L’Espresso
L'Espresso, 19/10/2006
Operazione Finanziaria
Ha da passà 'a Finanziaria, proprio come la "nuttata" di Eduardo. A mano a mano che trascorrono i giorni e si deposita il polverone, la manovra del governo Prodi comincia a essere identificabile anche come atto di indirizzo politico, e cioè nei suoi profili e contenuti generali. Intanto: che la compagine di centrosinistra abbia sbagliato il messaggio è un dato di fatto. Con una mediocre gestione della comunicazione, e con alcuni provvedimenti "esemplari" quanto mediaticamente catastrofici come l'innalzamento delle aliquote oltre i 75 mila euro di reddito, è caduta nell'unica vera trappola che doveva evitare: presentarsi all'opinione pubblica come il governo delle tasse. Esattamente l'accusa preventiva che il fronte della Casa delle libertà e in primis Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti avevano rivolto all'Unione. Tasse. Un vorticare di calcoli sulle aliquote. Il sospetto di un intento punitivo sui ceti medi, nel solco della tipica vendetta di classe. Un provvedimento di finanza staliniana, secondo il lessico non proprio aggiornato del Cavaliere. Misure dall'impronta sovietica, destinate all'appiattimento dei redditi. Il ceto medio-alto come i kulaki dopo la Rivoluzione, allora? «Certo, abbiamo costruito un provvedimento di centrosinistra», dice con un sussulto d'orgoglio uno degli uomini più vicini a Prodi, il ministro per l'attuazione del programma Giulio Santagata. Come per dire: che cosa si aspettava da noi il paese, la "spaghetti supply side economics" della Cdl? La finanza creativa del predecessore di Padoa-Schioppa all'Economia? Oppure una secca inversione rispetto al governo Berlusconi? Blindato nel fortino di Palazzo Chigi, Enrico Letta riflette a mezza voce: «Alla prova dei fatti una politica di rigore non piace mai a nessuno. Ma dobbiamo pensare che questa è la prima di cinque leggi finanziarie, non un episodio contingente: adesso ci siamo tolti il dente del risanamento dei conti pubblici, e nei prossimi anni abbiamo la possibilità di puntare tutto sullo sviluppo». Le conseguenze sono chiare: di qui a Natale si apre un campo di battaglia che ha per posta la sopravvivenza del governo, della legislatura, dell'intera esperienza di centrosinistra. Comincia un tiro alla fune in cui le mediazioni e le correzioni sono in una certa misura compatibili con l'impianto generale, data l'ampiezza della manovra; ma senza perdere di vista il senso complessivo del provvedimento, pena il precipitare nella farragine amministrativa, in un flagello di balzelli e gabelle temperato solo da negoziati e compromessi da prima Repubblica. In ogni caso, dopo il primo pesantissimo fuoco di sbarramento, in campo governativo si intravede un barlume: dal muro contro muro di tutti con tutti, si è passati alla tipica fase in cui ci si guarda, preparandosi al negoziato. Vero è che sulla qualità della Finanziaria il giudizio è generalmente di segno negativo. Un commentatore come Ilvo Diamanti ha segnalato l'assenza di una «missione» nell'attività del governo, vale a dire di un traguardo come l'euro o la prestazione eccezionale resa necessaria da un'emergenza assoluta. Nell'ala riformista dell'Unione, Nicola Rossi ha sintetizzato il giudizio scrivendo sul "Corriere della Sera" che si chiude tristemente una stagione, si interrompe e cambia di segno la prospettiva di «innestare nella cultura della sinistra italiana i temi tipici di un'analisi liberale della società». Equità e lotta alla precarietà sostituite alla crescita. Si torna al «tassare per spendere». Una soluzione legittima sul piano politico ma che culturalmente significa un grippaggio ideologico e programmatico. Il sindaco di Bologna, Sergio Cofferati, si è messo a capo del fronte dei sindaci, segnalando non soltanto la botta inflitta agli enti locali, probabile generatrice di nuova fiscalità, ma la «discussione surreale» sulla ricchezza, che testimonia un'intenzione redistributiva inefficace, con una conseguenza «particolarmente negativa per il centrosinistra». Il che significa che l'Unione non ha le idee chiare neppure sulla sua base più chiara di consenso politico, il lavoro dipendente di livello medio-alto. Mentre, per il lavoro autonomo, il presidente della Confcommercio, Giancarlo Sangalli, enumera i punti brucianti: «Stretta sugli studi di settore, aumento dei contributi per i lavoratori autonomi e gli apprendisti, tassa di soggiorno ai danni del turismo, la nostra categoria si sente perseguitata». Mettiamoci anche la questione del passaggio di una quota del flusso di Tfr all'Inps, i due punti di cuneo rifluiti con un gioco di prestigio nel ridisegno dell'Irpef, e dunque praticamente volatilizzati per i lavoratori dipendenti, il peso delle misure per le piccole imprese (che secondo un'analisi dell'ufficio studi della Confartigianato graverà sul settore per due miliardi di euro), i ticket sanitari, il paventato incremento dell'Ici, l'aggravio tributario sulle donazioni e successioni, il superbollo sui Suv, insomma il «pulviscolo fiscale», come l'ha definito Giuseppe Berta, che si è alzato sul reddito degli italiani, e il giudizio sembrerebbe scontato e senz'appello. La legge finanziaria per il 2007 sarebbe un infarto politico-culturale del centrosinistra. Oltretutto, con riflessi evidenti sul grado di consenso del centrosinistra, come risulta dalle indagini demoscopiche e come traspare dal sondaggio dell'Swg pubblicato in queste pagine. Pollice verso, quindi. Eppure il quadro non è immobile. I segnali di una jacquerie del mondo imprenditoriale verso il governo di centrosinistra si sono rapidamente smorzati. L'incontro annuale dei giovani imprenditori a Capri, che poteva trasformarsi in una "Vicenza 2", con una rumorosa revanche dell'ala filoberlusconiana della