L’Espresso
L'Espresso, 07/09/2006
Il Meetings’è afflosciato
Il Meeting di Rimini non è stato un fallimento in termini di partecipazione, ma, per la prima volta nella storia di Comunione e liberazione, è andato male. Se anche un ciellino illustre come Antonio Socci prende le distanze, e molti osservatori non proprio antipatizzanti mettono in luce che ormai il Meeting sarebbe diventato una specie di festival della Compagnia delle opere, cioè del braccio imprenditoriale e secolare di Cl, qualcosa in effetti potrebbe essersi incrinato. Occorre ricordare innanzitutto che il movimento fondato da don Luigi Giussani non è un esercito bensì un'avanguardia militante. Un organismo che ha sempre esposto la propria radicalità e manifestato il proprio antagonismo verso il cattolicesimo progressista. Uno studioso cattolico di parte avversa come Alberto Melloni ha sintetizzato in questo modo il suo ruolo: «Cl porta a Rimini 30 mila persone per sette giorni, i parroci portano in chiesa per 52 settimane sette milioni di praticanti». Come tutti i movimenti ad alta intensità di identificazione, Cl vive della propria capacità manovriera. Sul terreno politico è sempre riuscita a valorizzare la selettività dei suoi rapporti, con l'uso trasversale delle amicizie a testimoniare il non coinvolgimento negli schieramenti e semmai la simpatia per i singoli leader politici (ma il rapporto è sbilanciato in modo vistoso verso destra: per un solo Bersani, tradizionalmente apprezzato per il suo pragmatismo, ci sono sempre almeno dieci esponenti amici nella Cdl). Di conseguenza, Cl dipende in larghissima misura dalla propria visibilità. Solo che essa è efficace quando testimonia sicurezza di sé. Mentre quest'anno a Rimini il movimento ciellino ha dato l'impressione di essere condizionabile dalla politica. Da questo punto di vista sono stati più rivelatori i fischi a Guglielmo Epifani che quelli diretti a Paola Binetti: perché, depurandoli dalla volgarità delle accuse («giuda, venduta»), i fischi bioetici erano motivati da un giudizio a sfondo religioso; mentre i fischi sindacali erano motivati da pura antipatia politica, e sono dilagati proprio mentre il segretario della Cgil sosteneva che il sindacato avrebbe criticato anche il governo Prodi, nel caso di politiche giudicate inappropriate, così come si era opposto a quelli che in passato aveva giudicato gli errori del governo Berlusconi. I ciellini raccolti a Rimini dunque hanno fischiato per incredulità, per scetticismo, per ostilità a priori. Mentre hanno applaudito con entusiasmo fiammante le argomentazioni da ateo devoto di Marcello Pera, specialmente quando ha sostenuto che in Europa le cose vanno male perché «ci sono troppi cattolici adulti» (con un riferimento volgaruccio alla posizione di Prodi sul referendum in materia di fecondazione assistita). E hanno espresso altrettanto calore verso le ricostruzioni politico-economiche di Giulio Tremonti, cioè l'ideologo della mitologizzazione a posteriori del governo Berlusconi. Ma il momento in cui il Meeting si è afflosciato è stato ovviamente con lo show di Silvio Berlusconi. Pazienza la claque forzista, un classico da Vicenza in poi, ma che l'Entertainer di mezza estate abbia potuto pensare di reclutare i ciellini per i suoi Circoli della libertà è il segno che lo steccato fra politica e impegno religioso è stato sfondato. Prima era figurativo, ossia ampiamente retorico. Adesso si presenta come un reperto storico. Sarà stata la sofferenza di trovarsi in una condizione orfana di don Giussani e del suo carisma. O anche, più prosaicamente, la stanchezza di un movimento privo di ricambio al vertice. Ma per la prima volta si è avuta l'impressione che Cl assomigliasse a un'appendice, a una subordinata della politica. Sono gli scherzi che gioca l'immagine, e che combina la politica quando fa entrare in campo i rapporti di forza veri. Ma se finora si era visto il Meeting dare i voti, esprimere il gradimento, selezionando personalità e posizioni culturali, premiando e bocciando, nell'agosto 2006 si è visto un leader politico e i suoi seguaci andare, se non alla conquista, alla strumentalizzazione di un movimento. Per il cattolicesimo intransigente, integrale, orgoglioso di Comunione e liberazione, è peggio che un cedimento: è un problema.
L'Espresso, 14/09/2006
A Londra sono più serial
Vedi alla voce del verbo imbattersi. Perché ci si può imbattere anche in prodotti molto, ma molto, brillanti. Per esempio, ci vuole una grande determinazione, ma se uno si butta verso le 23 su Bbc Prime, trova un serial intitolato "Trust", che è uno dei programmi televisivi migliori che si siano visti negli ultimi anni. Certo occorre molta buona volontà anche supplementare, perché questa fiction è solo sottotitolata: ma tanto vale approfittarne per migliorare la pronuncia inglese standard. Sulle prime, "Trust" è il rifacimento di una qualsiasi moderna serie americana dedicata agli avvocati, da "Avvocati a Los Angeles" in poi. Ci vorrà qualcuno che spieghi, una volta o l'altra, per quale ragione l'immaginario anglosassone è occupato così sistematicamente da questa categoria professionale. Ma qui siamo in Inghilterra, a Londra, nel cuore della City: e allora qualche vibrazione diversa si sente. Le storie sembrerebbero sempre quelle: difficoltà di far coesistere la professione, la famiglia, la carriera e l'amore, drammi provocati dalla rivalità con i colleghi nella corsa a diventare associati, trattative e transazioni giuridiche di colossale difficoltà anche morale, oltre che legale. La specificità di "Trust" deriva allora da due caratteristiche: da un lato la sua totale inglesità, con dialoghi perfetti, gestione e tenuta dei conflitti in modo estremamente cool, tocchi di multiculturalismo e di società assai aperta (uno dei personaggi positivi, che non sacrifica la vita alla carriera, è un gay); dall'altro la grandissima qualità tecnica e professionale del prodotto. Diretto da John Strickland, "Trust" ha per protagonisti Robson Green, nella parte del capo del pool di avvocati, e Sarah Parish, attrice non bellissima ma affascinante, magnificamente nel ruolo. Ma tutti gli attori del serial sono di ottima qualità, i dialoghi sono ritmati, e nell'insieme si apprezza la Londra sincopata, la metropoli "yuppified" e "multicultural". A paragonare il serial inglese con certi prodotti italiani, con recitazioni molto provinciali e sociologie improbabili, viene voglia di invitare qualche rete ad acquistarne i diritti e a tradurlo. Ma poi lo manderebbero in onda a orari piuttosto improbabili (come succedeva anni fa con un altro meraviglioso serial, "In tribunale con Lynn", che praticamente nessuno poté vedere, se non in certi lenti pomeriggi d'estate, e poi mai più: ed era un capolavoro).
