L’Espresso
L'Espresso, 03/08/2006
I naufraghi di Raidue
Si trovano talvolta quasi per caso certe chicche, sulla Rai. Nella terza serata di martedì 25, su Raidue, per la serie di Giovanni Minoli "La storia siamo noi", è andato in onda un film di Emilia Brandi e Andrea D'Ascenzi, "Crociera & delizia". Il documentario è il risultato di tre settimane sulle navi da intrattenimento. Si vedeva quindi l'ambiente della crociera, raccontato dai passeggeri, dal personale di bordo, dagli ufficiali e dal comandante. Un mondo a parte. Nelle parole di un crocierista: «La crociera? Significa fare tantissime file, mangiare in modo approssimativo, ma molto, e rilassarsi». Ancora più secca la definizione di un cantante di bordo: «Qui siamo in un reality». In effetti a vedere una delle grandi navi di Costa Crociere, o della flotta Msc, c'è da rimanere impressionati: bestioni di quasi 100 mila tonnellate di stazza (con prezzi che possono superare i 400 milioni di euro), che portano per mare migliaia di persone. Sono macchine da divertimento programmato, con il casinò, il karaoke, il pianobar, gli animatori, le piscine, l'idromassaggio, le piste da ballo e soprattutto i ristoranti, presi d'assalto nei cinque pasti quotidiani (diverso è il caso della SilverSea, con piccole navi che fanno il giro del mondo imbarcando un numero limitato di passeggeri di fascia alta o altissima, in uno stile simile a quello di un esclusivo grand hotel marino). Ma ancora più che il turismo di massa itinerante per mare, il programma è riuscito a descrivere bene l'ingente portata economica di un settore in crescita esponenziale (a partire dalla costruzione delle navi nei bacini della Fincantieri) e a dare un tocco fra l'ironia e la nostalgia quando ha fatto raccontare a chi lavora sulle navi la vita di bordo. Il comandante, che si considera una specie di sindaco di un comune galleggiante, e partecipa a tutte le fasi della giornata, senza negarsi le danze serali; e poi ufficiali, funzionari, cuochi, macchinisti, camerieri, inservienti. Fino al caso piuttosto straordinario dell'addetto alle macchine che ha ottenuto dalla sua compagnia una deroga per farsi accompagnare sulla nave dalla moglie, che confessa: «Il momento migliore della crociera? Quando si scende nei porti e si va in città. Vede, io non ho un ruolo sulla nave. Sono solo una wob, wife on board». L'inutilità assoluta. Ma anche il complemento migliore per la vita sospesa, artificiale, temporanea delle crociere.
L'Espresso, 03/08/2006
Il Pianeta Rosso
Sbagliato prendere il nuovo libro di Gian Antonio Stella, "Avanti popolo", appena pubblicato da Rizzoli (pp. 304, euro 17,50) come uno dei consueti missili terra-aria dell'inviato del "Corriere della Sera" contro la politica italiana. Chi ricorda l'umore nerissimo delle due edizioni di "Tribù", libro che ha provocato seri danni alla destra e ai berluscones, potrebbe pensare che anche questo repertorio di «figure e figuri del nuovo potere italiano», come suona il sottotitolo, potrebbe configurarsi come un altro capitolo demolitorio, questa volta ai danni del centrosinistra. Certo, Stella si impegna. Porta già dentro di sé l'irritazione verso la carica dei 102, la spartizione governativa, il lotto continuo fra i partiti, insomma la cattiva prova pratica del centrosinistra che ha conquistato «per un pelo» la possibilità di governare. Nel leggere i 35 ritratti che compongono il volume, in ordine alfabetico dall'altermondialista Vittorio Agnoletto al redivivo liberale Valerio Zanone, non si può fare a meno di ammirare l'eccezionale qualità del lavoro di ricostruzione compiuto per ogni protagonista o comprimario della "nuova fase". E l'ammirazione cresce di fronte alle annotazioni dell'autore, per lo stile con cui rileva prove e indizi che inchiodano il centrosinistra. Prendiamo il capitolo su Giuliano Amato, uno dei più complessi: il chiaroscuro di Stella mette in luce tutte le sfaccettature del dottor Sottile, riconoscendogli una qualità tecnico-professionale fuori del comune; ma nello stesso tempo mette a fuoco anche la sua capacità di praticare giochi di prestigio sul proprio ruolo, sulla propria insostituibilità, sulla propria fungibilità. È vero che sparire oggi per riapparire in piena luce domani è una delle doti migliori dei politici veri. Ma è anche la dimostrazione che il centrosinistra è un labirinto di corridoi politici in cui si concentrano le oligarchie. Stella è troppo giornalista per buttarla sul dover essere: questi sono i politici che abbiamo, con loro facciamo i conti. E i conti possono essere anche divertenti, come con Massimo Cacciari, a cui è dedicato uno dei passaggi più clamorosi del libro. Perché il doge filosofo, Cacciari III di Venezia, quando è accusato di seminare lo scompiglio fra gli avversari e i compagni, «sbuffa e tira diritto, spiegando Hegel agli hegeliani, la dodecafonia ai dodecafonici, il papato al papa, l'idraulica agli idraulici, l'ascesi agli ascetici, il calciobalilla ai calciobalillisti». Dopo un exploit come questo, si può scegliere fior da fiore quali figure o figuri eleggere fra i più interessanti nel catalogo di Stella. Il «cattivista nella sinistra buonista» Sergio Chiamparino, il sindaco di Torino plebiscitato dal 66,5 per cento dei voti al primo turno? In ogni caso la preferenza va ai meno conosciuti. Perché la fisicità emiliana di Romano Prodi è nota, così come la rotondità simbolica del suo gluteo; si sa tutto di D'Alema, Veltroni, Napolitano, Fassino, Bertinotti, Rutelli. Mentre risultano irresistibili i personaggi come Luis Dürnwalder, presidente della provincia di Bolzano e vero capopopolo sudtirolese; ed è indimenticabile il ritratto crepuscolare di Arturo Parisi, l'omino di ferro somigliante al Negus che persegue il partito democratico con un'ostinazione metafisica; così come anche il profilo di Tommaso Padoa- Schioppa, il freddo tecnocrate ritrovatosi nel caldo torrido dell'avventura politica. Insomma, "Avanti popolo" manca il colpo del ko, ma non per colpa dell'autore. La sua onesta malizia è un dono impagabile: Stella è un artista del ritratto imbarazzante. Alla fine viene certamente fuori una sinistra estemporanea, incerta, pasticciona. Ma pur sempre meno peggio della destra. Meno legata ai soldi, meno prigioniera degli affari. L'autore fa di tutto per esprimere il suo disincanto. Tuttavia, mentre si registra da atti, documenti e dichiarazioni che questa è un'armata in cui pullulano i mediocri, gli incapaci, i politicanti, viene fuori a ogni pagina che sono i "nostri" politicanti. Fanno magari rabbia; ma non fanno paura. n