Confindustria, si è concluso con il congelamento delle ostilità: in parte per l'abilità dimostrata in questa occasione da Luca Cordero di Montezemolo («Non facciamoci dividere dalla politica»), ma in parte per la sensazione che ha preso a circolare nell'ambiente confindustriale, secondo cui, come ha riassunto in un'intervista il nordestino Andrea Riello, gli industriali ricevono da questa Finanziaria, a partire dai tre punti di cuneo contributivo, più di quanto abbia mai portato a casa il collateralismo polista di Antonio D'Amato. Tanto che a fine settembre, durante un incontro pubblico a Reggio Emilia per i cent'anni della Cgil, il segretario Guglielmo Epifani si era lasciato andare: «I tre punti di cuneo alle imprese? La verità è che il taglio si fa per una promessa elettorale, ma molti nella maggioranza sarebbero contenti di non farne più niente, visto che da mesi le aziende hanno ricominciato a fare profitti...». A Bologna, assemblea annuale della Confindustria petroniana, la "pace fredda" con Prodi è stata siglata dal presidente Gaetano Maccaferri con il dono di una bicicletta Colnago da corsa marchiata Ferrari, ma soprattutto con la dichiarazione di non belligeranza garantita dal finanziamento della metropolitana. Circola la sensazione che gli squilli di guerra delle imprese contro il governo provengano dalla base più vocalmente schierata a destra, i berluscones che affliggono le sedi territoriali con proteste, lettere e fax reclamando "facite 'a faccia feroce", più che al mainstream confindustriale, propenso a incamerare i vantaggi del cuneo e a capitalizzare quindi la ripresa. E allora dov'è il vero ostacolo del governo, il suo punto critico? Fermo restando che i numeri al Senato sono quelli che sono, non appare una minaccia troppo grave il "tavolo dei volonterosi" promosso dal leader radicale Daniele Capezzone e dall'udc Paolo Messa per introdurre modifiche liberali nel testo della Finanziaria: la possibilità di slittamenti politici verso prove di larghe intese è talmente evidente da essere già stata sterilizzata con gli ukase del segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano e simmetricamente dell'ex ministro leghista Roberto Maroni. Sul versante europeo, Prodi e Padoa-Schioppa hanno incassato il via libera del commissario Joaquin Almunia e del presidente dell'eurogruppo Jean-Claude Juncker, che ha definito «impressionanti» gli sforzi del governo. Forse comincia ad assomigliare alla realtà ciò che si aspettavano i più scafati nel circuito prodiano di Palazzo Chigi: dopo una veemente fase di wrestling, si passerà pragmaticamente alla verifica empirica, al calcolo di chi guadagna e chi perde, alla trattativa in aula e con le lobby. Su questo terreno, il governo può farcela. Può sopravvivere politicamente, anche se sul piano della cultura politica, del messaggio al paese, come indicazione di un profilo di società desiderabile, il quadro è quello di un'operazione di ordinaria (o straordinaria, pensando alle dimensioni della manovra) democristianeria. L'imperativo cruciale è condurre in porto la seconda Finanziaria per entità, dopo quella di Giuliano Amato dell'autunno 1992, costi quel che costi: anche se il riformismo deve attendere, e per «l'Italia che vogliamo», vecchio slogan ulivista di dieci anni fa, occorrerà aspettare tempi meno perigliosi. n
L'Espresso, 26/10/2006
Fazio e Fiorello amore al coltello
Ma il centrosinistra fa poi bene o fa male alla televisione pubblica? O per la precisione: fa bene o fa male ai televisivi? Recenti litigi, risse verbali e scritte, ordalie clandestine, vendette promesse, interviste minacciose, rappresaglie minacciate e altre quisquilie sembrerebbero attestare che l'Unione fa male, anzi, provoca sindromi da "homo homini lupus", induce la perfetta disunione. Altro che lo storico duello solitario fra Paolo Bonolis e Antonio Ricci: qui si è vista una bella successione di "scazzi & sgarri", con la Rai ridotta a quello che talvolta i migliori editorialisti definiscono "un campo di Agramante" (ma non chiedete all'editorialista chi sia o che cosa sia Agramante, non lo sa nessuno). Agramante o no, ecco Fabio Fazio contro Fiorello in seguito a invasione di campo; voilà Daniele Luttazzi, ancora fuori dall'etere, schierato contro il presunto qualunquismo casalingo di Luciana Littizzetto; e infine, infine per ora, la faida settimanale tra il Michele Santoro di "Annozero" e il "Ballarò" di Giovanni Floris, a colpi di share. Insomma, ce n'è per tutti i gusti. Ah, che bei tempi quando tutti erano passibili di possibili editti bulgari, e dunque la solidarietà regnava nell'etere. Gli ostracizzati di tutto il mondo si univano, dato che non avevano da perdere niente se non le loro antenne incatenate. Ma adesso, eh, adesso la situazione è cambiata. Adesso vige l'Auditel, contano soltanto gli ascolti. Per un Biagi che come al solito sbanca, qualcun altro arranca. Prendere partito per questo o per quello non serve a niente: l'homo televisivus, sottospecie dell'homo mediaticus, sotto il regno del centrosinistra si rivela per quello che è. Un cacciatore di ascolti, un predatore di telespettatori. Senza pietà per nessuno. Sicché Fiorello è buono e bravo, anzi ottimo e bravissimo, ma se invade lo spazio-tempo di Fazio la convivenza diventa sanguinosa. E intanto sono nati o stanno per nascere diversi partiti: c'è la tv di sinistra radicale, capeggiata da Santoro, e la tv di sinistra riformista, guidata da Floris. C'è il movimento fazista e il blocco fiorellista, su cui non sono prevedibili larghe intese. Conclusione: l'unità nazionale si è spezzata. Ci sarebbe una sola persona capace di rappattumare i cocci, e naturalmente è Walter Veltroni: il quale però si è dato alla festa del cinema. Mentre al momento si tratta di fare la festa alla televisione.