L'Espresso, 14/09/2006
Walter fictional
Il primo romanzo di Walter Veltroni, "La scoperta dell'alba" (Rizzoli) ha un titolo letterario, ma si sarebbe intitolato più precisamente "Il collezionista di vite": perché l'io narrante, Giovanni Astengo, è istituzionalmente un raccoglitore di biografie: «Da anni, all'Archivio di Stato, mi occupo di raccogliere, catalogare e riassumere i diari che i miei contemporanei non smettono di scrivere. Piccole opere, stampate spesso a spese degli autori, nelle quali ciascuno, arrivato a una stazione della sua vita, sente il bisogno di raccontare al mondo la sua esistenza». Sicché il protagonista del romanzo sembra la negazione esatta del proprio nome, con quel richiamo evidentemente voluto all'astensione. Anzi, è dominato dalla voglia di immergersi nelle vite, la propria, le altrui. Più che astenersi, Giovanni Astengo, archivista di Stato e quindi ricercatore storico (con un richiamo civettuolo, una "mossa" magistrale, alla moglie di un compagno e rivale politico), pratica la sospensione: ferma il tempo per andare alla ricerca e sciogliere il mistero della propria esistenza, la scomparsa del padre.Un autobiografismo, quindi. Ma più che inseguire le vicende della trama del romanzo, in cui il senso di quella perdita viene proiettato sullo sfondo luttuoso degli anni di piombo, conviene chiedersi per quale motivo un uomo politico di spettacolare successo abbia scelto proprio la forma romanzo. Per rivelarsi e anche per nascondersi, è la prima risposta. Dev'esserci una simmetria fra il Veltroni leader politico e il Veltroni autore: e questa simmetria dipende probabilmente dalla volontà di esporsi, dalla disponibilità a manifestarsi e nello stesso tempo a rappresentarsi. E infatti, sia i romanzi sia gli esponenti politici condividono qualcosa, o molto, della finzione: e l'aspetto "fictional" del libro veltroniano serve più che altro a confondere le acque, a ingrigire i colori. L'omicidio politico sfuma nella rivalità, nella gelosia e nel tradimento umano. I colori dell'alba servono per ripristinare un contatto con il se stesso di trent'anni prima. L'espediente narrativo per fare parlare il Giovanni Astengo di oggi con il tredicenne di allora, quando il padre fuoriesce dalla sua vita, è materializzato da una trouvaille d'epoca, un telefono di bachelite nera. A mano a mano che il passato prende forma, si disegna un film in bianco e nero, in cui la violenza inconsulta della politica e il cedimento morale sfumano nella stessa gamma cromaticamente neutra. Il libro di Veltroni è piuttosto la descrizione di un romanzo che non un romanzo in sé compiuto. Tuttavia è esente da goffaggini, ed è talmente veloce e ben concatenato da portare l'interesse del lettore fino alla conclusione. Veltroni non veltroneggia: lascia cadere nelle pagine qualche predilezione cinematografica, da quella commedia "slapstick" che è "Ma papà ti manda sola" ai cangaçeiro di Glauber Rocha, aggiunge qualche tocco letterario, con ripetute dediche a Italo Calvino, infioretta con qualche citazione latina anche insolita («Numerantur, sed ponderantur»): ma senza mai esagerare. Il piccolo romanzo quindi non dispiace, anche se resta il dubbio, alla fine, che l'autore si sia nascosto molto di più di quanto non abbia voluto svelarsi. Ma forse è proprio questo il senso del ricorso alla forma narrativa: "fare i conti" anche letterariamente con la propria generazione e con la propria esistenza, per un politico di successo, è ancora un'operazione prematura. In fondo non è consentito a un cinquantenne ricorrere all'autobiografia. Solo che la scelta tecnica del romanzo conduce allora a un deficit di radicalità. La "fictionality" mette in movimento passioni, pentimenti, agnizioni, rivelazioni, ma conservando tutto dentro una convenzione che fa da filtro, che modella la voglia di confessare la propria storia con il desiderio di comporre un'altra storia. È davvero un romanzo, "La scoperta dell'alba", più che una confessione. Solo che a leggerlo come tale, viene il rimpianto per la storia vera, che ancora Veltroni non ha deciso di poter raccontare. n
L'Espresso, 21/09/2006
Naufraghi nel serial
I serial si dividono in due categorie: quelli in cui non avviene niente e quegli altri in cui avviene di tutto. "Lost", la serie che riprende dal 18 settembre, ogni lunedì alle 21 su Fox, appartiene alla seconda categoria. Come sanno quasi tutti, "Lost" racconta la saga dei sopravvissuti al disastro del volo Oceanic 815 Sidney-Los Angeles. Quarantaquattro giorni dopo lo schianto dell'aereo, i superstiti sono ancora lì, in una specie di isola dei famosi eccitata e funestata da problemi caratteriali, di potere, climatici, ma anche, a quanto si vedrà, soprannaturali. La prima stagione di "Lost" ha sbancato, facendo a botte in tutto il mondo sui dati di ascolto con "Desperate Housewives". Benissimo recitato, ottimamente ambientato, magnificamente diretto, interpretato da attori con la faccia convincente e i tatuaggi giusti, il serial del mistero ha tutte le caratteristiche per apparire allo spettatore scettico, che la sera guarda la televisione con distrazione o per disperazione, la classica boiata pazzesca. Una sorta di "Twin Peaks" ambientato in luoghi esotici, dove la trama si complica e si complicherà tremendamente, senza mai arrivare a una soluzione perché la prossima serie incombe e i superstiti sono isolani a vita. Gli italiani in genere preferiscono i serial in cui non succede niente e l'unico interesse consiste nel vedere chi si innamora di chi, coso che tradisce cosa, cosa che si vendica uscendo con quell'altro, eccetera. In questo senso, il possibile prototipo è "Sex and the City", in quanto è tutto fatto di chiacchiere, c'è poco Sex e molta City, e si possono saltare cinque puntate senza perdere il filo logico essenziale. Mentre "Desperate Housewife" prometteva di essere un magnifico serial con assenza di fatti, ma dopo la prima tornata gli sceneggiatori si sono stufati e hanno cominciato a complicare la trama. Si sa come va a finire: si prende una fiction fatta di balletti amorosi e psicologici e si comincia a inserire problematiche ed eventi. La droga, la mafia, i ricatti, la violenza, la malattia, la morte. Alla fine manca poco che arrivino gli extraterrestri (e difatti le casalinghe si disperano soprattutto perché la qualità del serial è precipitata). Quanto a "Lost", ci vuole molta dedizione per guardarlo, con i suoi troppi misteri: ma naturalmente si sa che se si cade nel gorgo della fiction, alla fine ci si appassiona anche se la storia è tremenda.
