaurita una leadership, si è svuotato un progetto politico. Se l'Unione non consegna alla Cdl opportunità impreviste, nel senso di possibili autogol, anziché alla Costituzione Fini e Casini dovranno mettersi a pensare un'ipotesi nuova per il "partito dei moderati". C'è un'espressione che si attribuisce al generale Charles de Gaulle: «Il potere non si conquista, si raccatta». Occorrerà vedere se i due dioscuri, o più precisamente i due mezzi leader, della Cdl mostreranno di avere il tempismo per raccoglierlo. Certo, Fini ha succhiato troppo le ruote di Berlusconi, è stato un gregario opportunista. Casini ha un vantaggio tattico: erano stati proprio due eretici dell'Udc, Follini e Tabacci, a segnalare che l'asse Berlusconi-Bossi squilibrava gravemente la Cdl. Adesso che il programma forzaleghista non figura più all'ordine del giorno, si apre una di quelle opportunità che si presentano non più di una volta per ogni decennio. Chissà se c'è qualcuno che ha voglia davvero di provare a mettere insieme una destra normale. n
L'Espresso, 13/07/2006
Aria fresca di prima Matinée
Ad accendere la tv di mattina tutti temono di trovare programmi di sottofondo, roba colorata da non seguire e non guardare: un accompagnamento insensato, con facce note soltanto a chi segue quei programmi, e contenuti spaventosi. Poi invece c'è qualcuno che tenta di sperimentare: ad esempio, su Raidue c'è un programma quotidiano alle 11, intitolato "Matinée" sottotitolato "La tv che si ascolta". È una trasmissione firmata da Marco Giusti, uno degli ultimi autori tv con una sua idea di spettacolo e di intrattenimento. Ed è anche un tentativo di "fare radio in tv", come da sottotitolo, cercando di mutuare la lezione di Fiorello, portando in televisione la "verità" della radio. Conduce Max Giusti (evidentemente c'è un'inflazione di Giusti, un giustizialismo da piccolo schermo), che fa le sue imitazioni classiche (Biscardi, Lotito), affiancato dalla iena Sabrina Nobile. Il senso del programma è sintetizzato dall'idea di occupare la cosiddetta "fascia Guardì", trasformando la tv per un pubblico fin troppo prevedibile in uno show semplice e "friendly". Ma è un programma moderno, strutturato all'incirca come un magazine. Maria Cuffaro scandaglia su Internet i giornali stranieri; una volta la settimana il critico musicale Paolo Zaccagnini tiene una rubrica di ottima fattura sul rock. La conduttrice Nobile apre ogni giorno una rubrica di segnalazioni librarie. Sembrerà incredibile una rubrica di libri su una rete generalista intorno a mezzogiorno, ma così è: si tratta di un messaggio esplicito che dice che la tv può consentirsi invenzioni trasgressive. Infine lo stesso Giusti (Marco) apre uno scorcio sul cinema, offrendo sprazzi del suo metodo critico (poco linguaggio specialistico e attenzione disincantata ai prodotti e al mercato). Che "Matinée" abbia un suo successo almeno di critica è dimostrato dagli ospiti che sono intervenuti (Arbore, Baudo): ed è un segnale che si può provare a fare infotainment in modo gradevole e moderno. Insomma, c'è sempre una possibilità evolutiva: non è necessario né obbligatorio riproporre sempre gli stessi format. Il che apre qualche speranza sul fatto che le ingenti risorse della Rai vengano finalmente utilizzate (non dimentichiamo che in qualche bugigattolo del servizio pubblico Carlo Freccero sta ritagliando le figurine). Un po' d'aria fresca, dopo la tv dei servizietti pubblici, è sempre benvenuta.