L'Espresso, 26/10/2006
Come siamo Gentiloni
Morbida, mite, equilibrata. Gli aggettivi dedicati dal centrosinistra alla riforma del sistema televisivo firmata dal ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni sono tutti omogenei. Si mette un accento gentile sulla parola chiave, "mercato". Ed è logico: in un sistema moderno dei media, la libertà di informazione è proporzionale alla pluralità dei soggetti televisivi. La democrazia economica equivale alla democrazia politica. Ma si può davvero trattare la televisione in Italia come una questione industriale e commerciale? Evidentemente no. Abbiamo una storia perversa alle spalle, che rende superfluo segnalare ancora una volta come intorno al duopolio si sia incentrato il nucleo più bruciante del conflitto (o della convergenza) di interessi riguardante Silvio Berlusconi. Dopo le elezioni del 1994 fu un sociologo allora conosciuto soltanto nella comunità scientifica, Luca Ricolfi, a indicare che la tv aveva spostato a favore del centrodestra un decimo dell'elettorato, quattro milioni di voti (per questa valutazione Ricolfi fu subissato da critiche severissime). E uno degli sforzi principali dei berluscones, in tutti questi anni, è consistito nell'opera di convincimento tesa ad affermare l'idea che la tv non ha un'influenza reale sulle preferenze elettorali dell'opinione pubblica. Era pura propaganda, naturalmente, seppure condotta al livello di un capolavoro: e per i cinque anni di governo della Casa delle libertà il sistema politico-mediatico italiano, con la proprietà di Mediaset e il controllo della Rai, ha rappresentato un caso inedito nella vicenda delle democrazie moderne. In realtà, la televisione è la politica. Lo sa Berlusconi come lo sanno i suoi avversari. È uno strumento che condiziona e manipola. Gestisce il flusso di informazioni così come convoglia il consenso. Ci si poteva aspettare per questo che negli scorsi anni il centrosinistra, dall'opposizione, lanciasse una spregiudicata campagna per smantellare l'anomalia, anche con soluzioni di ristrutturazione spettacolare, che servissero perlomeno a mantenere alto il livello polemico e a rendere consapevole l'opinione pubblica, mitridatizzata dalla Cdl. Mercato contro monopolio. Privatizzazioni contro il controllo politico. Ciò non è avvenuto: per cinque anni il centrosinistra ha combattuto a palmo a palmo sul terreno della Rai, senza sfuggire al sospetto di una lottizzazione contrattata; e probabilmente la riforma Gentiloni è la figlia, non indecente ma chissà quanto adeguata, di una timidezza durata troppo a lungo. Vero è che dopo le elezioni ogni riforma incisiva sarebbe stata impugnata dalla Cdl come un esproprio e un attentato alla libertà d'impresa. Occorreva quindi una soluzione politica, che avviasse una trasformazione graduale senza prestare il fianco all'accusa di pratiche illiberali. Sotto questo profilo, la reazione di Berlusconi all'annuncio della legge è stata di una chiarezza accecante: un atto di «banditismo». Praticamente un appello alla resistenza contro un disegno "comunista". In realtà, la proposta del ministro corre su un binario strettissimo: deve puntare sulla creazione di un mercato non monopolistico senza scatenare una guerra civile sugli interessi di Berlusconi. Ovvero, deve provare a limitare gli effetti distorsivi del duopolio senza che ciò appaia come una vendetta post elettorale. Che il progetto sia adeguato a questa finalità è tutto da verificare. Berlusconi farà carte false per non perdere la sua rete analogica. Il passaggio sul digitale di una rete Rai sarà un campo di battaglia fra interessi politici confliggenti anche a sinistra. Per ora il disegno del ministro assomiglia quindi a un'apertura di tavolo, in cui si dichiarano intenzioni e si indicano obiettivi. Poi la partita si sposterà sul campo parlamentare e si vedrà il risultato. Sulle prospettive di lungo periodo è difficile esprimere giudizi: il sistema televisivo del futuro, fra digitale, satellitare e banda larga, è terra incognita. Secondo le previsioni più ottimistiche, la televisione a venire conterrà una tale varietà di offerta da rendere anacronistica ogni idea di controllo politico. Ma il problema riguarda il futuro più o meno immediato. E su questo piano la riforma Gentiloni rappresenta più che altro un approccio al problema, non certo la soluzione. La parte politica più rilevante della sua iniziativa è l'abrogazione di fatto della legge Gasparri, che era stata l'espediente "di sistema" inventato dalla Cdl per mantenere intatto il potere mediatico berlusconiano. Tuttavia il taglio del duopolio, con la spedizione sul digitale di una rete Rai e una rete Mediaset, non è certamente un provvedimento risolutivo. Per ciò che riguarda il complesso televisivo di Berlusconi, il mantenimento di due reti attenua quantitativamente l'anomalia (sebbene il tetto pubblicitario del 45 per cento sul totale sia ancora molto elevato). Mentre per quanto concerne la Rai, per ora non viene toccato il problema del controllo politico