L'Espresso, 21/09/2006
Marley bestseller bestiale
A segnalarlo come un libro imperdibile era stata per prima "Alta società", la rubrica di mondanità, spifferi e metafisici gossip del "Foglio": il titolo era generico, "Marley and Me", l'autore un perfettamente sconosciuto John Grogan. Solo con qualche ricerca ulteriore si sarebbe appreso che Grogan è un columnist del "Philadelphia Inquirer", vanta una lunga esperienza giornalistica che gli ha procurato numerosi premi, e vive in Pennsylvania con la moglie e i tre figli. Si capiva facilmente che era la storia di un labrador, e quindi l'indagine ulteriore conduceva immediatamente agli amori del titolare non proprio occulto della rubrica, Carlo Rossella, uno dei testimonial di questa razza canina, proprietario e amico di un esemplare biondo di regale bellezza, Oliver "Waterfriend" Charlie. Ma con queste sintetiche informazioni non si poteva sospettare la fortuna del libro, che ha raggiunto i cinque milioni di copie vendute negli Stati Uniti, 750 mila in Gran Bretagna, 700 mila in Germania, 300 mila in Spagna. E adesso si aspetta il botto in Italia, dove è stato tradotto da Sperling & Kupfer con il titolo "Io & Marley" (sarà in libreria il 19 settembre). È facile predire infatti un exploit analogo anche da noi. Più difficile è spiegare il perché di un successo così deflagrante. Certo, questo romanzo-verità, o quasi verità, lascia emotivamente disarmati: racconta la storia di una coppia di giovani giornalisti, l'autore e la sua sposa Jenny, che a un certo punto della loro felice vita decidono di adottare un cucciolo. E quale cucciolo: un labrador retriever biondo, figlio di un bestione grosso come un toro, destinato a diventare un colosso muscoloso di 40 chili, inadatto a ogni disciplina, destinato a farsi cacciare dal corso di obbedienza a cui era stato iscritto e a mettere a soqquadro e a repentaglio la casa in cui entra e la vita intera della coppia. E ad accompagnare la storia personale di John e Jenny, condividendo le loro speranze e gioie, la nascita dei loro bambini, tutta la loro vita a Palm Beach in Florida, e poi in Pennsylvania. Ma tutto questo è pura normalità, fisiologia canina o cagnesca senza troppe invenzioni. Il Marley del libro è un cane "reggae", che si guadagna il nome dall'idolo scomparso dei rasta giamaicani, il mitico cantante Bob, la colonna sonora di una Florida in cui echeggia continuamente "Is this love that I'm feeling?". Un cane dotato di un'energia sovrannaturale, capace di accogliere con entusiasmo sfrenato ogni essere umano, esibendosi in una specie di violenta breakdance con la coda che sembra animarsi per agitare tutto il suo corpo, di mangiare qualsiasi cosa, da quantità formidabili di mango maturo alla cacca di gallina, dai pettini ai pannolini dei bambini, e poi di vomitare eventualmente tutto quanto sul migliore tappeto persiano: e soprattutto di guadagnarsi per motivi misteriosi, o forse fin troppo evidenti, l'amore incondizionato di tutta la famiglia. Chiunque abbia messo a fuoco l'identità dei labrador retriever, razza descritta intorno al 1600 a Terranova, dove i pescatori li usavano per tirare a riva funi e reti e per raccogliere il pesce che si staccava dagli ami, ha un'idea immediata di questo cane, animale d'acqua di pelo corto, dita palmate, grande nuotatore, riportista fenomenale, incapace di trattenere la felicità davanti a qualsiasi visitatore, pessimo (anzi inesistente) elemento da guardia. Meno facile è spiegare la "labrador-mania", di cui anche il libro di John Grogan è un riflesso. Certo, ci sono stati esempi particolarmente prestigiosi che hanno lanciato la tendenza labrador, in primo luogo Bill Clinton, ripreso a suo tempo in ogni weekend presidenziale mentre si faceva strattonare davanti all'elicottero della Casa Bianca dal suo diseducatissimo "chocolate". Ma più in generale c'è il fatto che nell'immaginario non soltanto americano il labrador si è fissato come "il" cane, la razza per eccellenza, la fisionomia che riassume l'essenza canina. Per le sue forme accattivanti, una specie di barile con le zampe; per l'affettuosità strampalata, per le buffonerie atletiche che riserva a padroni, amici ed estranei; per le sue doti di mangiatore inesauribile, con il suo stomaco da quattro chili di contenuto potenziale, e quindi la sua fame permanente, che lo espone a ricatti di ogni tipo. E ultimo ma non ultimo per la sua intelligenza da fascia alta della classifica canina; a cui si aggiunge una disposizione innata alla furbizia, che costituisce un ricatto permanente contro il rigore educativo e la severità dei proprietari. Perché il labrador è effettivamente un post-lupo, che mantiene tutte le caratteristiche di dominanza o di subalternità degli esemplari alpha o viceversa dei gregari, salvo il fatto che è un animale innocuo. Mentre le cronache sono spesso punteggiate dai misfatti talvolta feroci di razze come i pitbull, i rotweiler, i doberman, si può giurare che i labrador, insieme alla razza esteticamente cugina dei golden retriever, sono animali senza peccato originale. La ferocia degli antenati lupi è un ricordo; la loro "presa morbida", che deriva dalla selezione come animali da riporto, obbligati a rispettare la selvaggina destinata al padrone cacciatore, garantisce sulla loro non pericolosità. Il vivacissimo Marley potrà apparire «instabile come la nitroglicerina», carico come una molla, ma verso adulti e bambini risulterà più che altro un mostro di simpatia, al primo incontro; e poi un complice, uno zerbino su cui mettere i piedi, una coperta di Linus, un compagno di passeggiate. Occorrerà "emascularlo", per tentare di ridurre la sua carica ormonale, e quindi la sua vitalità inestinguibile; sarà necessario riempirlo di Valium o di altri tranquillanti per reprimere il suo terrore per i temporali. Ma nell'insieme resterà sempre un cane giocherellone, un pazzo buono, un compagno prevedibile anche negli accessi più tremendi di dinamismo. Per i proprietari dei cinquanta milioni di cani censiti negli Stati Uniti, la storia di Marley è risultata quindi una specie di epopea della caninità, apoteosi di un cane al quadrato. Facendo della sociologia a buon mercato, la "folla solitaria" di una società che vede svanire il dato comunitario proietta nel rapporto domestico con il cane tutte le aspettative di spontaneità, di immediatezza e di lealtà relazionale che non trova nei rapporti quotidiani. Oppure la psicologia di massa può soffermarsi su quel particolare tipo di relazioni non culturalizzate, quindi fisiche, materiali, "naturali", che l'animale cane innesca in coloro che sono modellati da rapporti molto formalizzati sui luoghi di lavoro e nell'anomia del condominio. Anche in Italia, i padroni dei sette milioni di cani "regolari" troveranno nella parabola di Marley, con la sua conclusione inevitabilmente tragica e commovente, tutta la sfera dei comportamenti e delle emozioni che la vita insieme al cane implica (d'altronde, che una nuova "sensibilità animale" sia lavoro è dimostrato anche da fenomeni editoriali inattesi, come il successo quasi da bestseller della raccolta di poesie "Animali in versi" di Franco Marcoaldi). Converrà aggiungere che la schiera dei proprietari di labrador, e quindi di apostoli di questa specie particolare di religione canina, è particolarmente qualificata. C'è la Lulù di Massimo D'Alema, ci