L'Espresso, 03/08/2006
Romano a orologeria
Sarà pure "sexy" la maggioranza stretta, come dice Romano Prodi, ma la differenza fra eros e thanatos, il piacere e il dolore, fra la tenuta e la caduta del governo è un niente, un diaframma impalpabile, uno spessore di carta velina. Ogni giorno una fibrillazione, un ostacolo da superare: il rifinanziamento della missione in Afghanistan, l'indulto, il decreto Bersani, la manovra correttiva. E sullo sfondo si profilano fin d'ora le strettoie della Finanziaria, con l'attesa di un settembre burrascoso. Le prospettive della legislatura sono incerte, a dimostrazione che il problema del Senato era stato sottovalutato. «C'è stato un deficit di realismo», commenta il politologo Piero Ignazi: «Occorreva mettere a frutto il risultato delle amministrative e il referendum sulla Costituzione, due risultati che avevano dimostrato che la spallata della Casa delle libertà era fallita». Nel centrosinistra non abbondano le soluzioni per uscire dall'impasse. Vecchi navigatori delle aule parlamentari fanno presente che Prodi non è mai stato un uomo del Parlamento. Altri segnalano una certa rigidità da parte del ministro dei Rapporti con il Parlamento, Vannino Chiti. Di fronte all'ipotesi di allargare la maggioranza, ventilata (invocata, ridimensionata) anche da uno dei numeri due di Prodi, Enrico Letta, e sostenute dal capogruppo dell'Ulivo al Senato Anna Finocchiaro, nell'entourage di Palazzo Chigi si mostra scetticismo. Il portavoce di Prodi, Silvio Sircana, ha coniato la formula secondo cui occorre cercare non tanto intese più larghe, quanto «restringere lo spazio dell'opposizione». Ma che cosa significa in concreto? Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma e storico braccio destro di Prodi, è molto prudente sull'evoluzione degli equilibri parlamentari: «Allo stato attuale è poco plausibile un coinvolgimento palese di forze dell'opposizione. Anzi, per niente». D'altronde non ci vuole molto a registrare che il muro contro muro sui provvedimenti blinda gli schieramenti. Non sono preventivabili defezioni dal centrodestra, né singole né collettive. Una campagna acquisti informale nelle file del centrodestra è resa impraticabile dalla condizione di estrema incertezza: nessuno è disposto a cambi di casacca se non sono chiari i vantaggi di una scelta simile e la loro durata. Eppure il presidente della Repubblica non perde occasione per segnalare il rischio che lo scontro continuo inneschi una «spirale distruttiva». Gli schieramenti devono parlarsi civilmente, dice Giorgio Napolitano. Ma dove sono le condizioni per una ripresa del dialogo? Prodi sembra in bilico su un'alternativa impossibile: governare con due o tre voti di maggioranza al Senato lo logora, uscire dall'autosufficienza dell'Unione lo abbatterebbe. Santagata e i prodiani a Palazzo Chigi proiettano il governo nel medio periodo: «Proprio perché siamo realisti dobbiamo puntare alto. Non è un espediente scaramantico. Che cosa aveva detto Romano ai ministri, negli esercizi spirituali di San Martino in Campo? Dovete avere il coraggio di stupire. Il governo ha una possibilità solo se riesce a fissare obiettivi di riforma che creino consenso nell'opinione pubblica, se si fa trasportare da un'onda favorevole nella società che tolga peso e voce all'opposizione». Facile a dirsi. Era l'"effetto Bersani", la ventata di innovazione suscitata dal decreto sulle liberalizzazioni. Seguita dai musi lunghi dopo le manifestazioni di giubilo dei tassisti, e le critiche di Francesco Rutelli all'accordo stipulato da Bersani con la categoria. Ma allora come può, realisticamente, un governo fragile trasformarsi in un governo forte? Negli ambienti politici più tradizionali si analizzano scenari alternativi. Mentre Pier Ferdinando Casini fa il possibile per restare sotto traccia, i due postdemocristiani di punta dell'anti-bipolarismo, Bruno Tabacci e Marco Follini, continuano a evocare cambi di schema. Le larghe intese, la scomposizione e la ricomposizione degli schieramenti. Il format politico trasformato in un laboratorio della Terza Repubblica. Si susseguono, anche con esplicite volontà provocatorie, identikit sulla personalità dell'eventuale successore di Prodi in un governo di "responsabilità nazionale" o in una "coalizione Montezemolo": il tecnocrate Mario Monti, il governatore di Bankitalia Mario Draghi. La tesi è sempre quella esposta prima delle elezioni politiche dall'ex commissario europeo: se i Poli si paralizzano a vicenda e non riescono a fare le riforme necessarie per il paese, un cavaliere bianco al centro del sistema raccolga le forze riformiste e proceda a realizzarle, senza più schematismi e forzature bipolari. Questi scenari fanno rabbrividire gli ulivisti più radicali. Arturo Parisi, teorizzatore e ideologo della scelta bipolare, è convinto da mesi che la politica italiana si trova di nuovo su una linea di crinale. Se si scivola all'indietro, anche a causa dei varchi aperti dalla proporzionale, non ci sarebbero probabilmente più appigli per arrestare la deriva consociativa. Ne consegue che l'imperativo è uno solo: l'Unione deve resistere. Momento per momento, battaglia per battaglia, voto per voto. Ogni risultato positivo conseguito in Parlamento è un pericolo in meno che si prospetti un cedimento compromissorio. Anche perché per il momento si è dimostrata infondata la tesi cullata sommessamente dall'Unione dopo le elezioni di aprile: e cioè che con il procedere della legislatura si sarebbe assistito a un allentamento della tenuta della Cdl. Un'erosione fisiologica, uno sfilacciamento, la "stanchezza dell'opposizione" su cui puntava anche Palazzo Chigi. In realtà il centrodestra è compattissimo, nonostante il cabotaggio neo-popolare impostato da Gianfranco Fini per An, che potrebbe metterlo prima o poi in rotta di collisione con Forza Italia (ma che mantiene An nell'area della governabilità anche in caso di esecutivi di garanzia), e l'insofferenza dell'Udc per ogni discorso a conferma della leadership di Silvio Berlusconi. Il "programma" della Cdl è stato esposto con chiarezza da Giulio Tremonti: Prodi cadrà sulla Finanziaria; di conseguenza il centrodestra non può permettersi il lusso di una stagione costituente, deve essere pronto a ogni evenienza. Alla "grosse Koalition" come alle elezioni. Al rimescolamento politico-parlamentare come a un nuovo scontro elettorale. Ma anche questo compattamento imprevisto, sostiene il club prodiano, è una tenuta "a tempo". Contiene una data di scadenza. È una strategia logica e razionale, ma che può svuotarsi se il governo e l'Unione dimostrassero con i fatti la propria capacità di gestire i mesi di emergenza del prossimo autunno-inverno. Vale a dire la capacità di mobilitare tutti i partiti della coalizione a sostegno di scelte di fondo condivise su base programmatica che dovranno misurarsi, e scontrarsi, con gli interessi reali. Il capo del governo ha in mano una sola carta, quella che ha mostrato nella contestata intervista al direttore della "Zeit" Giovanni Di Lorenzo: «Se cade il governo, ci aspettano sessant'anni di centrodestra», e che ha risottolineato al "Corriere della Sera": in un traumatico dopo Prodi ci sono soltanto le elezioni. Nell'area governativa non si prendono in considerazione soluzioni creative come lo scioglimento del solo Senato, che vengono considerate una specie di «esercizio enigmistico». Una sfumatura di ottimismo, ma niente più che una sfumatura, e anche volontaristica, viene offerta dall'idea che la politica estera è stata il terreno in cui si sono manifestati casi di coscienza anche drammatici e, lo si è visto, non negoziabili (come quello che ha portato alle dimissioni dalla Camera il deputato di Rifondazione comunista Paolo Cacciari); mentre sulla Finanziaria Prodi è convinto di poter armonizzare rigore e sviluppo, tagli e rilancio, severità ed equità. È il "prodismo": cioè la convinzione che la tenuta del governo possa essere la piattaforma per la ristrutturazione del centrosinistra, cioè la base progettuale e operativa del Partito democratico. Anche se per ora il governo Prodi sembra un caso di scuola della divaricazione fra l'esperienza di governo e il livello politico-partitico. Prodi governa, o tenta di governare, segnala la discontinuità in politica estera, riguadagna posizioni e coglie qualche successo nell'arena internazionale, prepara con Tommaso Padoa-Schioppa una Finanziaria straordinariamente difficile, mentre i Ds e la Margherita litigano sulla futura collocazione nel Pse del suo progetto politico, il Partito democratico (che a sua volta apre crepe vistose nella sinistra del partito di Piero Fassino). Effetti prevedibili del sistema proporzionale, dicono gli analisti politici. Ma ora non è più questione di teorie politologiche. È cominciata una corsa parallela, in cui governo e opposizione procedono affiancati, scambiandosi colpi, ciascuno aspettando che l'altro cada per stanchezza. E Prodi, che vede davanti a sé l'incubo della maratona più breve della sua vita, non ha altra strategia se non di fare un passo in più degli avversari, un metro alla volta, uno scatto dopo l'altro. Sempre nella speranza che, alle spalle, non gli facciano lo sgambetto. n
L'Espresso, 10/08/2006
schiavi della mini tv
In poco più di un mese oltre 100 mila italiani hanno acquistato un "tivufonino" di 3 Italia. Evidentemente il Mondiale di calcio in Germania ha esercitato una spinta consistente. Per molti appassionati non serve a niente avere la possibilità continua di repliche fuori orario: conta solo l'avvenimento in sé, in diretta, l'esserci. Quindi la possibilità di non perdere un appuntamento sportivo o televisivo può essere allettante. E i primi esperimenti con la tv digitale mobile devono anche avere convinto i nuovi possessori che non si tratta soltanto di un giocattolo. La qualità delle immagini infatti è assoluta, e consente di seguire i programmi molto più facilmente di quanto non si potrebbe immaginare. Chi scrive, per esempio, ha visto i supplementari e i calci di rigore di Inghilterra-Portogallo: prima diffidente, poi molto meno. Nel piccolo ma non piccolissimo schermo infatti il pallone è una capocchia di spillo bianca: ma definita, nitida. Le traiettorie si vedono bene, le azioni sono riconoscibili senza fatica. Semmai, dal momento che 3 Italia sta rafforzando la copertura, ci si può chiedere a che cosa serva effettivamente un attrezzo che consente soprattutto l'uso "outdoor" anziché "in house". Ma probabilmente è vero che la televisione è diventata un totem: avere nella tasca della giacca la possibilità di vedere news, sport, intrattenimento costituisce una specie di rassicurazione: una garanzia contro l'esclusione sociale. Così come si è continuamente connessi con i cellulari, i palmari, la posta elettronica, anche la tv portatile costituisce un tassello ulteriore della connettività. La caratteristica principale dell'operatore 3 Italia è che non si limita a riprogrammare Rai, Mediaset, Sky Tg24, Sky Sport, All Music ecc.; ha allestito anche un canale autoprodotto, La3 Live, che fa da guida ai canali del bouquet (diretto da Peppe Quintale, regia di Alessandro Baracco, entrambi con un passato di successo alle "Iene" di Italia 1). Ogni volta che si accende il "tivufonino" è una sorpresa vedere una presentatrice che sta illustrando i programmi. Dopo l'apprendistato, si impara a fare i conti con il nuovo gadget: una possibilità in più, una dannazione ancora. Ma si sa come vanno le cose con l'innovazione: ciò che sulle prime appare superfluo, dopo pochi mesi diventa insostituibile. E quindi, è davvero possibile che la tv digitale mobile diventi una nostra compagna di strada.