del cosiddetto servizio pubblico. È realistico pensare che il progetto Gentiloni sia l'unico compromesso ragionevolmente possibile in questo momento fra le ragioni del pluralismo democratico e l'entità del problema patrimoniale e politico costituito dalla televisione. Intanto perché apre la via all'ingresso di soggetti ulteriori, nuove reti e dunque nuovi editori che occuperebbero le frequenze liberate; e di conseguenza perché in questo modo le posizioni dominanti (dominanti anche in chiave politica) verrebbero stemperate in un'articolazione più ampia. Ciò nonostante, almeno nel medio termine il sistema televisivo rimarrà fortemente condizionato dalla politica, e non soltanto sul versante Mediaset. Per la Rai, infatti, si parla di un ridisegno della governance, sul modello della Bbc, che affianchi al controllo del Parlamento altri attori (sindacati, rettori universitari, associazioni degli utenti e dei consumatori, autonomie locali) tale da sottrarre il consiglio d'amministrazione all'imperio delle maggioranze politiche. Le linee generali di questa ipotesi dovranno comunque essere vagliate dal Parlamento, ed è difficile sfuggire al timore che la portata del problema implichi l'apertura di un negoziato, di portata talmente vasta da implicare potenzialmente un estenuante gioco degli scambi e dei veti. Probabilmente quella di Gentiloni è la meno peggiore riforma possibile nel peggiore dei mondi (televisivi) reali. Di certo anche il programma dell'Unione si era tenuto alla larga da modelli rivoluzionari, concependo pur sempre la Rai come una realtà «che dovrà essere preservata, come forza industriale, editoriale e produttiva». Alla larga quindi da privatizzazioni integrali, e dalla costruzione dall'alto di un mercato vero: c'è nel centrosinistra, o almeno nella sua componente maggioritaria, un rifiuto di ogni idea di dismissione del servizio pubblico, anche bilanciata dallo smantellamento e dalla collocazione sul mercato del monopolio Mediaset. Per questo la proposta di Pier Ferdinando Casini, privatizzare RaiUno, è stata accolta come una provocazione. Non è tempo di rotture spettacolari, si tratta di ridimensionare, limare, armonizzare. Nella convinzione che poi la rivoluzione avverrà da sola in seguito al cambiamento tecnologico. Resta solo da capire che cosa succederà nell'età di mezzo, fra l'epoca analogica e l'epoca digitale, fra la tv generalista e quella tematica, nel lungo guado fra l'anomalia e il mercato. In cui la politica farà il possibile per tenersi stretto ogni monopolio residuo, grande o piccolo che sia. n
L'Espresso, 02/11/2006
Macchietta papale
La ripresa di "Crozza Italia" su La 7 ha dato adito a giudizi diversi. Critico e con argomenti puntuti Aldo Grasso, più indulgenti o sfumati altri critici. In realtà è difficile giudicare un programma come questo, perché è un programma collage, una collezione di stili, di forme e di format. Ti arriva la spagnola sessuologa che parla della spagnola in spagnolo, e chi vuol capire capisca, ma prima c'era Cofferati. Per cui è il caso di concentrarsi su aspetti specifici: prendiamo ad esempio l'imitazione del papa Benedetto XVI. Si sa che l'imitazione del sacro romano pontefice è stata a lungo uno dei tabù televisivi meglio custoditi. Poi sono saltate le convenzioni, e ciò che una volta veniva soltanto accennato, facendo smorfie contrite, è diventato pura normalità. Si parodizza anche il papa. Ma l'imitazione che Crozza ha realizzato prendendo di mira Joseph Ratzinger non è propriamente un'imitazione: è una caricatura. Ed è una caricatura pesante, che fa poco ridere, che vorrebbe essere cattiva e alla fine risulta più che altro scentrata. Perché Crozza ha creato una macchietta in cui l'imitazione dell'aspetto fisico è riuscita, ma non è riuscita affatto l'imitazione del carattere. Far vedere un Ratzinger stridulo, che fa urletti in una lingua italotedesca da Sturmtruppen, tradisce l'oggetto dell'ironia. "Kvesto papa" non è il manichino frenetico di Crozza: per fare emergere l'essenza ratzingeriana occorre metterne a fuoco la combustione fredda, il rigore corretto da un'ironia leggera, senza trasformarlo in un burattino elettrizzato. Si poteva anche temere che la disinvoltura dello sketch risvegliasse sentimenti di offesa, ma non sembra che si siano alzati lamenti molto alti, dal Vaticano o dagli ambienti cattolici suscettibili. Ma se fossimo in Crozza e nei suoi autori, ci penseremmo due volte prima di ripresentare la macchietta papale: perché per illustrare Ratzinger ci vorrebbero ironia e cultura chestertoniane, oppure il tocco al borotalco di Evelyn Waugh. In un programma della tv italiana, la figura del papa con il camauro e gli scarpini, circondata dalla volgarità tipica della tv, è esclusivamente una caduta di gusto, come ogni performance malriuscita. Quindi voto insufficiente a Crozza e al programma: ma un buffetto, non un ceffone, in modo che l'allievo possa riprendersi, applicandosi, fino a raggiungere, a dispetto di critici, criticoni e critichini, la sufficienza.