sono gli esemplari biondi di Dolce e Gabbana, c'è il labrador di Antonella Clerici, quello amatissimo di Vittorio Emanuele (che il Savoia rimpiangeva durante i giorni della detenzione), i due cuccioli fatti crescere nel casale sulle Langhe da Domenico Siniscalco, il branco di Luca Cordero di Montezemolo cresciuto sulla collina bolognese di Pian di Macina. Per tutti loro, "Io & Marley" sarà la sintesi dello "spirito labrador". Come dice l'autore Grogan: «Scegliemmo la razza in base a un unico criterio: fascino». È l'attrazione generata da quel cane a renderlo affascinante e quindi sopportabile: «Marley era un divoratore di divani, un demolitore di porte a zanzariera, un dispensatore di saliva, un ribaltatore di coperchi di pattumiera. Quanto al cervello, lasciatemi dire che ha dato la caccia alla sua coda fino al giorno in cui è morto». Il risultato è che il libro finisce con la morte di Marley, dopo alcune mezze tragedie come la temutissima torsione dello stomaco: John Grogan scrive un articolo sulla morte del suo cane e viene sommerso di e-mail. «Mi scusi», gli scrivono, «ma il suo non può essere stato l'animale peggiore del mondo, perché lo era il mio». Gli scrive gente che conosce le doti di quegli esseri così singolari: «Lealtà, coraggio, devozione, semplicità, gioia». Va da sé che le pagine finali di "Io & Marley" sono una lettura che può dare fondo a intere dotazioni di lacrime. Anche perché un bel giorno, su un giornale locale, compare la fotografia di un cane proposto per l'adozione. Un labrador, biondo. «Mio Dio», esclama John Grogan. «È lui. È tornato dal regno dei morti». «Reincarnazione», dice Jenny. È il segno che l'avventura può ricominciare. Che in ogni labrador c'è Marley. E che come canterebbe il vecchio idolo del reggae, è davvero amore ciò che sento, anche se si agita pazzamente, anche se abbaia come uno sciagurato, anche se è, in tutti sensi, una bestia. n
L'Espresso, 28/09/2006
Call center Calcutta
Si fa presto a dire che l'India è un universo: poi bisogna vederla. E le cinque puntate di "Taccuino indiano", la serie di documentari realizzata da Francesco Conversano e Nene Grignaffini (Raitre, dal 21 settembre ogni giovedì alle 23.30) sembrano fatte apposta per illustrare la frase di Arundhati Roy che appare come exergo della prima puntata: «L'India vive simultaneamente in secoli differenti». Non ci potrebbe essere sintesi migliore. C'è un contrasto fortissimo, da un lato, fra le donne che lavorano nelle saline, rischiando la cecità, gli "shipbreaker" che si ammazzano di fatica facendo letteralmente a pezzi navi in disarmo che arrivano da tutto il mondo, i contadini poverissimi del subcontinente rurale, e dall'altro la vita nelle città, in cui sull'ondata tecnologica si è sviluppata una borghesia che sembra in grado di cambiare in profondità la vita dell'India. Quasi in ogni fotogramma si avverte la profonda commistione di antico e di moderno. Le donne che lavorano per mezzo dollaro al giorno, i 20 mila conducenti di risciò messi fuori legge dal governo comunista e modernizzatore di Calcutta, le cattedrali modernissime di Bangalore, dove si è sviluppato un settore tecnologico che attrae gli studenti migliori e produce un benessere inedito. Ma forse l'aspetto più curioso della prima puntata è la parte dedicata ai call center, in cui le multinazionali americane, canadesi e inglesi hanno delocalizzato il servizio ai clienti. Perché con il lavoro nei servizi comincia a prendere forma un'economia di consumi che si innesta sulla tradizione indiana, creando un ibrido straordinario. La bellezza delle immagini di "Taccuino indiano" non consiste soltanto nella crudezza della vita antica, ancora intessuta di miseria, pregiudizi, esclusioni, fatalismo, unita all'effetto straniante di una natura che spesso sembra rimasta a qualche millennio fa; ciò che colpisce e continua a sorprendere, inquadratura dopo inquadratura, è il modo in cui l'India antica e l'India moderna si contaminano. Sarebbe consolatoria la tesi per cui la globalizzazione non distrugge le culture bensì le arricchisce. Ma "Taccuino indiano" è esemplare perché registra le immagini e le parole dell'India nuova e antichissima senza tesi precostituite, offrendo la forza di uno sguardo che si sofferma sulle cose e sulle persone senza giudicare: con una intenzione di conoscenza oggettiva che non di rado lascia stupefatti.
L'Espresso, 28/09/2006
Omero ha fatto gol
Non è nemmeno il caso di ricorrere a precedenti come le "Cinque poesie per il gioco del calcio" di Umberto Saba: «Il portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela la faccia». Oppure al soprannome che classificava il torinista Claudio Sala come il "poeta" del gol. Forse ci vuole davvero la poesia per descrivere con sintesi immediate il calcio: perché nel suo momento migliore, allorché si condensa in mosse fulminee, in scarti imprevedibili, nella violenza del tiro o nella infernale qualità del dribbling, non c'è prosa che possa rappresentarlo (Gianni Brera descriveva l'azione in profondità attraverso una serie concatenata di frasi connesse dall'uso ripetuto dei due punti, come se ogni momento di gioco contenesse di necessità la sua evoluzione). Quindi che il "Poesia Festival", promosso nell'area modenese dall'Unione Terre di Castelli e dalle istituzioni locali, abbia dedicato una sessione proprio a quell'incrocio non frequentissimo fra il calcio e la poesia è una novità felicemente creativa. Perché quel vecchio gioco diventa effettivamente racconto, mito, immagine soltanto quando è narrato, anzi, isolato in frammenti mitici, come nelle icone metanarrative di Quentin Tarantino. Nessuna biografia, come nessuna cronaca sportiva, saprà rappresentare la classe di Roberto Baggio come l'ha identificata Fernando Acitelli in pochi versi ispirati: «Talento di raso vestito, palleggio erudito, tocco infinito, fanciullo ferito...». Queste parole appartengono alla raccolta intitolata "La solitudine dell'ala destra", una «storia poetica del calcio mondiale» che apparve per la prima volta da Einaudi nel 1998, e che rimane un magnifico esempio di "cronaca" in versi, sempre che per cronaca si intenda il modo in cui il canto omerico fissa per sempre i giochi e i duelli dei guerrieri, o la maniera in cui la leggerezza ariostesca sembra descrivere gli eventi nel loro avvenire. Illustrare il calcio significa in realtà interpretarlo, cioè inventare le parole per definire un gesto: allorché Mariolino Corso riprese uno dei più poetici gesti del calcio, il tiro di punizione a pallonetto, che si era già manifestato negli anni Trenta, fatto dagli uruguagi, si poteva chiamarlo in molti modi. Nella sua interpretazione, quel gesto tecnico divenne un canto triste, come eseguito dalle cadenze di Juliette Gréco, in un sentore prevertiano, come un gesto e una parabola autunnali, e quindi decadenti, inesorabili, soffusi di malinconia: «Geometrie e calligrammi / a centrocampo, con fraseggi / curvilinei, esecuzioni shock, dette, / su punizione, a foglia morta». Già, «les feuilles mortes». Perché anche il calcio ha bisogno di un suo autunno, per essere mitizzato: di un bianco e nero da anni Sessanta, in cui si attenuano i colori della tv al plasma, e l'affetto per il passato supplisce poeticamente all'imprecisione del ricordo. O meglio, la poesia fissa per sempre un gesto, la "rabona" di Diego Armando Maradona, la "ruleta" di Zinedine Zidane, il "sombrero" dei giocolieri brasiliani, sottraendoli alla storia e inserendoli in una memoria riconoscibile collettivamente. Per un paradosso, proprio la materialità estrema del calcio, con i suoi tackle e la durezza del contatto fisico, trova un'illustrazione nel linguaggio poetico. Perché una partita dura novanta minuti, ma il gioco del calcio dura per intere esistenze. E solo qualche verso, nel fluire anonimo e grigio delle vite e delle partite, riesce a estrarre la pepita luccicante che illumina la vicenda di un campione, la carriera di un gregario, traiettorie e parabole di un pallone che altrimenti non si fermerebbe mai. n