L'Espresso, 13/07/2006
Tra Dortmund e Norimberga
La sera di martedì 4 luglio, pochi istanti dopo i due gol di Grosso e Del Piero, un ex ministro del governo Berlusconi spedisce da una pizzeria di Londra il seguente sms: «Mentre le forze tedesche vengono schiantate a Dortmund, a Roma si celebra una inutile Norimberga». Ecco a che cosa può indurre la miscela del tifo azzurro con il tifo juventino. Certo, sarà banale accostare il paradiso della nuova drammatica vittoria contro la Nazionale tedesca all'inferno delle condanne terrificanti richieste per Calciopoli dal procuratore federale Stefano Palazzi. Eppure sono proprio queste le due facce del pallone: di livello altissimo al Mondiale, a un grado di impressionante malaffare in patria. Si schiude la finale di Berlino mentre 13 nazionali rischiano la retrocessione (o meglio la collocazione sul mercato a prezzi di saldo). La spedizione azzurra a Duisburg era cominciata tra i fumi dello scandalo. Diversi osservatori avevano chiesto un gesto esemplare, l'allontanamento del commissario tecnico Marcello Lippi, una buonuscita veloce per Buffon e Cannavaro, nel nome di Piedi puliti. A posteriori, la grande affermazione della Nazionale azzurra sembra allora merito in larga parte del commissario straordinario Guido Rossi, che ha difeso Lippi in modo apparso inatteso, e ha contribuito all'impresa con cui il cittì ha costruito e plasmato, come nel 1982 Enzo Bearzot, il suo gruppo. Gruppo, parola fatidica. Si sa che gli italiani lavorano bene soprattutto in emergenza, allorché il cuore e la fantasia devono supplire alle doti di organizzazione. E qui l'emergenza c'era, eccome. I giocatori sapevano che il tribunale sportivo stava per decimare la serie A, e che diverse carriere stavano per entrare in fibrillazione. Hanno eretto un fortino e se la sono giocata: adesso sono tutti davanti alla prova più importante della loro vita calcistica. Dovessero vincere, o comunque giocarsi eroicamente la finale di domenica 9 luglio, si alzerà il coro dell'amnistia. Dell'indulgenza, della "giustizia giusta". Ma è proprio l'impianto della "Norimberga" italiana a rendere impossibile la clemenza, fosse pure davanti a un titolo mondiale. L'investigatore speciale Francesco Saverio Borrelli ha messo le mani in un coacervo pazzesco, in cui poteri e contropoteri erano intrecciati da accordi ufficiali e manovre sotto banco. Ha parlato di un «illecito strutturale», in cui riesce arduo discriminare le responsabilità. C'era la cupola di Luciano Moggi, e altre cupole, in un torneo parallelo di scambi, pressioni, condizionamenti, favori, minacce. In queste condizioni, non è possibile individuare i responsabili in base a fatti accertabili con nitidezza penale. Succede, quando è infetto tutto un sistema. Si fanno volare teste, si comminano (e poi si infliggono) condanne esemplari. La giustizia è inevitabilmente sommaria. Ma l'alternativa è il volemose bene, siamo tutti italiani, i "nostri ragazzi" hanno dimostrato che il calcio è sano. Il fatto è che il calcio nell'era Moggi e Galliani ha bisogno di una bonifica. Sotto il profilo della procedura, del diritto, delle garanzie è un'enormità. Ma qui non c'è un processo: c'è una rivoluzione e una ghigliottina. Nella speranza che tagliate le teste non si torni all'Ancien Régime.
L'Espresso, 13/07/2006
Solisti disperati nella Casa delle libertà
Il referendum non ha soltanto bocciato la riforma costituzionale della Casa delle libertà; ha anche portato alla luce gli attriti intrinseci all'alleanza di centrodestra, che soltanto il gusto del potere aveva ammorbidito. Adesso, dopo la conclusione di un lungo ciclo politico-elettorale, gli spiriti più spregiudicati della Cdl possono finalmente riconoscere ciò che prima negavano, e cioè che la coalizione è un coacervo irriducibile a unità. Non ci sono soltanto i Follini e i Tabacci a mettere il dito nella piaga della leadership. Anche Gianfranco Fini sembra uscito dal plotone dei gregari per prospettare un "superamento" della Cdl. Mentre Pier Ferdinando Casini sta cercando di recuperare una libertà di manovra che l'ombra di Forza Italia aveva oscurato. Si vede che il centrodestra è diviso in due tronconi. Da una parte c'è il patto strategico che ha unito Silvio Berlusconi e Umberto Bossi; dall'altra il possibile nucleo moderato che potrebbe vedere affiancate An e l'Udc. Il ruolo della Lega potrebbe risultare decisivo per le sorti del centrodestra. Si sapeva che il movimento di Bossi sarebbe entrato in tensione con la sconfitta della devolution; adesso si tratta di osservare se ciò determinerà ripercussioni significative sul "forzaleghismo". L'arroccamento nel Lombardo-Veneto è un atteggiamento esclusivamente difensivo; la cosiddetta questione settentrionale è stata assai ridimensionata dal voto referendario; nelle grandi città il clima politico è cambiato a sfavore della Cdl, e in particolare delle spallate istituzionali su cui Lega e Forza Italia avevano trovato una sintonia. Quindi il rapporto privilegiato tra berluscones e bossiani è tutto