L'Espresso, 02/11/2006
Questa è tutta un’altra Storia
Questione politica, problema accademico, dilemma culturale, rivendicazione corporativa: se la storia irrompe nella cronaca vuol dire che i confini della disciplina sono saltati, o perlomeno che la dimensione storica non è più un'area delimitata da professionalità specifiche. Non ci sono più vestali che vigilano sul fuoco sacro. Le bordate scagliate dalla tribuna della "Stampa" dallo storico Angelo d'Orsi contro Giampaolo Pansa a proposito del suo ultimo libro, "La grande bugia", potrebbero apparire anche come l'indizio di una gelosia professionale, uno scontro fra competenze incompatibili. Lo storico di mestiere, detentore di una tecnica, scomunica il cronista, il giornalista, lo storico anomalo, colui che scopre il non detto con il suo fiuto di giornalista. Mettiamoci anche l'insofferenza degli storici di sinistra, quelli che Pansa ha chiamato «i guardiani del faro resistenziale» (riprendendo la definizione di un altro storico di sinistra, Sergio Luzzatto), per gli attacchi che Pansa medesimo ha rivolto alla "mitologia" della Resistenza, e il gioco sembrerebbe fatto: la storia scandalosa dell'Italia partigiana raccontata da un outsider, la sua demolizione della leggenda "etica" della lotta di liberazione, così come anche l'attacco durissimo portato alla vicenda del Pci come forza politica nazionale, rappresentano uno sgarro intollerabile per gli storici professionali di sinistra, e specialmente per coloro che si ritengono depositari di una verità politica canonica. Ma d'Orsi non si è limitato a contestare il «rovescismo» di Pansa, infezione finale e letale del revisionismo: lo storico torinese ne ha attaccato formalmente il metodo. Per il professionista degli archivi e delle fonti esiste una professionalità storiografica che fa i conti con le note a piè di pagina, con le bibliografie, con l'esposizione argomentata dei corredi documentari: insomma per raccontare, revisionare o rifare la storia occorre la capacità esclusiva del professionista, la sapienza analitica dell'accademico. Ora, si potrebbe anche liquidare l'argomento citando uno dei più brillanti storici del Novecento, Philippe Ariès, che si autodefinì con civetteria «historien du dimanche»; oppure ricordando la costante irritazione di Indro Montanelli per non essere stato riconosciuto come storico a tutti gli effetti, nonostante le decine di libri di storia pubblicati; ma risulta più interessante l'idea che lo spazio della storia, in particolare per la storia contemporanea, si sia dilatato come un universo in espansione. Non conviene neppure parlare di divulgazione; l'immagine semmai è quella di un flusso ininterrotto di materiali storici, o di un ingente supermercato dei fatti e delle idee, in cui l'opinione pubblica può trovare il prodotto che vuole. È una storia senza limiti disciplinari, in cui gli skinhead di sinistra che contestano Pansa a Reggio Emilia inneggiano polemicamente a Giorgio Bocca (non a un'autorità di sinistra come Claudio Pavone, per dire), intendendolo come depositario della Resistenza buona. Ed è un racconto senza professionalità esclusive, senza un pubblico specifico di professionisti e di dilettanti. Siamo tutti immersi nella storia, in modo attivo o passivo. Canali tematici sulla tv satellitare, un ambito televisivo come quello di Giovanni Minoli ("La storia siamo noi"), impeccabile nel ricostruire eventi politicamente rilevanti ma anche nel ripercorrere il costume italiano, nei santuari dell'intrattenimento, dove il cambiamento è diventato spettacolo e vissuto quotidiano. Oppure film politicamente urtanti, come quello di Michael Moore sull'11 settembre. E qui da noi Enrico Deaglio e Beppe Cremagnani, autori del fortunato "Quando c'era Silvio" uscito all'inizio del 2006, che a quanto si sa hanno completato il montaggio di un "docu-thriller", un film di storia "simultanea" girato da Ruben H. Oliva, che racconta la terribile notte elettorale del 10 aprile, illustrando il possibile grande broglio elettorale della destra: la tesi di Silvio Berlusconi rovesciata contro di lui. O invece ancora, su un piano popolare, la fiction televisiva che propone biografie una dietro l'altra: da Maria José a Edda Ciano, talora con effetti di buon successo popolare, e talvolta con buone prove storiografiche come per l'Alcide De Gasperi di Liliana Cavani, passando per le vite dei dei santi (Padre Pio da Pietrelcina) e dei papi (Roncalli, Wojtyla) fino all'ultimo episodio tv (Albino Luciani). Ma è chiaro che la storia diventa una miccia nel momento in cui viene assunta come manifesto politico. E sotto questa luce gli steccati fra la storiografia formalizzata e la storia informale diventano permeabili: tanto per dire, esistono almeno due versioni di Renzo De Felice, il biografo di Mussolini: la prima è quella convenzionale di uno storico controverso anche se tecnicamente ineccepibile, l'autore del rovesciamento di prospettiva storiografica sul fascismo, in quanto esploratore degli anni del consenso mussoliniano; l'altra