L'Espresso, 28/09/2006
Le guerre private del soldato Oriana
Quelli che non amano Oriana dicono di apprezzarne la grande personalità, la vena provocatoria, l'intelligenza, le provocazioni che «ci hanno obbligato a pensare». Lo ha detto anche Romano Prodi, che non dev'esser stato un grande lettore della Fallaci, e comunque non deve avere messo a fuoco con precisione le quattro pagine di insulti stampate nel pamphlet dell'aprile 2004 "La forza della ragione" in una «letterina» che comincia così: «Signor Presidente della Commissione Europea, so che in Italia la chiamano Mortadella. E di ciò mi dolgo per la mortadella che è uno squisito e nobile insaccato di cui andar fieri, non certo per Lei che in me suscita disistima fin dal 1978». Vale a dire, spiega Oriana, dalla celebre seduta spiritica a casa che diede l'equivoco responso "Gradoli" sul luogo di prigionia brigatista di Aldo Moro. Gli avversari di Prodi non hanno molti motivi di andare fieri del loro amore per la Fallaci. A Gianfranco Fini, Oriana si rivolge dicendogli: «Lei mi ricorda Palmiro Togliatti, il comunista più odioso che abbia mai conosciuto»; e il suo verdetto verso il postfascista-comunista Fini è senza pietà: «Signor Vicepresidente del Consiglio, nonostante la Sua aria quieta ed equilibrata Lei è un uomo molto pericoloso», perché vuole dare il diritto di voto amministrativo agli immigrati islamici. A Silvio Berlusconi, altre mazzate fallaciane: «Signor Cavaliere, noi due non ci amiamo. Si sa». Sempre per via del voto ai musulmani e della corrività di Berlusconi verso i musulmani. Traspare anche da queste parole una delle caratteristiche della Fallaci, un tono fra il popolaresco e il dialettale, con l'adozione di luoghi comuni sedimentati, che dev'essere una qualità della sua toscanaggine: un certo becerume dell'intelligenza e dello stile proiettato nel cosmo della globalizzazione, con collisioni ed effetti strepitosi, ora diva al fronte, e stivali ed elmetto, ora «sora Cecioni va alla guerra» (copyright Giulio Anselmi, almeno secondo Dagospia). Quel linguaggio in volgare fiorentino, con le apocopi e i toscanismi di chi non vuole normalizzare il proprio idioma nella lingua standard, e che talora ricorda improvvisamente l'Arno e i manzoniani minori, Pinocchio, Renato Fucini. Un pensiero irresistibile perché prende il sentire comune e lo trasforma in paradigma o ultraparadigma contemporaneo, aggiungendovi punti esclamativi a iosa. L'evento grandioso e terribile dell'attentato alle Twin Towers e il suo grido, la rabbia, il furore che reclama la partecipazione, di più, la passione dei suoi lettori, facendola immaginare mentre si dispera nel suo appartamento di Manhattan. In realtà aveva cominciato da bravissima giornalista, senza negarsi le minuzie della contemporaneità. C'è ancora chi ricorda un suo reportage dal Festival di Sanremo del 1961, in cui componeva un ritratto perfetto di Mina, che non sfigurava affatto di fronte alla divina leggerezza con cui Camilla Cederna aveva descritto Adriano Celentano nella sua casa milanese con la famiglia immigrata. (Dev'esserci qualche parentela essenziale, con Mina: entrambe non bellissime ma capaci di apparire talvolta stupende, entrambe afflitte da un'inclinazione irrimediabile allo stentoreo, all'urlo, allo sgolarsi, entrambe più o meno ritirate o esuli: «Perché in America, è giunta l'ora di gridarlo chiaro e tondo, io ci sto come un fuoruscito»). Ma poi Oriana aveva capito che si poteva fare anche un altro giornalismo: una forma letteraria hardcore in cui l'autore, anzi l'autrice, la donna, l'Oriana diventa protagonista, invade la scena, recita praticamente tutte le parti. Ben più che "me journalism": la Fallaci decide che si può modificare il quadro, intervenendo nel contesto, alterando quindi la rappresentazione, la narrazione, lo schema, l'immagine finale. Esserci: in Vietnam sugli elicotteri di una normale, quotidiana "Apocalypse Now", nella piazza delle Tre culture, prendendosi le pallottole della repressione antistudentesca messicana. Porsi al centro della scena, provocando un colossale slittamento ermeneutico: frega niente di Kissinger o Khomeini, leggiamo la lotta a corpo a corpo della Fallaci con il suo nemico. Storie di guerra, di astronauti, di leader mondiali, in cui mette a confronto la propria semplicità di pensiero, e la propria durezza di combattente di un'idea, con gli altri, i suoi intervistati, le vittime. Attentissima a costruire la leggenda di se stessa perché in realtà ogni suo libro, come ogni intervista, e anche ogni inchiesta o reportage parla della sua vita, della giovanissima partigiana, della cacciatrice di scoop, della miliziana, dell'inchiestista suprema che piomba a Roma e con un raid mozzafiato scopre il complotto dell'assassinio di Pier Paolo Pasolini; e ci mette dentro le sue amicizie, gli amori, l'eroe Alekos Panagulis, la vita famigliare con il babbo e la mamma, sempre con accenti da star greca, tragica, mitologica, una Furia come dice Giuliano Ferrara, o per i più scettici una Maria Callas o una Irene Papas sul fronte della tragedia, comunque di un "oltre", di un orizzonte allucinato, illividito da incendi e da nubi nere di petrolio a cui attribuirà la propria malattia. I lettori stravedono da decenni per lei, per quello che scrive, perché parla semplice, ha un'idea su tutto e la esprime con parole chiare. Può insegnare strategia ai generali e geopolitica agli statisti, ma anche addentrarsi nella psiche femminile e nei lutti quotidiani delle donne. E soprattutto far sentire in ogni pagina la propria voce, l'eco del suo Io, la sua visione del mondo ora vecchio stampo, socialista umanitaria come il babbo, ora irradiata nell'universo delle guerre, intersecando giudizi clamorosi, condanne capitali, verdetti ogni volta senza scampo. Sicché quando parla la Fallaci c'è la sensazione di una che perlomeno non si nasconde dietro le parole, e che supplisce alle incertezze della gente comune con sentenze che fanno corpo, alimentano un codice fallaciano, uniscono e dividono (ma hanno ragione Mortadella e tutti gli altri, mediocrità ovviamente comprese: la personalità è fortissima, le valutazioni schiette, il grido si alza spaventoso, e riesce difficile non farsi affascinare da questa dea popolare che ormai veleggia sopra la destra e la sinistra, al di là delle categorie politiche della normalità). Quelli che invece la detestano semmai sono i critici perlopiù letterari, che di solito non amano il suo stile tonante. Quando pubblicò "Insciallah", nel 1990, Enzo Golino commentò: «Grand Guignol... Kitsch cruento... Quel che non funziona nel romanzo è la costruzione narrativa». Lei naturalmente ne era orgogliosissima, convinta che quel libro fosse un capitolo essenziale del Novecento letterario e storico. Tanto da lasciare passare 11 anni prima di pubblicare un altro libro, quel "La rabbia e l'orgoglio" che nel 2001 si è collocato al centro del "clash of civilization", il "libro abietto" secondo i titoli dell'ultrasinistra francese, processato qua e là per razzismo, che poi avrebbe generato l'immagine dell'Islam come il mostro a sette teste e dieci corna dell'Apocalisse. «Penso a quel libro», ha scritto lo storico "di destra" Franco Cardini, rivolgendosi al ricordo di «una vecchia amica lontana», «di cui non condivido nemmeno il colore della copertina...», per poi aggiungere di restare ammirato per la forza evocativa, «quasi faustiana». Di sicuro ha combattuto la sua ultima guerra, gridando come al solito, alla sua maniera. Anche se, forse, ciò che avrebbe dovuto e voluto raccontare, nella sua vecchiaia, sarebbe stata la sua storia di ragazza toscana, la vita vera prima dell'esistenza al centro del mondo. n