da ridiscutere. Di fronte a una triplice battuta d'arresto (elezioni politiche, amministrative, referendum), l'unica speranza della Cdl consiste in un eventuale collasso della maggioranza di centrosinistra. Ma in assenza del più colossale degli autogol da parte dell'Unione, nel centrodestra le spinte centrifughe si prospettano molto pronunciate. Certo, per il momento non conviene a nessuno prendere di petto la questione più calda, ovvero la posizione di Berlusconi. Anzi, è prevedibile che la questione della leadership venga surgelata per poter attraversare il deserto estivo. Tuttavia nella Cdl ci sono troppi fattori che giocano a favore di un rimescolamento. Colpisce, ad esempio, che la prima vera iniziativa del governo Prodi, il programma delle 12 liberalizzazioni di Pier Luigi Bersani, abbia scosso in modo così forte il centrodestra: e che alcuni fra i più accesi liberali di Forza Italia, a cominciare dall'economista Renato Brunetta, abbiano gridato allo scandalo («Misure sovietiche»), mentre in altri settori dell'alleanza è emerso il riconoscimento a denti stretti che quelle riforme avrebbe dovuto realizzarle la Cdl. Il fatto è che l'iniziativa di Prodi e Bersani ha fatto affiorare di nuovo un'altra duplicità, se non un'ulteriore schizofrenia, dell'alleanza berlusconiana: che comprende alcuni liberal-liberisti particolarmente ideologizzati, ma anche una quantità di rappresentanti di corporazioni e rendite che si sentono minacciate dalla brezza di libertà economica suscitata dal decreto del ministro dello Sviluppo economico. Ma la minaccia principale della Cdl è un fattore ancora più semplice, quasi brutale: vale a dire la durata del governo Prodi. Se l'esecutivo infatti è in grado di tenere sulle ragioni fondamentali del programma, risanamento finanziario e rilancio della crescita, ogni mese guadagnato comporta un problema in più per il centrodestra. Nel medio periodo infatti la credibilità dell'asse portante del governo (i ministri e i sottosegretari di peso maggiore, da Padoa-Schioppa a D'Alema, da Amato a Bersani, da Rutelli a Letta) renderebbe evidente una differenza qualitativa rispetto all'età berlusconiana. In poco tempo lo scontro non sarebbe più sull'ideologia, ma sui contenuti dell'attività di governo. E se deve discutere sui provvedimenti, lo si è già visto, il centrodestra è fatto di solisti, ognuno dei quali ha una propria ricetta per praticare l'opposizione. Da questo punto di vista, la Casa delle libertà ridiventa un cantiere. Con un capomastro assente per ferie. E la corsa alla successione aperta.
L'Espresso, 20/07/2006
veline marchio Doc
Dunque, se non si capisce male, tutto lo scandalo politico-televisivo delle veline finirà con una vittima sola, la povera Elisabetta Gregoraci, a cui verrà inibita anche la partecipazione ai reality show. Così impara, a fare le moine. Tanta fatica per nulla, si può commentare. Certo, alla Gregoraci resterà pur sempre la possibilità di un'estate di lusso, a Poltu Quatu, a Porto Cervo, in compagnia di Flavio Briatore, mentre nell'aria arrivano gli echi anni Sessanta di Umberto Smaila. Però, che ingiustizia. Le veline e assimilate esistono solo in quanto appaiono in televisione. Solo apparendo possono ambire a sposare calciatori o ad allacciare relazioni sentimentali con i vip. Se una velina non appare, addio posto al sole. E l'ingiustizia aumenta se si pensa che la piazza pulita riguarderà lei e solo lei, la derelitta Gregoraci. Tutte le altre, sconosciute ai più, continueranno a fare le loro comparsate in quei programmi di pura inutilità quotidiana che infestano la Rai. Gregoraci, martire per la causa. Gregoraci, unica processata e condannata. E allora, la riforma, il cambiamento, come avverrà? Pippo Baudo ha lanciato l'idea della scelta delle veline attraverso un concorso nazionale. Qualcosa che assomiglia a ciò che faceva Gianni Boncompagni con la scelta delle ragazze di "Non è la Rai", e che fu descritto in una storica intervista di Stefania Rossini. Boncompagni filmava tutti i provini, convinto che questi documenti registrati sarebbero diventati un repertorio sociologico essenziale per capire l'Italia contemporanea. Forse anche l'Italia delle veline potrà dare luogo a un magazzino di conoscenze sulla cultura diffusa nel paese. I valori, i compromessi, l'alfabetizzazione. Come disse una candidata alla vittoria finale in un'edizione di Miss Italia: «Votate per me, per come sono e non per come apparo». Apparo. I giurati avevano appena lodato non solo la bellezza ma soprattutto la "preparazione" delle ragazze. Adesso un concorso nazionale delle veline per la Rai sarebbe un fenomeno in pura controtendenza: mentre il governo liberalizza, il servizio pubblico nazionalizza. La nazionalizzazione delle veline. A quando un albo specifico? I corsi di aggiornamento? Le scuole professionali con il contributo Ue? Il sottoscritto si candida nella giuria. Inseritemi per la mia grande cultura, non per i secondi fini che potrei cullare: insomma, prendetemi per come sono, non per come apparo.