è quella della "vulgata" defeliciana, la sua assunzione a icona della destra sdoganata, che lo trasforma in un totem e lo esibisce a riprova della plausibilità di un'operazione politica, quella dell'inserimento dell'ex Msi diventato Alleanza nazionale, nell'area della legittimazione democratica e poi del governo. A sua volta, aggiunge qualche tassello alla storia italiana la sempre più ricca produzione autobiografica dei grandi vecchi del Pci: vedi la "ragazza del secolo scorso" Rossana Rossanda, la testimonianza di Pietro Ingrao ("Volevo la luna"), l'autobiografia tutta o quasi politica di Giorgio Napolitano ("Dal Pci al socialismo europeo"). Negli ultimi anni si è sviluppato nei convegni un dibattito sul cosiddetto "uso pubblico della storia". È vero che in Italia non si è mai assistito a una polemica come quella dell'"Historikerstreit", la battaglia fra storici che nel 1986 vide gli studiosi tedeschi, da Joachim Fest a Andreas Hillgruber, da Klaus Hildebrand a Wolfgang Mommsen, dividersi aspramente sulle tesi di Ernst Nolte, il creatore del provocatorio paradigma secondo cui «Auschwitz era stato preceduto dall'Arcipelago Gulag», con «lo "sterminio di classe" dei bolscevichi» interpretato come premessa «logica e fattuale dello "sterminio di razza" dei nazionalsocialisti». Ma, come rilevò a suo tempo Paolo Pombeni, gli storici tedeschi sono considerati i costruttori della coscienza, della memoria e dell'identità nazionale, e la tesi dell'azione «asiatica» dei nazisti come risposta all'azione «asiatica» di Stalin, la presenza di un «nesso causale» fra crimini bolscevichi e crimini nazisti, sembrava fatta apposta per risvegliare l'emozione del pubblico. Eppure si può mettere a fuoco un particolare in apparenza minore, ma che oggi assume un rilievo particolare: Nolte pubblicò il suo provocatorio articolo, "Il passato che non vuole passare", sulla "Frankfurter Allgemeine", un quotidiano di qualità, non una rivista accademica; Jürgen Habermas rispose un mese dopo sulla "Zeit", anch'egli dunque fuori dal solco della discussione universitaria, accendendo i fuochi di una polemica mondiale. Sicché oggi non stupisce poi tanto che la nostra "guerra sulla storia" avvenga fuori dal cerchio della ricerca ufficiale. Gli storici come d'Orsi si irritano se circola una specie di storia-spettacolo che sembra cercare volutamente scandali e rovesciare verità, per distruggere miti, leggende, e anche luoghi apparentemente indiscussi, depositi di conoscenza convenzionale e mai contestata. Come il recente pamphlet di Piero Melograni "Le bugie della storia", che smonta alcuni capisaldi della tradizione storica (Marx non sapeva nulla del mondo del lavoro, la Belle Époque non era poi così bella, Hitler non voleva la guerra mondiale, Rosa Luxemburg non era comunista), con il naturale seguito di polemiche sulla verità o non verità della storia. Eppure il saggio di maggiore successo di d'Orsi, "La cultura a Torino tra le due guerre" (uscito con Einaudi nel 2000) fu il tipico caso di un libro accademico proiettato nel dibattito politico da un quotidiano, "Il Foglio" di Giuliano Ferrara, proprio perché demoliva l'idea della Torino antifascista tramandata da Bobbio e dalla Casa Einaudi; e si concludeva con una pagina di impressionante durezza a proposito del ventennio fascista, «età in cui lo "scrittore" - l'uomo di cultura, per dirla in altro modo - credette di poter rinunciare tranquillamente alla propria "dignità", non solo contribuendo per tal via al consolidamento del regime mussoliniano, ma anche gettando le basi per una collocazione servile (...) del proprio ruolo; abdicando così all'elemento essenziale che identifica l'intellettuale, ossia la capacità critica, e il dovere di testimoniarla». E allora, dove finisce il lavoro dello storico e dove comincia l'uso politico della storia? Nella sostanza sembrerebbe che anche la questione storiografica possa essere fatta risalire alla polverizzazione delle competenze determinata dal dilatarsi dell'industria culturale di massa. Oggi la storia potrebbe essere composta dal lavorìo degli studiosi che verificano documenti e tracce scritte, ma anche dalla mappatura di aree non formalizzate: blog, "urban legend" che circolano nel web, voci incontrollate di Wikipedia, mitologie fabbricate per ragioni tattiche o geopolitiche come la varietà di invenzioni sull'attacco alle Torri gemelle nel 2001. Vero e falso, verosimile e fantapolitico si intrecciano così come sono via via diventati più labili i confini tra approfondimento e divulgazione. È una "soap history"? Una variante della fiction televisiva? Che si tratti di una catastrofe scientifica o di un allargamento delle possibilità di conoscenza è un argomento aperto. Per certi aspetti, la storia diffusa, questa specie di Blob che dilaga in ogni settore della comunicazione, è un fenomeno speculare ai processi di mercato, all'esplodere della galassia comunicativa, al proliferare anche commerciale delle "fonti". Nel mondo delle identità frammentate, l'identità storica è il riflesso di un puzzle. Ma allora, come per la democrazia, peggiore dei sistemi possibili tranne tutti gli altri, anche questa storia anonima, diffusa, centrifugata nell'immaginario di massa come bene di consumo, potrebbe essere la peggiore storia possibile, ma anche l'unica a disposizione: quella con cui fare i conti, approfittando dell'infinita varietà di accessi a cui si presta. Qualcosa di non molto dissimile a una selvaggia democrazia della cultura. n