L'Espresso, 05/10/2006
C’è Floris aprite gli ombrelli
Che sia cominciato l'autunno lo si capisce da segnali laterali, da non sottovalutare proprio perché sfuggono alla meteorologia: un documentino di Rovati, un conticino di Tronchetti Provera; oppure il ritorno di "Ballarò", con effetti esplicitamente stagionali: la faccia virgolettata di Giulio Tremonti, che è una citazione del Tremonti primaverile da campagna elettorale, la faccia post-abbronzatura, tuttavia nervosa, di Pier Luigi Bersani, evidentemente preoccupato. Di che cosa? Di tutto. L'effetto shocking provocato da "Ballarò" e da Giovanni Floris è stato di riportare gli spettatori dentro il clima nebbioso e piovoso della politica, del dibattito, della polemica, delle interruzioni, dell'«io non ti ho interrotto». Faticosa, la politica in televisione: neanche per colpa di Floris, che non ha responsabilità se il governo sbanda, ma per colpa della politica, sempre uguale a se stessa (come nella vecchia barzelletta «oh che sete che avevo», dopo che qualcuno misericordioso ha offerto l'aranciata, impietosito o infastidito dai troppi «oh che sete che ho»). Forse ci vorrebbero studi e corsi di formazione per riqualificare i protagonisti dei salotti televisivi, altrimenti il pianto è sicuro e antico; con il timore che aggiungeremo lacrime non appena Bruno Vespa riunirà i suoi primattori e caratteristi. Diverso è il caso di "Annozero", il nuovo programma di Michele Santoro, fuoriclasse tv così sfacciato che prima si tinge di biondo e poi finge di infastidirsi se glielo fanno notare una volta di più. Il talento di Santoro è tale per cui c'è da aspettarsi che con il procedere delle puntate prenderà in mano il programma e ne farà cosa sua, da apprezzare o detestare ma con una fisionomia chiara. Per ora "Annozero" è un programma a personalità doppia, con la parte di inchiesta che ha la forza del documento, mentre la parte in studio è modesta: Beatrice Borromeo un automa, Rula Jebreal appesantita da un italiano troppo legnoso. Ma la sensazione è per l'appunto che Santoro si evolverà, mentre Floris chissà: il dibattito interessa quando ci sono in vista le elezioni; mentre adesso è fiacco, tanto da far venire voglia di un film (io, è la quinta volta che vedo la parte finale di "Kill Bill vol. 2", quella del «come far espodere il cuore con cinque colpi delle dita: fai cinque passi e sei morto»: mentre i politici medi si sa che cosa riescono a scassare, con cinque parole).
L'Espresso, 05/10/2006
La versione di Pansa
C'è un modo divertente, gossiparo, dagospione di leggere il nuovo libro di Giampaolo Pansa, che si intitola "La grande bugia", sottotitolo "Le sinistre italiane e il sangue dei vinti", e che Sperling & Kupfer manda in libreria il 3 ottobre. È sufficiente infatti scorrere le quasi 500 pagine del volume per trovare una messe di litigi, polemiche, duelli giornalistici, storiografici e politici nati in seguito alla pubblicazione delle ultime opere di Pansa (per l'appunto "Il sangue dei vinti" e "Sconosciuto 1945", con cui il maestro cronista Pansa aveva riaperto le pagine della storia sui giorni della "vendetta" antifascista dopo il 25 aprile 1945). In questa lettura voyeuristica, ci sarebbe soltanto l'imbarazzo della scelta. Sciabolate con Giorgio Bocca, «l'Uomo di Cuneo», «campionissimo delle contraddizioni», antiberlusconiano e filoberlusconiano, antileghista e pro-leghista, che «oggi è un antifascista d'acciaio ma prima di fare il partigiano è stato un fascista scaldato e un razzista antisemita». E se pur nella polemica virulenta con Bocca permane un certo stile tracotante da fratelli coltelli, da duellanti dello stesso mestiere, in cui il disprezzo odierno è la faccia cattiva di una vecchia ammirazione, le convenzioni invece crollano quando il confronto avviene con figure meno rilevanti del grande cronista Bocca, «maestro professionale» ai tempi del "Giorno". Che si tratti del socialista Aldo Aniasi, o del rifondatore comunista Sandro Curzi, ma anche di storici come Sergio Luzzatto, Angelo d'Orsi, Giovanni De Luna, i colpi di Pansa potrebbero fare la felicità di ogni cultore del pettegolezzo. Ma ridurre "La grande bugia" a una tessitura di maldicenze, piccolezze, ripicche, compresi gli insulti di cui, scrive Pansa, «mi hanno ricoperto: bugiardo, falsario, cinico opportunista, voltagabbana, servo di Berlusconi, traditore, amico dei fascisti», significherebbe tradire il significato di un libro ben più che scomodo o irritante, che potrebbe avere nel dibattito storico- politico italiano un effetto perfino superiore allo choc provocato tre anni fa da "Il sangue dei vinti" (attestato anche dalle 400 mila copie vendute e dalle oltre 2 mila lettere «di persone che volevano raccontarmi la loro storia»). Perché la qualità del nucleo storico, politico e polemico del nuovo libro di Pansa si può ridurre a un solo aggettivo: micidiale. E non soltanto nel ridefinire la guerra di liberazione; ma soprattutto, ed è il tratto politicamente bruciante del libro, nel mettere a fuoco l'identità e il ruolo del Partito comunista nella storia italiana. Facendola a pezzi. Proviamo a riassumere: secondo Pansa, la storia della Resistenza è stata stravolta «da un diluvio di faziosità, di ipocrisie, di opportunismi partitici e ideologici, di retorica, di falsità». È un «lavoro truccato». È la grande sofisticazione della «vulgata» antifascista, come la chiamava Renzo De Felice, che intacca anche la verità vera, l'autenticità fenogliana della lotta di liberazione con i suoi chiaroscuri e i suoi contrasti interni. Una leggenda storica che ha sostituito alla realtà fattuale una leggenda politica. Ancora più esplicitamente: una sola grande bugia composta da una costellazione di sette bugie. Vediamolo, allora, il catalogo delle sette bugie, o leggende. In primo luogo, secondo Pansa non è vero che per i comunisti la Resistenza sia stata una lotta di liberazione dal fascismo e dal nazismo, «senza altri propositi nascosti». Per molti dirigenti e militanti, la guerra in montagna e la vittoria contro i nazifascisti era il passaggio naturale e obbligato per giungere alla conquista del potere, ossia alla formazione di «una democrazia popolare comunista, dominata da un partito unico e subalterna al totalitarismo sovietico». Un destino praghese, o ungherese, dominato dalle figure tragiche di Slánsky e Masaryk