L'Espresso, 10/08/2006
L’Estate dei nuovi ricchi
Arriva l'estate del nostro scontento. Ci vorrebbe soltanto il misuratore di invidia sociale, una colonnina di mercurio che si impenna allorché accanto parcheggia la Porsche Cayenne di un centrocampista anche di fascia bassa. Si profilano le ruote del Suv, monumentali, e silenziosamente riesplode la lotta di classe. Da una parte, mezzo metro più in basso, c'è quasi tutto il reddito fisso: lavoro dipendente, impiegati, funzionari, dirigenti, e non parliamo dei pensionati, insomma, coloro che hanno sofferto la mazzata del cambio dalla lira all'euro e alla fine hanno capito che i vincitori stavano di là: nel lavoro autonomo, nelle corporazioni, fra i professionisti e i commercianti, fra chi aveva potuto aggirare il mercato, approfittando della mancanza di concorrenza. Perché i cinque anni del centrodestra, fra sushi bar e boutique, vacanze estreme e lussi da ultima spiaggia, barche e porti, sono stati un'epoca di lotta di classe condotta con altri mezzi. Una "revanche" economica praticata con il metodo Clausewitz. L'impoverimento dei ceti medi era evidente, ma nessuno diceva che simmetricamente altri ceti si arricchivano. Lo dicevano i vecchi marxisti: l'inflazione è un tiro alla fune; c'è chi ci perde e chi ci guadagna: indovinare chi. Sotto la benedizione di Berlusconi e Tremonti l'Italia delle libertà si è sentita davvero liberata. I condoni hanno confermato l'idea che non pagare le tasse era un peccato veniale. Fenomenali accumulazioni di ricchezza si sono verificate sfuggendo al fisco. L'elettorato di Forza Italia ha avuto mano libera nella grande rapina contro l'elettorato dell'Unione. Non ci sono stati soltanto gli immobiliaristi di punta, come Coppola, Statuto o Ricucci, che hanno capitalizzato lo zenith di un mercato in continua ascesa, dopo la dissoluzione della "bolla" in Borsa. Il mattone è diventato l'investimento obbligato, sparando in alto i prezzi e mobilitando l'indotto, dalle ristrutturazioni alle agenzie. La spregiudicatezza dello stile di un Ricucci, con l'ostentazione provinciale di danaro unita all'assalto del salotto buono Rcs, è un esempio della grande mutazione antropologica nel nuovo capitalismo: gli ex palazzinari che diventano ceto d'avanguardia. Le analisi come quelle di Riccardo Faini, secondo cui il modello industriale italiano era «obsoleto» e quindi condannato al declino, non consideravano la creazione di ricchezza selettiva basata sulla rendita (come ha rilevato Geminello Alvi nel saggio "Una repubblica fondata sulle rendite"). L'apparato industriale soffre la concorrenza asiatica, quindi cambia, si ristruttura, innova. Invece, alcuni settori protetti hanno ricostituito margini di profitto impressionanti. La sensazione, come sempre, è che il paese sia povero ma che gli italiani (una parte di loro) siano ricchi o siano diventati ricchissimi. L'esibizione di denaro nei santuari del supercazzeggio italiota è tale da suscitare la meraviglia e l'ammirazione masochista dei poveri. A Poltu Quatu il ceto medio poco riflessivo si assiepa ancora sul molo per ammirare l'arrivo di Flavio Briatore con una svampita. A Cortina sono tornate le stagioni d'oro, fra i ludi dell'intellighenzia e valori catastali schizzati verso l'impossibile, oltre i 20 mila euro al metro quadro. Forte dei Marmi è di nuovo un luogo dell'ostentazione di ricchezza senza se e senza ma. Ma anche località meno note vedono il concentrarsi di un'euforia economica clandestina, quasi mai censita dal fisco. A Jesolo i nuovi appartamenti sul mare sono decollati in qualche caso verso i 16-17 mila euro al metro quadro, attirando investitori sconosciuti alle cronache ma capaci di staccare assegni superiori ai 3 milioni di euro. Sul Garda trentino, dato che il litorale è da tempo proprietà tedesca, ormai si specula sull'entroterra, a prezzi triplicati nel giro di un paio d'anni. È L'Italia del mezzo milione di barche, dei fuoristrada, delle 10 mila auto sopra gli 80 mila euro immatricolate in un anno. Ed è quella nazione atterrita dal governo «delle sinistre», come diceva e dice Berlusconi, dal «vampiro» Vincenzo Visco, che ha già spostato un po' di soldi in Svizzera, ha affollato gli studi dei notai per formalizzare le donazioni ai figli, allo scopo di evitare il ritorno dell' imposta di successione (su cui Prodi e il centrosinistra, con le loro vaghezze, si sono quasi giocati le elezioni). Ma è anche la nazione che osserva con soddisfazione l'andamento della curva del rapporto fra rendita e reddito da lavoro, sempre più simile a quella degli anni Cinquanta. Il popolo dell'Iva, delle professioni, degli albi a tariffa minima, delle categorie a evasione massima, guarda naturalmente con fastidio le liberalizzazioni del ministro Pier Luigi Bersani. La rivolta delle élite, testimoniata dalle serrate dei farmacisti e dagli scioperi degli avvocati, costituisce uno dei fenomeni più "moderni" a cui sia capitato di assistere: superato soltanto dalla velocità con cui gli iperliberisti della Casa delle libertà si sono trasformati in difensori accaniti del corporativismo. La metamorfosi è grottesca quanto rivelatrice. Da un lato dimostra quanto sia ingombrante la presenza nella società italiana di un privilegio di classe, percepito dai privilegiati alla stregua di un diritto castale; e dall'altro quanto sarebbe politicamente incisiva una politica di liberalizzazione, in modo da introdurre merito e concorrenza in una collettività afflitta dall'assenza di mobilità sociale. Il tema della concorrenza era stato lanciato da Luca Cordero di Montezemolo, con un'operazione culturale di ampio respiro, il convegno della Confindustria a Vicenza, che è stata stroncata dall'irruzione del Caimano, venuto a riprendersi la pancia degli imprenditori. Alla fine, potrà apparire bizzarro che siano i vecchi e nuovi ricchi a dover temere le politiche liberali. Ma è anche la prova che ci sono gli spazi politici per fare quello che Berlusconi in campagna elettorale deprecava: redistribuire la ricchezza attraverso il fisco, mettere sullo stesso piano "il figlio del professionista e il figlio dell'operaio". Il panorama dell'estate mostra che una certa dose di giacobinismo nelle regole e nella prassi non farebbe male: muoverebbe interessi, sposterebbe passioni. E probabilmente creerebbe consenso. n
L'Espresso, 10/08/2006
A Porto Cervo è tornato il Caimano
Chi voleva una fotografia delle due Italie, il paese di destra e il paese di sinistra, l'ha trovata. La destra è come sempre Silvio Berlusconi: il Cavaliere ridente, trionfante, esplosivo. L'uomo mascherato di Marrakech, il berbero che avanza con passi «ieratici», si inginocchia e concede all'inconsapevole Veronica la collana di rubini. Oppure il supermondano di Porto Cervo, che si infila al Billionaire di Flavio Briatore, e trasforma una serata cafona in un evento imperdibile, tra Lele Mora, Emilio Fede, Matteo Marzotto, Paolo Barilla, nonché gruppetti di supersquinzie «belle & possibili», come ha sottolineato Laura Laurenzi su "la Repubblica". Insomma, destra significa gente che sa divertirsi e ne ha la possibilità. Niente moralismi, naturalmente: al suo meglio, Berlusconi è un grande intrattenitore, uno che si presenta alla festa, e al supercazzeggio, della Sardegna dorata sostenendo con la miglior faccia possibile che è la sua prima serata libera negli ultimi 12 anni, e che comunque anche di recente ha fatto le nottate lavorando con «il dottor Letta». Sottinteso: mi merito il premio. Mentre la sinistra, neanche a dirlo, sembra una quaresima. La legge finanziaria che si profila al di là delle ferie incombe come una nuvola minacciosa, gonfia di responsabilità, tagli, sacrifici, impegni, punizioni. Tutti argomenti su cui è difficile immaginare un processo riformista guidato con decisione e unità d'intenti. Ed è logico allora che Berlusconi sfoderi il suo scetticismo, la sua ironia, il suo ottimismo: «Prodi non dura». È la sua scommessa. Deve tenere insieme