L'Espresso, 09/11/2006
Viva Loredana barbarica
Molti commenti sono stati espressi e molte opinioni sono state formulate sulla bestemmia del sor Ceccherini a "L'isola dei famosi", e si è avuta la sensazione che il livello di soglia si sia abbassato. Sostanzialmente, fra poco, si potrebbe dire che non proprio un bestemmione, ma un bestemmioncino, una bestemmiuccia, non fa poi così male, che non bisogna esser moralisti, che magari un porco qui o porco là, con la desinenza un po' sfumata, può essere quasi tollerabile, se è frutto di una cultura, toscana o popolare o sottoproletaria che sia. Danni del relativismo e del multiculturalismo. E anche di una certa maleducazione crescente, come direbbero le zie babbione. Così, fra una teoria della bestemmia e l'altra, è passato in secondo piano uno dei vertici assoluti della televisione recente, vale a dire l'intervista di Loredana Bertè a "Le invasioni barbariche". Per chi se lo fosse dimenticato, bisognerebbe ricordare che la Bertè è stata una delle poche cantanti italiane a produrre musica di livello europeo, grazie agli autori che l'hanno assistita ai tempi di "Traslocando" e di "Jazz" (Ivano Fossati, Enrico Ruggeri, Mario Lavezzi, Maurizio Piccoli). Anche nei momenti per lei peggiori, quando andava in tv profondamente segnata, mutriosa, intrisa di rancori, talvolta gonfia e abbigliata come una gattara, rivelava comunque un suo stile, ora parossistico e ora quasi rassegnato; e anche se la sua voce non era al meglio, riusciva sempre a far risentire un'eco della verve passata. Rivederla dalla Bignardi, ricercata nel vestire tanto che sembrava la poetessa Patrizia Valduga, con i guantini di pizzo e una suggestiva ciocca bianca al centro della capigliatura, asciugata nella figura, di nuovo sexy, faceva finalmente un'ottima impressione. Quanto all'intervista, il solito divertimento. Perché Loredana, che parli di Borg o di Bush (padre e figlio, come dice lei), è sempre uno spettacolo: questa volta ha raccontato fra l'altro una cena alla Casa Bianca con Bin Laden, «padre e figlio». Vedete che conferme alla teoria del complotto. Tutto questo anche per esporre una teoria generale delle interviste televisive, che sono uno dei rari momenti, a parte la messa della domenica, in cui il tempo televisivo si allunga, si dilata, non c'è la frenesia solita della televisione. C'è bisogno di una televisione più lenta, che faccia da sottofondo. E quindi viva la Bertè. Orco can.
L'Espresso, 09/11/2006
Il braccio di ferro delle due destre
La Vicenza bis organizzata da Silvio Berlusconi in piazza dei Signori non è andata benissimo, nonostante il grande spettacolo inscenato dal Cavaliere. Se n'è avuta la riprova con il cambio di tattica del centrodestra, dalla "spallata" alle "larghe intese". L'obiettivo è sempre la caduta del governo Prodi e la sostituzione in corsa di una maggioranza con un'altra, con le elezioni anticipate che restano sullo sfondo, in attesa di chiarimenti. Tuttavia la Casa delle libertà continua a mostrare le sue divisioni interne, mascherate a malapena dall'obiettivo comune di togliere di mezzo l'intruso Prodi. Il tema non è marginale perché investe il futuro del confronto politico. Vale a dire con chi si misura l'Unione. Con quale avversario. Nei mesi successivi alla esigua vittoria elettorale del centrosinistra, si era assistito a una visibile manovra di smarcamento di alcuni settori della Cdl dall'egemonia berlusconiana. Pier Ferdinando Casini aveva mosso l'Udc mettendo esplicitamente in discussione la leadership futura ma anche presente del Cavaliere. Nello stesso tempo, era apparsa spettacolare la convergenza al centro di Gianfranco Fini, che ha dato un impulso ulteriore alla marcia di avvicinamento di An al Partito popolare europeo: non era sfuggito che si trattava di una mossa destinata a mutare ancora, in prospettiva, il formato della coalizione di centrodestra. Nonostante le resistenze interne impersonate dalla destra di Francesco Storace, infatti, lo spostamento al centro del partito ex missino costituisce un processo di notevole rilievo per lo schieramento di centrodestra. Non soltanto perché rafforza quell'asse con l'Udc (il cosiddetto "subgoverno", come lo battezzò "Il Riformista") che si era manifestato durante la legislatura precedente, e aveva determinato attriti considerevoli, resi emblematici dall'aver provocato la caduta del ministro dell'economia, Giulio Tremonti; ma anche perché rende ancora più evidente la presenza di "due destre" all'interno dell'alleanza, due aggregazioni politiche, due culture, due ispirazioni