era dunque nei piani di un partito internazionalista, legato alla potenza dell'Urss, che «si reggeva su un regime totalitario, non diverso da quello nazista e fascista». La seconda "leggenda" che regge il castello della mitologia resistenziale è che gli italiani fossero contrari al regime di Mussolini: il consenso alla dittatura, descritto da De Felice, si protrasse anche all'epoca della Rsi, con un'Italia profonda che non era e non si sentiva estranea alla storia del fascismo. La terza leggenda racconta che la Resistenza è stata una guerra di popolo, una gloriosa esperienza di massa: cioè la visione ideologica lanciata da Luigi Longo nel 1947 con "Un popolo alla macchia": «un libro bugiardo», che argomentava come «tutti gli italiani delle regioni occupate dai tedeschi si fossero epicamente sollevati contro i nazisti e i loro alleati fascisti. Ma non è andata così. La nostra guerra interna è stata combattuta soltanto da due minoranze: quella antifascista e quella legata alla Repubblica sociale. E quest'ultima, soprattutto nelle grandi città dell'Italia settentrionale, era più robusta della prima». Quarta leggenda: la cosiddetta "zona grigia" (il copyright è ancora una volta di De Felice, per definire gli italiani che si mantennero estranei alla guerra civile) era molto più estesa di quanto non voglia l'agiografia. E ancora: è un mito, il quinto della lista, l'idea che la grande maggioranza della popolazione, soprattutto quella contadina, fosse schierata tutta con i partigiani. Nella realtà, i piccoli proprietari erano diffidenti, e non di rado la diffidenza diventava rancore: «Quelli fanno i loro comodi, ammazzano un fascista o un tedesco, e poi scappano, lasciandoci nella bagna». E poi, perché aiutare i partigiani? «La guerra finirà non per merito loro, ma quando arriveranno gli americani e gli inglesi». La sesta leggenda, una delle più scottanti, concerne «i numeri dell'esercito partigiano». Esistono soltanto i dati della «burocrazia partigiana e della vulgata, la versione più diffusa della storia resistenziale», sostiene Pansa, raccolti «con lo scopo di accreditare l'esistenza di una forza davvero imponente», mentre le cifre andrebbero sostanzialmente ridimensionate. L'ultima finzione, la settima, investe un altro tema cruciale, l'unità politica della Resistenza: «Al contrario di quel che sostiene l'agiografia resistenziale, è sempre stata più formale che sostanziale». Non c'è solo la tragedia di Porzûs, massacro comunista di partigiani non comunisti. Sono infatti innumerevoli i casi di scontri intestini, delazioni, «giochi sporchi e rese dei conti brutali». E secondo Pansa «fa parte di questa storia negata un'altra pagina quasi sconosciuta: il lavorio continuo dei comunisti per garantirsi il massimo controllo possibile del movimento partigiano». Ci avviciniamo al clou: perché la tesi dell'autore è che questo controllo totale i comunisti «lo volevano in vista del secondo tempo del film: la conquista del potere in Italia con le armi e non con le elezioni». Ecco il punto. Perché è vero che i dirigenti politici e militari del Pci rappresentavano «il nerbo della Resistenza» e «senza di loro non ci sarebbe stata nessuna guerra di liberazione». Ma «i dirigenti comunisti guardavano al di là del 25 aprile. Pensavano al dopo. E si preparavano». Il fatto è che se si accetta il punto di vista secondo cui «per molti quadri del Pci la guerra di liberazione era soltanto un capitolo di una grande guerra europea prossima ventura», e che essi si consideravano «comunisti staliniani prima che comunisti italiani», c'è una conseguenza politicamente ingombrante. Vale a dire che sul terreno minato della Resistenza, e dietro gli eccidi post liberazione, rimane sul terreno anche l'immagine mitologica del Pci, l'autorappresentazione "gramsciana" di un processo continuo nella sua specificità di esperienza nazionale irriducibile all'internazionalismo e alla subalternità staliniana. Gli storici bollati come «guardiani del faro resistenziale» (riutilizzando la definizione di un antirevisionista come Sergio Luzzatto) obietteranno che le valutazioni di Pansa sono il frutto di una visione da cronista, che legge episodi frammentari e li irradia come prove coerenti verso una tesi in realtà non dimostrabile. Vale a dire che anche la sua è una tesi soggettiva. Pansa risponderà rivendicando la verità empirica delle storie da lui ricostruite, e la loro forza sovrana rispetto alle mitologie politiche. Di sicuro sarà difficile eludere l'"hic Rhodus, hic salta" dell'autore, il suo imporre nel dibattito un argomento da cui non sarebbe serio svicolare ricorrendo ai manierismi di una storia addomesticata dalla politica. Libro dalle molte sfaccettature, ora sgradevoli, ora scettiche, ora sconsolate, ma sempre con l'intenzione esplicita di connettere il passato storico a un presente politico, di riscontrare le implicazioni di allora sulla sinistra di oggi, alla fine "La grande bugia" può essere letto come un esorcismo per riportare la nostra storia nel solco della verificabilità storica, ossia, come dice Pansa, «per ridare alla Resistenza vera e agli uomini che la fecero ciò che è stato loro sottratto dalla inautenticità del costrutto ideologico». In questo senso occorre davvero fare i conti con il puntiglio da cronista dell'autore, con il suo scetticismo pragmatico, anche quando sembra infierire provocatoriamente: «La vulgata resistenziale ha sempre sostenuto che le città dell'Italia del nord insorsero contro i tedeschi e i fascisti. E si liberarono da sole, combattendo, prima dell'arrivo degli Alleati. Anche se qualcuno cercherà di smentirmi, sono convinto che non ci sia stata nessuna vera insurrezione». Oppure si può leggere questo libro come un complemento ai volumi precedenti di Pansa, un'altra raccolta di storie tremende dopo il 25 aprile: la più esemplare e simbolicamente efficace potrebbe essere la "guerra dei morti", lo scontro fisico fra madri di partigiani e madri di repubblichini nel cimitero di Casale Monferrato, un 2 novembre del 1945 che nella memoria appare quasi più luttuoso della guerra stessa: «Un parapiglia orribile, generato da dolori troppo recenti per essere sopiti. Lumini distrutti. Crisantemi spezzati. Tombe calpestate. Mia madre tornò a casa sconvolta». Ma se si prende sul serio la stringente logica interna della ricostruzione di Pansa, altro che libro "scomodo" o "revisionista": «È stata la sinistra a capire subito l'importanza della storia come arma politica per l'egemonia». E dentro l'egemonia culturale c'era il racconto della vicenda comunista come una storia di italianità antifascista, codificata da Gramsci e realizzata da Togliatti, mai messa in discussione dalla leadership comunista e postcomunista. La "versione di Pansa" incenerisce quest'ultima leggenda. Almeno fino al 1948 il Pci è stato un partito orientato al sovvertimento della democrazia. Il suo cambiamento avviene con la catastrofica sconfitta alle elezioni del 18 aprile, davanti a quella Dc in cui si era rimescolata la storia dell'Italia, con tutte le sue pieghe: «Fascismo, antifascismo, qualunquismo, voglia di democrazia, assenteismo politico, moderatismo, pulsioni egualitarie. E, durante la guerra civile, anche partigiani e fascisti della Repubblica sociale». Niente manicheismi, nella Dc, niente divisione netta fra «angeli di qua e diavoli di là». De Gasperi vince nel 1948 perché il suo partito ha capito che le democrazie moderne non si prestano alla divisione moralistica o ideologica fra il Bene e il Male. Adesso l'hanno capito anche comunisti ed ex comunisti. Si tratta di vedere se saranno anche capaci di rinunciare alla mitologia e fissare con occhi spregiudicati la realtà della loro storia. n