il centrodestra, stroncando le eresie di Pier Ferdinando Casini e le manovre a cui teme che potrebbe prestarsi l'Udc. Deve mettere tutta la Cdl a fianco a fianco con l'Unione e correre in parallelo a Romano Prodi: chi si ferma per primo ha perduto. Mors tua vita mea. In caso di caduta del centrosinistra, si avvererebbe la diagnosi di Arturo Parisi: «Se la maggioranza dimostrasse di non saper dare prova di unità e capacità di governo, sarebbe inevitabile ripensare la nostra proposta davanti agli elettori», vale a dire che l'Unione avrebbe chiuso la sua storia. In modo consapevole o no, gli exploit mondani di Berlusconi servono anche a mettere in luce la felicità collettiva, l'allegria euforica della destra contro la mestizia ontologica della sinistra. Mentre Tommaso Padoa-Schioppa dovrà spremere ogni energia per individuare costi da tagliare e spese da risparmiare. Una povertà francescana è il clima che Prodi e il suo governo possono promettere agli italiani, nella speranza che la virtù possa diventare benessere in seguito. Berlusconi invece sta facendo la più efficace campagna preventiva possibile: la ricchezza è qui e ora, basta saperla cogliere. Sta tornando il Berlusconi autentico, la figurina magica, l'icona pop senza inibizioni e senza tabù: l'uomo del jogging alle Bermuda, dei cactus a Villa Certosa, della bandana con Cherie Blaire, dell'amicizia virile con il judoka Vladimir Putin, del lifting, del trapianto, delle nottate con il chitarrista Mariano Apicella. Il Berlusconi al governo era berlusconista, cioè duro e cattivo; quello di Marrakech e del Billionaire è berlusconiano. Lancia il suo unico vero programma, "lasciateci divertire". Dove il divertimento è innescato dal potere, dall'esercizio del comando, dal piacere dell'essere al centro di tutto. Difficile controllare se sia vero che i sondaggi hanno riportato la destra cinque punti sopra l'Unione. Di sicuro c'è soltanto che il collasso del centrosinistra equivarrebbe alla sua autodistruzione: dopo la caduta di Prodi, proprio come disse Giancarlo Pajetta a proposito del dopo Togliatti, si chiude una fase e non se ne apre nessun'altra. Berlusconi ne è consapevole. Si mette in pista per essere pronto a raccattare il potere. Fra il suo umorismo, il gusto per la comicità, il senso di Silvio per le feste, e la "reconquista" ai danni degli infedeli, c'è solo il diaframma resistenziale di due voti al Senato. Certo, lo sanno anche tutti quelli dell'Unione, che devono durare un passo, un soffio, un istante in più di Berlusconi. A dispetto di tutto, prima di riconsegnare l'Italia ai trentadue denti del Caimano, vale la pena di ricorrere a vecchi proverbi, a saggezze antiche: all'idea insomma che ride bene chi ride ultimo.
L'Espresso, 17/08/2006
Tuffi dal telecomando
Alle prese con la solita programmazione estiva (problematica, diciamo così), ci sono poche alternative: o ci si dedica ai programmi di qualità, e in questo caso è sempre una sorpresa "La storia siamo noi", il contenitore-laboratorio di Gianni Minoli, che di recente ha mandato in onda il programma sulle crociere di Emilia Brandi e una trasmissione sulla Bussola di Chiara Tiezzi; oppure ci si dedica alle trasmissioni di puro intrattenimento. Fra queste ultime, un cenno particolare hanno meritato i campionati europei di nuoto di Budapest. Gli appassionati e i tecnici non se la prendano per la definizione di intrattenimento inflitta a una disciplina sportiva. Ma uno è un tecnico, un conoscitore, un esperto, e allora avrà seguito i campionati integralmente, sarà magari andato nella capitale magiara, avrà fatto il tifo, si sarà mangiato le mani per gli errori della Cagnotto e avrà gioito per i successi di questo e di quello, di Magnini e Rosolino, und so weiter (che vuol dire "e così via" nella lingua dell'impero austroungarico). Oppure è un profano, e per i profani il nuoto è un mistero ma quanto di più estivo si possa immaginare. L'acqua della piscina, gli spruzzi dei tuffi, il carpiato, l'avvitato, gli esercizi sincronizzati. Certe volte, mentre aspettiamo canonicamente la fine della digestione per tuffarci a nostra volta, la piscina budapestina è un ristoro a prescindere, e anche la dimostrazione che Esther Williams, come diceva sempre Paolo Limiti, con i suoi film acquatici aveva intercettato un potente sentimento collettivo. No, non il ritorno al liquido amniotico: piuttosto il senso di Stefano Bizzotto per la frescura (per chi non lo sa, Bizzotto è il telecronista della Rai). E in aggiunta la possibilità di ammirare, nei lenti pomeriggi d'agosto, ragazze con fisici d'eccezione, e ragazzi altrettanto. Sicché poi ci si può gettare in acqua con lo spirito rinfrancato, producendosi in tuffi clamorosi e in bracciate di impressionante potenza (vabbè). Poi si torna dalla spiaggia, si riaccende la televisione e i tuffatori sono ancora lì, che si buttano dalla piattaforma, e le tuffatrici dal trampolino, e i farfallisti e i dorsisti e i ranisti e i liberisti fanno vasche velocissime, e l'ottimo Bizzotto commenta meraviglie. Fra l'altro, adesso hanno inventato sistemi tv che fanno anche capire chi ha vinto la gara in volata. Ci vorrebbero campionati di nuoto per tutto agosto.
L'Espresso, 17/08/2006
Qull’impolitico a destra di Silvio
Sarebbe facile liquidare il confronto fra Berlusconi e Murdoch dicendo semplicemente che il confronto non c'è. Il Cavaliere resta un leader regionale, un imprenditore ricco ma a definizione di confine controllata, mentre il magnate australiano è un tycoon globale. Se ha voluto trovare una collocazione internazionale, Berlusconi ha dovuto capitalizzare il suo ruolo politico: imprenditore nato con i favori della politica, il tycoon di casa nostra ha invaso la scena pubblica mentre il sistema era alla demolizione. Da lì ha costruito la sua figura di mediatore, cultore della photo opportunity con i potenti, autore di storiche pacche sulle spalle all'amico Putin e all'amico Bush, talentuoso istrione ai tempi della bandana con Cherie Blair. Sulla credibilità del suo ruolo di insider fra i grandi, animatore ufficioso dei summit o infiltrato tollerato, nessuno ha mai verificato con giudizi equilibrati. Era comunque il caso esemplare dell'imprenditore che si butta in politica: originale, inventivo, fantasioso, ma autore di uno scarto rispetto alla norma secondo cui i businessmen restano sullo sfondo, assecondando e condizionando gli equilibri politici, ma senza scavalcare i limiti ufficiali del proprio ruolo. Mentre lo squalo australiano è ad un tempo più tradizionale in politica e più estremo nella dimensione imprenditoriale. Nato come editore nel crogiuolo dei "junk papers" inglesi, è riuscito a far diventare la propria editoria il veicolo popolare dell'ideologia thatcheriana, quella rivoluzione conservatrice non riconducibile alla destra classica che ha scosso dalle fondamenta il Regno Unito tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta. Berlusconi ha fruito del sostegno del proprio impero televisivo durante la sua parabola politica, Murdoch invece ha ragionato per tutta la sua carriera in chiave di mercato. Intrinsecamente conservatore, l'iper editore australiano ha creato, con Fox News, una rete mondiale a sostegno del complesso ideologico bushista, cioè della nuova destra americana neocon. E se le reti di Berlusconi sono uno strumento politico diretto, il terreno di coltura del suo elettorato medio, nella provincia italiana la murdochiana Sky è una piattaforma senza aggettivi politici, e Sky Tg24 un organo di informazione che guarda con interesse al modernismo di certi settori di centrosinistra, quelli più orientati verso il Partito democratico. Perché alla fine, nella provincia nostrana, l'intreccio fra politica e mercato è la condizione costitutiva dell'editoria, particolarmente televisiva. Nell'orizzonte globale, vale il detto di Bill Clinton: «It's the economy, stupid». È il mercato, bellezza, e nella postpolitica contemporanea il resto è chiacchiera.