L'Espresso, 20/07/2006
PARTITA DOPPIA
Cè un momento in tutti i processi in cui il tribunale si forma l'idea della colpevolezza o dell'innocenza degli imputati. È un meccanismo psichico collettivo, ancor prima che un procedimento giuridico: per questo il diritto è anche una scienza sociale, e non solo un astratto complesso di norme da cui si distilla una sentenza. Ed è per questo che lo scandalo di Calciopoli, giunto alla sentenza di primo grado, è influenzato dall'esito di una partita doppia. La prima partita si è giocata in seguito alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, che hanno rivelato «l'illecito strutturale» identificato da Francesco Saverio Borrelli. Un reato sportivo di sistema, simile per certi aspetti alla «dazione ambientale» identificata da Antonio Di Pietro per Tangentopoli, che ha condizionato i campionati, influenzato gli arbitri, messo in campo rapporti di potere, creato una specie di duopolio dominato dalla Juventus e dal Milan, e nella cui orbita si sono accodate altre società, come la Fiorentina dei Della Valle e la Lazio di Lotito. La seconda partita invece si è giocata a Dortmund e a Berlino, nella semifinale con la Nazionale tedesca di Klinsmann e Ballack e infine nella drammatica e liberatoria finale con la Francia di Domenech e Zidane. Ed è stato dopo la vittoria al Mondiale che il clima è cambiato, con una vistosa trasformazione dell'atteggiamento dell'opinione pubblica. Per rendersene conto è bastato assistere al miracoloso materializzarsi di Clemente Mastella in tribuna all'Olympiastadion, a fianco del presidente Napolitano, simbolo di un tempismo eccezionale, con il fiuto del politico di razza, che come diceva di conoscere meglio i mercati rionali dei mercati internazionali, concepisce con maggiore facilità gli impulsi della passione calcistica rispetto ai dettami della ragione giuridica. Il messaggio comunicato dal ministro della Giustizia era facile da decodificare (poi le sue dichiarazioni pubbliche hanno completato l'opera): c'è una giustizia formale, che tutti noi rispettiamo, ma c'è anche un elemento sostanziale, vale a dire che i "nostri ragazzi" hanno conquistato il massimo alloro calcistico. Mettiamoci poi l'imprimatur di Napolitano, il ricevimento degli azzurri da parte di Prodi, la trionfale glorificazione in pullman fino alla folla del Circo Massimo, e il segnale diventa chiarissimo: urge il colpo di spugna. Non è possibile, in tutta ragionevolezza. Le richieste del procuratore federale Stefano Palazzi erano state talmente severe da non rendere plausibile un passo indietro, il "liberi tutti". La giustizia sportiva non poteva dire "avevamo scherzato", pena la perdita di qualsiasi credibilità agli occhi del mondo non solo calcistico. Tuttavia il ragionamento della giustizia "sostanziale" ha fatto rapidamente breccia. Il Mondiale tedesco ha visto come protagonisti tre giocatori juventini, Buffon, Cannavaro e Zambrotta, che sono risultati decisivi nell'esito della competizione (altri, come Camoranesi e Del Piero, hanno dato un loro onesto contributo). E allora, dice il sillogismo "sostanziale", è possibile che alcuni fra i migliori giocatori del mondo, che si sono prodigati per la patria pallonara, debbano scontare le responsabilità dei loro dirigenti? Che un terzetto difensivo dimostratosi di valore planetario debba subire una condanna che deriva dalle mene di Moggi e sodali? Che colpa abbiamo noi, dice la canzone innocentista dei tifosi, e che colpa hanno loro, i giocatori? Ancora: è possibile che due centrocampisti dotati rsipettivamente di abnegazione e di classe come i milanisti Gattuso e Pirlo, e attaccanti come Gilardino e Inzaghi, debbano farsi carico delle male azioni del potere che il Milan di Adriano Galliani ha eretto con e contro la Juventus (facendo affari insieme per i diritti televisivi e scambiandosi colpi sotto la cintura