L'Espresso, 05/10/2006
La morale dei nostri capitalisti
È possibile che all'opinione pubblica sfuggano i contorni effettivi del caso Telecom, anche perché a un problema di strategia industriale si aggiunge un colossale affare di spionaggio, le cui finalità sono ancora tutte da accertare («Un attentato alla democrazia», lo ha definito Guliano Amato). Sicché non è chiaro a che cosa si debba il colpo di scena che ha movimentato lo scontro con il capo del governo, e cioè le dimissioni di Marco Tronchetti Provera dalla presidenza del gruppo telefonico. Una via di uscita e una soluzione di garanzia, con la nomina di Guido Rossi come forza di interposizione fra la Telecom e Romano Prodi? Oppure una misura prudenziale di fronte allo scatenarsi del caso spionistico, cioè dell'affaire che investe l'azienda, i suoi possibili concorrenti o alleati, i servizi segreti, gli ambienti del calcio? Ogni risposta è arbitraria, ma intanto sarebbe il caso di soffermarsi sulla questione industriale, a cominciare dallo scontro con il governo. Di cui si sono esaminati molti aspetti, ma non si è discusso affatto su come mai un uomo misurato come Tronchetti Provera, un caposcuola nell'arte di non sbilanciarsi, ha deciso di scatenare una guerra totale contro Palazzo Chigi. Ancora non si è capito infatti per quale ragione il "documento Rovati" è stato fatto arrivare alla stampa: quella mossa non è nel galateo imprenditoriale, non appartiene alle consuetudini; è piuttosto una iniziativa ascrivibile a un capitalismo avventuriero, che si sente nella condizione di rompere ogni vincolo di riservatezza e qualsiasi rapporto fiduciario. Non si era mai visto un gruppo economico decidere di innescare uno scontro così violento con l'istituzione governo. A quale scopo, poi, è difficile dire. Anche l'osservatore profano può intuitivamente ritenere insensata la decisione di cominciare una guerra sganciando una bomba potentissima non convenzionale, cioè divulgando il piano «artigianale» proposto da Angelo Rovati, senza avere un'idea sulla strategia successiva. A meno che, naturalmente, le idee non fossero chiare o chiarissime nella mente degli autori, e implicassero ipotesi piuttosto dettagliate su cessioni o accordi potenzialmente sgraditi al governo. Tutto questo sembra ridimensionarsi, dopo l'esplodere del caso spionistico; ma sarà bene non dimenticare che la Telecom è anche un problema economico: peggio, una matrioska di problemi, economici, industriali, giuridici, e alla fine anche etici. Perché non c'è soltanto quella specialità tutta italiana costituita da una catena di controllo a base di scatole cinesi, che attestano la debolezza del regolatore pubblico di fronte alla capacità dei soliti noti di trasformare una public company in un affare privato. E non si tratta soltanto di quella incertezza nella strategia industriale che fa passare un colosso come Telecom dai progetti di integrazione fra telefonia fissa e mobile allo scorporo della Tim e quindi alla sua possibile alienazione. Questa o quella pari sono? In attesa della risposta, e in attesa anche degli sviluppi dell'affare spionistico, ci sarebbe anche da mettere a fuoco uno degli aspetti più sgradevoli emersi dall'inchiesta giudiziaria: vale a dire il gioco delle tre tavolette, o dei tre conti bancari, che secondo i magistrati milanesi consentiva di piazzare i profitti sulle operazioni di Borsa sui conti personali dei vertici Telecom, e le perdite sul conto dell'azienda. Se questa ricostruzione fosse confermata, saremmo davanti a una interpretazione originale del giudizio di Ernesto Rossi sul capitalismo italiano, capace tutt'al più di «privatizzare i profitti e socializzare le perdite». Naturalmente occorrerà aspettare che la ricostruzione sia confermata, prima di emettere valutazioni sulle persone. Ma intanto, si fosse sentita una frase, un giudizio, anche un sospiro da parte del mondo economico e imprenditoriale italiano: così pronto a sanzionare duramente il dirigismo e lo statalismo, vero o presunto, del governo, ma non particolarmente efficiente nell'indicare che comportamenti simili non appartengono alla moralità del capitalismo moderno. Fatte salve le figure di Tronchetti, Buora e compagni, illibate fino a prova definitiva e contraria, sarebbe o non sarebbe benvenuta qualche parola autorevole sul fatto che certe pratiche, sia detto sommessamente e senza demagogia, non sono un esempio di come dovrebbe funzionare l'economia di un paese civile, moderno, liberale, trasparente, competitivo (e via capitalisticamente moraleggiando)?
L'Espresso, 19/10/2006
Se Morandi fa Celentano
Alla fine, "Non facciamoci prendere dal panico" una mezza sufficienza la prende. Per l'insieme dello spettacolo itinerante condotto da Gianni Morandi, non per i suoi elementi. Smontata in tanti pezzi, la produzione Morandi-Ballandi è piena di pecche. Il monologo iniziale, basato sul dualismo "ce l'ho/mi manca", fiacca ripetizione di "rock/lento", è un trionfo dell'ovvietà, e viene salvato dall'espressività del Gianni nazionale (che qui hanno cercato di incattivire un po', complice Diego Cugia, di farlo celentaneggiare, esibendone l'età e «le rughe un po' feroci sugli zigomi»). L'attrice spagnola Esther Ortega non ha i tempi, né comici né brillanti, del varietà, e di solito trasmette gelo: tremenda poi, da Forlì, la gag presunta in cui si apre la giacca e mostra una cintura esplosiva da martire islamista solo per dire basta all'esibizione di un gruppo di spettacolari oche giulive guidate da Paul Sorvino. Eccetera eccetera. Il momento migliore della seconda puntata dello show è stato quando è apparso un faccione che sembrava quello di un imitatore dilettante di Silvio Berlusconi, e invece era nientemeno che Paul Anka (di cui non si riesce più a parlare senza ridere dopo l'aneddoto raccontato da Iva Zanicchi: in un teatro emiliano, il presentatore sta cercando di intrattenere la platea nell'attesa di Paul Anka, che è in tremendo ritardo; ma dopo due ore, stremato dall'ennesimo spergiurante «stiamo aspettando Polànka, sta arrivando Polànka», uno spettatore inferocito sbotta: «Polànk'ander a caghèr!»). Lo spettacolo regge quando c'è lui, Morandi, con le sue canzoni vecchie e nuove. Quelle nuove, mica un granché: ma come si fa, dopo oltre quarant'anni di carriera, gli studi di contrabbasso, l'abitudine quotidiana alla musica, a non capire se un pezzo è buono o no? Ma insomma, averne, di protagonisti così professionali, anche quando si infilano in discorsi da supercazzola sul Viagra o sui matrimoni gay. Pollice verso, invece, sui duetti virtuali in bianco e nero con i cantanti che furono, per i quali va riesumata (in senso letterale) la storica definizione di Aldo Grasso relativa ai programmi di Paolo Limiti («Un karaoke dall'oltretomba»). Effetti mortali con Giorgio Gaber, Lucio Battisti, Anna Magnani. Ottimo invece un duetto reale con Francesco De Gregori. Comunque, il pubblico applaude appassionatamente i vivi e i morti, e forse il messaggio del programma è proprio lì.