L'Espresso, 24/08/2006
Formula videogame
L'ultimo gran premio di Fomula uno, disputato a Budapest, è stato un esempio di come le gare automobilistiche potrebbero e dovrebbero essere. Si sa infatti che da tempo la Formula uno offre poche emozioni. Non si vede competizione, non ci sono sorpassi, lo stesso Briatore ha concluso che qualcuno del Barnum dovrebbe cominciare a chiedersi le ragioni del crollo di spettatori. Ma a Budapest, ottima telecronaca della Rai, si è visto di tutto. Alonso e Schumacher penalizzati dopo le prove, in modo da movimentare la corsa. E poi una gara dominata dal caso, che assomigliava a un videogioco da incubo. Un bell'acquazzone, così si vede chi sa guidare. E quando sembrava che lo spagnolo Alonso avesse messo tutti in fila, ecco che uno spettacolare incidente, un tamponamento di Raikkonen, riempie di rottami la pista, costringendo la safety car a mettere tutti in fila (e quindi si torna in condizioni praticamente di parità). Il clou sembrava raggiunto allorché i meccanici di Alonso hanno sbagliato durante il pit stop e non sono riusciti ad avvitargli la ruota posteriore destra, che difatti alla prima curva si è staccata; ma invece c'è stato un ulteriore dramma, quando a tre giri dalla fine Schumacher si è fermato con una sospensione rotta, dopo avere fatto a ruotate con chiunque cercava di sorpassarlo. A quel punto si è capito che cambiando i regolamenti la Formula uno non cambierà mai: ci vogliono rimedi molto più efficaci. Occorrerà passare al gran premio interattivo: pulsante verde, acqua in pista; pulsante rosso, pit stop obbligatorio per chi è in testa. Devono partecipare tutti, spettatori sulle tribune e spettatori sulle poltrone. Basta un telecomando, e via. Certo ci sarebbero le obiezioni dettate dalla presunta natura sportiva delle gare: ma insomma, ci vuole poco a capire che la Formula uno non è sport, è spettacolo. E spettacolo televisivo, per giunta. Quindi, se dev'essere show, non ci si fermi davanti alle perplessità di piloti, case automobilistiche, esperti. Pensate alla soddisfazione di tirare secchiate d'acqua virtuali che diventano reali, di mandare fuori strada chi sta vincendo: lo si è fatto sempre, con la forza del pensiero, nutrendo idee antisportive tipo: speriamo che all'avversaria della Ferrari scoppi il motore all'ultimo giro. Benissimo, basta un poco di fantasia in più, e la Formula uno diventa quel magnifico videogioco che è ormai solo in rarissime occasioni.
L'Espresso, 31/08/2006
Elettori che hanno fatto storia
Le tre puntate di "Ciak si vota. Cinema e propaganda politica", curate da Tatti Sanguineti e realizzate dall'Archivio audiovisivo del movimento operaio e dall'Istituto Sturzo promettono di diventare una fonte straordinaria per lo studio della storia contemporanea italiana. La prima puntata è andata in onda il giorno di Ferragosto, quasi a mezzanotte. Per il vizioso di politica, ma anche per chi ama la documentazione filmica della nostra vicenda repubblicana, si è trattato di un appuntamento impagabile. In primo luogo per la ricchezza del repertorio cinematografico selezionato e montato: questa prima puntata era dedicata al cinema propagandistico democristiano, nei dintorni delle elezioni "epocali" del 18 aprile 1948. Il che consentiva di registrare direttamente il clima d'epoca, ma anche il confronto fra i complessi ideologici, le convenzioni propagandistiche, il calore e l'asprezza dello scontro politico, dentro un complesso di regole che consentivano tackle durissimi (alcune produzioni cinematografiche dei Comitati civici di Luigi Gedda sono oggi particolarmente impressionanti quando commentano in modo tassativo la scomunica del Vaticano contro gli iscritti al Pci). Dunque la prima reazione, in attesa dell'ultima puntata (la seconda, il 22 agosto, è stata dedicata ai comunisti) è di gratitudine "professionale", per la ricerca effettuata, che ha riportato alla luce una quantità impressionante di materiale. Ma in secondo luogo programmi come questo mettono in luce quale potrebbe essere il ruolo effettivo della Rai come produttrice di cultura. È fuor di dubbio che gli archivi dell'emittente pubblica sono uno straordinario bacino di lavoro per gli storici attuali e futuri che vorranno avere immagini, e non solo testimonianze scritte, sull'evoluzione del paese, e quindi richiedono cure e soprattutto investimenti, almeno finché la Rai vorrà fregiarsi dell'etichetta di "servizio pubblico". E nello stesso tempo quella che viene definita con un po' di retorica «la massima agenzia culturale del paese» dovrebbe anche esercitare una funzione editoriale, individuando filoni di lavoro (oltre a quelli meritori di Gianni Minoli con "La storia siamo noi") che possano valorizzare i depositi di immagini conservate in archivio, ed eventualmente anche di acquisizione o mappatura di archivi esterni. Per adesso, programmi come "Ciak si vota" sono esemplari, e indicano una direzione possibile.