nella competizione in campionato)? Come si vede, si tratta di piani paralleli, largamente incoerenti sotto il profilo logico. Da un lato la soddisfazione e l'emozione del Mondiale conquistato ai rigori, dall'altro il rigore tecnico della procedura penale sportiva. Ma sarebbe altrettanto illogico non valutare il peso del fattore psicologico. Sotto questo aspetto, le iniziative più spettacolari si devono a Clemente Mastella, confermatosi l'esponente più in vista di un populismo politico-sportivo che mette in primo piano i risultati rispetto ai regolamenti. Ma subito dopo non si può trascurare l'atteggiamento del segretario dei Ds, Piero Fassino, iscrittosi al partito della clemenza. Per la verità, il ragionamento di Fassino è più romantico e sottile di quello dei sostanzialisti scatenati, capeggiati da Giuliano Ferrara, che spara a palloni incatenati: «Per i Borrelli e i Rossi non basta punire comportamenti scorretti, eventualmente provati da seri processi, bisogna appunto rovesciare il mondo e dimostrare l'indimostrabile contro il principio di realtà: la palla è quadrata e i campioni del mondo hanno rubato gli scudetti, anche se sono formidabili rigoristi e hanno il carattere che si è visto». No, Fassino rispetta le forme, ma distingue fra imputati e tifosi, fra dirigenti e squadre. L'illecito strutturale descritto da Borrelli giustifica il repulisti dei dirigenti che hanno inoculato il virus nel calcio, ma occorre stare attenti a non umiliare i tifosi e la storia delle squadre implicate. Il fatto è che a prendere sul serio questa riflessione si affloscia il principio supremo su cui si basa, o si è basata finora, la giustizia sportiva, ossia il criterio della responsabilità oggettiva. Il processo svoltosi a Roma è una novità storica in sé, perché può decapitare l'aristocrazia del calcio nazionale, e perché coinvolge dirigenti societari e federali, ma non tocca nessun calciatore. Secondo il massimo innocentista in materia, il giornalista del "Foglio" Christian Rocca, il caso di Calciopoli è «un caso di corruzione sportiva che, unico al mondo, non vede implicato nessun atleta». Ecco quindi che anche la disquisizione di Fassino trova qualche giustificazione in più. Si affaccia l'idea, affidata attraverso le colonne di giornale al giudice Ruperto, che il processo avrebbe dovuto fare leva sulla "slealtà sportiva" (articolo 1) e non sull'"illecito" (articolo 6), di cui è difficile portare prove fattuali, anche perché Calciopoli non ha prodotto fenomeni di pentitismo. Certo, se l'illecito è "strutturale", se al potere di Luciano Moggi si erano affiancati altri poteri e contropoteri, se alla cupola numero uno si era opposta una cupola numero due, il processo non si può concludere, alla fine di tutti i gradi di giudizio, se non con una condanna generale. Ma, per l'appunto, c'è modo e maniera. La giustizia sportiva è abituata per tradizione a graduare le pene nei diversi livelli penali: agli inizi prevale la necessità di condanne esemplari; nei gradi successivi subentrano considerazioni più generali, che in questo caso potrebbero tenere conto inevitabilmente anche di aspetti sostanziali. In primo luogo, il fatto che la condanna a una serie inferiore potrebbe avere ripercussioni distruttive sulle "aziende" calcistiche, anche quotate in Borsa, e quindi su un numero di "stakeholder" che verrebbero danneggiati senza nessuna responsabilità e con pochissime possibilità di rivalsa. Ma poi c'è una serie amplissima di calcoli e sofismi giuridici, prodotti dalla collisione fra giustizia sportiva e logica calcistica. Ad esempio, una società come il Napoli, rilanciata a suon di quattrini buoni dal presidente Aurelio De Laurentiis, appena salita in serie B e carica di ambizioni, che ha fatto investimenti pesanti per tentare l'aggancio immediato della massima categoria, potrebbe sentirsi danneggiata ingiustamente e in modo pesante dal ritrovarsi come concorrenti tre o quattro squadre di caratura superiore, destinate quasi automaticamente alla risalita in serie A. Quindi il clima si confonde. L'effetto Mondiale è soltanto lo sfondo sentimentale e a suo modo politico del cambiamento di atmosfera. Vanno aggiunti i tentativi di patteggiamento informale dei legali della Juventus per evitare guai peggiori («La serie B sarebbe una punizione adeguata»). Ma anche i problemi economici che investono il terreno dei diritti televisivi, con il Milan che ha bloccato una tranche di pagamenti alla Juve; l'ipotesi che un eventuale ricorso al Tar del Lazio possa mandare nel caos il mondo del calcio nella sua interezza; l'apparizione, sempre possibile, di altre intercettazioni, tali da movimentare ulteriormente le responsabilità di società e dirigenti, complicando il quadro attuale. Con il passare dei giorni le certezze tendono a farsi meno solide. E in queste condizioni, sulla scia dell'impressionante entusiasmo popolare suscitato dalla vittoria di Berlino, comincia a fare presa la sensazione che il processo non sia affatto finito e che la partita doppia possa complicarsi ancora prima della sentenza definitiva, prevista entro il 25 luglio. D'altronde, le rivoluzioni cominciano tagliando le teste, ma poi arriva, contro Robespierre, il mese di Termidoro. L'importante sarebbe perlomeno evitare la Restaurazione. n
L'Espresso, 27/07/2006
L’impero del pallon
Ognuno ha i problemi suoi. I francesi sono riusciti a trasformare il caprone, Zidane, nella vittima, e Canal Plus l'ha santificato con un'intervista da pianto greco. Un signore di 34 anni che si lamenta perché in campo un avversario gli ha detto qualcosa su sua sorella, e la civile, cartesiana, laica, repubblicana, giacobina Francia si è stesa ai piedi di quel furore arcaico, basato sull'offesa alla famiglia, al clan, alla tribù. Non tiriamo fuori relativisticamente le radici e i diritti della cultura maghrebina, perché questo sì sarebbe razzismo. Ognuno ha i problemi suoi. Le lunghissime dirette televisive dal Circo Massimo, con il pullman degli azzurri accompagnato da una folla festante, hanno mostrato un paese senza troppi impegni lavorativi, ma soprattutto hanno fatto capire che quelli che continuano a dire che il calcio è una metafora della vita, come Enzo Bettiza sulla "Stampa", sono un passo indietro: il calcio non è una metafora, è la vita stessa, in un'identificazione senza scarti. Anche i grandi network internazionali, come la Cnn, hanno intuito che al Circo Massimo stava accadendo qualcosa di grosso (o di Grosso, è uguale) e hanno tenuto il collegamento per un'eternità. Evidentemente avevano capito con una certa rapidità che stava accadendo qualcosa. Il milione o due di persone raccolte a festeggiare rappresentava un evento rivelatore di questa nostra tarda modernità: faceva venire in mente le scene raccontate da un grande storico, Paul Veyne, in un libro classico sull'antichità, "Il pane e il circo". Panem et circenses, appunto, espressione che non si usa più perché sa di sufficienza moralistica, di superiorità schizzinosa, così come nessuno più parla di "calcio come ideologia" (altro libro classico di Gerhard Vinnai), insomma oppio dei popoli e dei poveri. Con la diretta totale della grande festa romana, la televisione ha mostrato che il calcio è un elemento iscritto dentro la contemporaneità, non diversamente da come le feste imperiali di 2 mila anni fa erano iscritte nella vita pubblica di allora. Forse la vera differenza è che oggi è impossibile diventare imprenditori politici del calcio: non c'è l'imperatore che "dà" la festa, il pallone si è autonomizzato. E la tv dilata l'euforia facendola diventare avvenimento prodigioso. Conta lo spettacolo delle folle: lo spettacolo sul campo di gioco, mediocrissimo, è solo un pretesto per il teleromanzo di massa.