L'Espresso, 31/08/2006
Le voglie d’autunno
Sarà ripresa vivace o autunno che declina, neanche troppo dolcemente? Crescita del Pil, bonus fiscale, Finanziaria leggera, per gli ottimisti; trappole al Senato, centrosinistra a pezzi, per chi vede nero. Il paese affronta l'ennesimo ritorno a settembre con poche certezze e molti dubbi: come al solito, insomma. Qui di seguito, scaramanzie e cattivi pensieri, buone intenzioni e pessimi auspici: un lessico del dopo estate. Amato Il dottor Sottile lo sa, ma fa finta di non saperlo per innata prudenza. Il suo ruolo non è il titolare degli Interni; o meglio, non solo. Amato è il vero ideologo dell'Unione: solo la sua cultura può fornire un quadro concettuale che tenga insieme liberalizzazioni e cittadinanza agli immigrati, laicità e Vaticano, islamici e Occidente, tasse e aliquote, crescita e redistribuzione. E dire che non hanno voluto mandarlo al Quirinale: ah, che magnifici discorsi, avremmo sentito. Bertinotti I suoi avversari, soprattutto dentro i Ds, dicono che non ha idea di come si gestisce la Camera. Che fare il presidente non vuol dire dare la parola. In più, mettiamoci gli auguri a Fidel Castro, giustificati con la solita eleganza elusiva. L'apprendistato di Fausto come uomo delle istituzioni è faticoso. Ma un risultato l'ha già ottenuto. Senza la sua presenza sul campo, Rifondazione comunista è tornata nella zona d'ombra. Bisogna vedere se il Parolaio è contento per il proprio ruolo presidenziale o scontento per il partito: certo che pensare "dopo di me il diluvio" è pur sempre una bella soddisfazione. Casini L'inossidabile Pier Ferdinando ostenta toni duri quando deve parlare del governo, e toni durissimi allorché parla del centrodestra. Un'analisi vecchia maniera lo consiglia di stare fermo, immobile, aspettare. Ma intanto si profila irresistibile l'idea del Centro che decide: sarebbe sufficiente scomporre il bipolarismo, allearsi con i centristi dell'Unione (intanto con Mastella, domani si vedrà) e costituire un ago della bilancia, un nucleo autonomo, il luogo di tutti i Monti, Montezemolo, Della Valle eccetera: sperando che con tutti questi monti e valli non si venga mandati a scopare il mare. D'ALEMA Era ruzzolato giù dal Colle e sembrava che la Farnesina fosse un premio di consolazione. Si è trovato a raddrizzare la politica estera italiana, e sta oscurando il predecessore. Guadagna il plauso del divo Giulio, risponde per le rime alle accuse per la passeggiata con l'hezbollah. Grandi successi, ma anche una missione in Libano che sarà un azzardo. Anche per lui, che si gioca tutta, ma proprio tutta, la carriera politica. EMMA Nel senso della Bonino. Rimasta fuori dalle beghe dei Rosapugnoni. Quindi estranea alle liti provocate dall'incompatibilità di carattere fra socialisti e radicali. Il progetto di accorpamento nella Rnp è fallito, dopo il cattivo risultato elettorale, perché la bulimia mediatica e politica pannelliana, altro che scioperi della fame, ha messo ai margini Boselli e compagni. Volgare pensare che per Emma la presenza al governo sia l'occasione di spannellarsi, e di trovare finalmente una strada propria: ma si sa che a pensar male, con quel che segue. FASSINO C'è il tarlo segreto del successo internazionale del lider Maximo. L'invidia per Rutelli che si esibisce in spiaggia o volteggia fra i beni culturali. Mentre Veltroni, Bersani, Chiamparino si mettono ai blocchi per la guida del partito democratico. Solita vita da mediano, per l'infaticabile Piero, e anche con qualche punto di penalizzazione che renderà ostica la ripresa del campionato. GIANFRANCO Nel senso di Fini. L'a-a-abbronzatissimo. L'orfano della Farnesina, e si vede. L'uomo che traghetterà An e i suoi postfascistoni residui dentro il Ppe. Era il teorico del fascismo del 2000. Adesso è il programmatore della democristianità del Terzo Millennio. Avviso agli Storace, ai duri e puri (non esageriamo, anche ai sottanieri del partito, ai divanisti, a quelli che sono passati da via della Scrofa a Piazza della Porcella): morirete democristiani, e dovrete anche farvelo piacere. HEZBOLLAH Bisognerà disarmarli, dice il centrodestra. Che sulla forza Unifil fa gli stessi sketch che ha fatto con le liberalizzazioni. Liberisti al governo e corporativi all'opposizione. Protagonisti nell'agone internazionale, quando c'era Silvio, e prudentini quando non c'è più. Finisce che SuperSilvio si traveste da hezbollah, e li disarma lui, con ieratiche movenze e salamelecchi, offrendo collane di rubini. IMMIGRATI Nota del presidente del consiglio Romano Prodi. Sugli immigrati devono tacere tutti. Può parlare solo Amato. LIBERALIZZAZIONI Cavallo di battaglia del prode Bersani. Che dovrebbe capire una sola cosuccia: le liberalizzazioni sono, alla lettera, il programma del partito democratico. Libertà e merito, uguaglianza praticata nei fatti. Chi le porta a casa non fa soltanto il bene del paese, può anche diventare il leader della nuova fase. Tagliando l'erba sotto i piedi a tutti gli altri, a Rutelli, a Veltroni. L'autunno dovrebbe dirci se il commentatore di don Giussani riuscirà a prendere questo taxi. MONTEZEMOLO Questi i fantasmi di Luca: liberalizzazioni, tasse, mercato, ripresa. In casa Fiat, l'ombra di Marchionne, l'uomo duro, l'uomo d'oro. In Confindustria il multipresidente si fa in quattro per controllare la base ancora nostalgica dei condoni e della crescita zero. Deve portare a casa un risultato, qualcosa, convincere il governo a sganciare. Solo allora potrà dire: ne è valsa la pena; alla fine siamo riusciti a farci un cuneo così. NAPOLITANO 'O presidente vigila, vaglia, giudica, e poi sentenzia. Per la verità in agosto è stato parco di parole. Cosa fatta capo ha. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Ma se tanto ci dà tanto, l'Uomo del Colle, alla ripresa settembrina, avrà modo di esternare alla grande. Il suo compito è più delicato che mai: perché il tifo dice Unione, ma la ragione e l'istituzione dicono neutralità. Anzi, per evitare critiche dovrà apparire ancora più imparziale. Invocherà il dialogo, inviterà a rispettare la procedura istituzionale: ma alla fine, farà capire: accà nisciuno è fesso, e quindi tocca a voi, cari signori dell'Unione, trovare il modo di tenere in piedi il governo (non spetta a lui dirlo, ma un napoletano, con la "e", e la "n" minuscola, mi raccomando, li avrebbe già messi in saccoccia, quei sei o sette senatori di sicurezza). OSSERVATORE ROMANO A forza di osservare, anche romanamente, si prevede quanto segue: che nella successione al presidente della Cei Ruini, il cardinale Tettamanzi prende più voti, ma alla fine il papa nomina Angelo Scola, legato a Cl. Si parva licet componere magnis, accadde la stessa cosa quella volta con Veltroni e D'Alema: il popolo dei fax votò il Bruco; i corridoi di partito nominarono Baffino. Conclusione: con i voti bisogna andarci piano, soprattutto se sono voti religiosi. E si sa che chi entra papa, esce cardinale. PRODI A destra dicono che cade, cade, adesso cade; lui si comporta come se fosse eterno. Patate bollenti in politica estera, ma anche grande visibilità europea e mondiale. Perfettamente a suo agio, con D'Alema in avanscoperta, il Caro Leader dovrebbe abbandonare il proscenio planetario per occuparsi di inezie come la Finanziaria. I sondaggi segreti lo danno in grande crescita, grazie ai tortellini della Flavia, l'italianità della Croma, le ferie interrotte per senso del dovere, le telefonate con Chirac e con Olmert: ragàssi, qui si lavora da belve. Quanto alla Finanziaria, ci pensi Padoa-Schioppa, faccia il piacere (appunto per il rigoroso Tsp: evitare le polemiche con Giavazzi, please). QUESTIONE MORALE L'indulto ha fatto perdere al governo tre punti nell'indice di fiducia. In compenso, grande successo di Mastella. Alla ripresa, converrà mettere mano alla legge sul conflitto di interessi. Anche per vedere se la Cdl è davvero tutta schierata come un solo sicofante a favore delle proprietà di Silvio il Berbero. SILVIO Ha detto ciò che non bisogna mai dire. A qualcuno che gli chiedeva news sulla leadership della Cdl e sulla sua insostituibilità come capo della destra, ha rifilato una delle sue citazioni: «I cimiteri sono pieni di persone indispensabili». Frase di quelle da toccarsi. Come al solito, Berlusconi si è dimenticato di ricordare l'autore del bon mot, che per tradizione è il generale de Gaulle. Quello che disse anche: «Il potere non si conquista, si raccatta». Ecco, il futuro politico del vulcanico Cavaliere, il tuareg, il piccolo tamburino sardo, l'uomo-rumba del Pepero Club di Porto Cervo, non dipende molto da lui e dalle sue forze. O Prodi crolla, con tutta l'Unione. Oppure per l'ex Caimano, l'attuale re berbero, la vita si fa amara: come il rabarbaro. TABACCI Nonché Follini, naturalmente. Le speranze bianche dell'evoluzione politica. Ma arriva questa evoluzione, o stiamo sempre aspettando Godot? E senza mai goder? UMBERTO Uscite provinciali del Bossi, come quella che la missione in Libano costa troppo. Ogni giorno che passa lontana dal potere la Lega soffre. Dopo il crollo della devolution ci vorrebbe un'evolùscion. Forse anche dentro la Lega qualcuno si è accorto che l'asse con Berlusconi, il forzaleghismo, ha fatto bene a tutti fuorché al Carroccio. Se avesse ancora voglia di fare politica, in autunno ci si aspetterebbe un'invènscion alla Bossi. VISCO Anche i contribuenti più ligi, di fronte al passaggio concettuale e operativo "dall'imposta al contribuente", avvertono qualche brivido. Non per timore del ministro, ma per sfiducia nella burocrazia. Perché se poi l'anagrafe tributaria produce cartelle pazze? Se le tasse tartassano? Con l'autunno, non si potrebbe fare la lotta all'evasione con calma, parlando lentamente, senza che si sentano nell'aria minacce? O anzi, meglio: non converrebbe farla, la lotta, e non parlarne mai? WALTER Qualcuno lo chiama "dilemma di Veltroni", e suona così: è al massimo della popolarità, sarebbe l'uomo vincente, il leader carismatico del partito democratico. E tuttavia deve restare in standby, in attesa, col rischio di invecchiare prima di scendere davvero in campo. Sì, va be', c'è il festival romano del cinema, il popolo de Roma che lo ama tassisti compresi. Ma intanto, quel Bersani delle liberalizzazioni, quel Chiamparino di Torino, sono brutte bestie, concorrenti temibili. L'autunno di Walter è nel segno di una trionfale malinconia. ZERO A ZERO Questo il probabile risultato di tutte le partite, dal momento che la Juventus ricorre al Tar del Lazio, e se il Tar respinge ricorrerà al Tas di Losanna, e poi alla Corte di giustizia di Lussemburgo, o alla Croce Rossa, a Carla Del Ponte, al tribunale del Land del Palatinato, a un giudice nominato dal borgomastro di Aquisgrana, e allora i campionati non cominceranno mai più: ma insomma, ci sarà un arbitro a Berlino, che fischi l'inizio? n
L'Espresso, 07/09/2006
Zapping con warhol
Come si dice "navigare" fra i palinsesti televisivi? Non è più "fare zapping", perché lo zapping appartiene all'epoca dell'offerta televisiva limitata. Oggi invece, come si è detto ripetutamente, si guarda "la" televisione, senza selezionare a priori fra i singoli programmi. Questa esplorazione continua mette allo scoperto la povertà dell'offerta tv, nonostante il numero di canali disponibili. Succede spesso che in una serata non si trovi praticamente nulla di vedibile. In questi casi viene spesso in soccorso un canale come Cult (142 del bouquet Sky). Di recente, per esempio, è passato più di una volta il film di Chris Rodley "Andy Warhol. La storia completa" (2002), che è una biografia umana e intellettuale dell'artista americano, scomparso nel 1987 a 58 anni. Dite che ci vuole una determinazione molto seria per mettersi a guardare un documentario su Warhol in una sera di estate declinante? Dipende: se la serata abbonda di film scadenti, di reality horror sulla chirurgia estetica, di programmi sulla vita sessuale di coppie suburbane (ciccione costrette dai fidanzati o mariti a indossare roba fetish e a usare vibratori imponenti), be', allora tanto vale dare un'occhiata alla parabola di un genio dell'arte pop. A rivedere l'opera di Warhol ci si rende conto che il guru dalla parrucca platinata, come viene detto nel film di Rodley, «ha manipolato all'infinito la stessa idea»: con effetti tali da portare il Walter Benjamin della "riproducibilità tecnica" all'autismo industriale, alla serialità compulsiva e anonima del mercato totale. Sicché può anche essere che Warhol sia depressivo, dal momento che ci frulla tutti dentro la civiltà di massa. Ma poi succede che Cult mandi in onda anche un film prodotto da Yoko Ono in cui si vede John Lennon che prepara, arrangia e suona le canzoni di "Imagine", con alcuni musicisti fra cui anche un altro beatle, George Harrison.Vedere suonare dal vivo, per prove, errori e cambiamenti, un talento popolare come Lennon è un antidoto alla serializzazione warholiana. L'arte "abietta" delle canzoni funziona soltanto quando è registrata dal vivo, il cantante stona e il chitarrista deve correggersi, e tutto insieme "fa" musica. Il resto della programmazione, naturalmente, è Warhol senza Warhol: ma chi vorrà salvare la televisione, dovrà sottrarla alla rigidità seriale del palinsesto (oppure proporre palinsesti meno raccapriccianti, oh yes).