di fondo. Se il cammino di Fini avrà successo, la Casa delle libertà risulterà una coalizione in cui le componenti centriste e quelle "forzaleghiste" si misureranno per l'egemonia e per la scelta del leader politico. Da una parte avremo una concentrazione post-democristiana, quindi tendenzialmente moderata, in cui la leadership si giocherà tra Fini e Casini; dall'altra un aggregato composto da Forza Italia e Lega Nord, a vocazione liberista e nordista. Nel breve periodo non sono prevedibili conflitti vistosi all'interno della Cdl, dal momento che proprio la debolezza numerica dell'Unione è il mastice più efficace per il centrodestra. Ma in un tempo più lungo, se Berlusconi dovesse accettare di divenire più l'azionista di riferimento che l'amministratore delegato della coalizione, la partita si giocherà proprio fra queste due componenti della destra. Sotto questo aspetto, le larghe intese rappresentano più che altro un espediente tecnico, che ha come unica finalità la scomposizione del sistema politico. Ma se la struttura bipolare regge, sarà di estremo interesse verificare l'evoluzione del centrodestra. Proprio perché la concorrenza fra Casini e Fini potrebbe accentuare la vocazione centrista e moderata dei loro partiti, e chiarire qual è l'anima della futura Cdl. E di riflesso potrebbe essere interessante anche per l'Unione misurarsi con l'anima moderata del centrodestra: perché di fronte a un blocco mediatore come quello composto dall'Udc e da An il centrosinistra troverebbe utile qualificarsi in senso riformista e liberalizzatore. Finora la prevalenza del forzaleghismo ha consegnato il nostro sistema politico a una caricatura di se stesso: a destra i fautori del berlusconismo-tremontismo-leghismo, a sinistra una coalizione che molti hanno interesse a qualificare come conservatrice. Per questo forse conviene a Fini e Casini lavorare su tempi non frenetici: i mesi giocano a loro favore, e in questo senso possono preparare la strategia più adeguata per giocarsi la leadership senza l'assillo ingombrante di Berlusconi. Ma intanto occorrerebbe che i due cinquantenni del Polo si chiarissero vicendevolmente le idee, mettendo anche nel conto la sostanziale inutilità di spallate e scrolloni per far cadere Prodi. La posta, infatti, per loro è più alta: e si trovano davanti alla prima vera occasione di far vedere se sono in grado di giocare fino in fondo il match per la leadership.
L'Espresso, 16/11/2006
Meglio un’ora da dilettanti
Molto, molto istruttiva e culturalmente benefica la messa in onda di "American Idol" su Fox Life, 43 episodi da un'ora l'uno. Ma è istruttiva per ragioni alquanto diverse da quelle sociologiche prevedibili. Prima di tutto, occorre sapere che "American Idol" è ciò che si definisce nel gergo tv un reality game show, o ancor meglio un "talent show". Si percorre il continente americano alla ricerca di bravi cantanti dilettanti, poi si fanno provini, eliminatorie, semifinali, finali. È un format che viene dall'Inghilterra, qualcosa che assomiglia ad "Amici" di Maria De Filippi, è risbarcato sul continente europeo in Spagna e in Germania, e insomma chissenefrega, la solita solfa dei reality che si reincarnano con maggiore o minore successo a seconda del karma, del pubblico di riferimento, dei protagonisti che emergono. Se va bene è la scoperta di talenti nuovi, se va male è peggio del karaoke. Fox Life trasmette la quinta edizione, che in America ha avuto punte di 30 milioni di audience, pubblicità venduta a 1,3 milioni di dollari per spot di 30 secondi. Per la cronaca, l'ultima serie è stata vinta da un contadino dell'Alabama, tale Taylor Hicks, ma naturalmente non è questo il punto. Vabbé che la vincitrice della prima edizione, Kelly Clarkson, ha spopolato vendendo milioni di dischi e ha partecipato a "American Dreamz" con Hugh Grant, ma neanche questo aggiunge molto alla solfa. Secondo un'idea fortunata e fiacchissima, guardare i provini e le selezioni aiuterebbe a capire nel profondo la società americana, e forse a spiegarci la "new right", i cristiani rinati, la politica dei valori, il ruolo della religione nella democrazia e altre amenità bushiste. Stories: "American Idol" funziona perché è una bella macchina spettacolare. I concorrenti si esibiscono per un minuto eseguendo canzoni famose e difficili, aspettando con ansia ma fair play il giudizio della giuria in cui troneggiano il Tecnico, la Buona e il Cattivo (nell'ordine, l'ex zuccheroso Randy Jackson, la sefardita Paula Abdul e Simon Cowell, molto british e bastardo dentro). Segue poi il giudizio finale fornito da telefonate e sms del pubblico. Ovazioni, divertimento, e doppiaggio non invasivo. Resta da capire qual è il segreto del programma. Ma è semplice: un dilettante americano canta meglio, più preciso e convincente, di un professionista italiano medio. Una questione di qualità, dunque. Provare per credere.
L'Espresso, 16/11/2006
Il marziano Adriano
L'avvio è epico, nel ricordo di un giorno del 2004 in cui la Rai si rivolse a Celentano perché facesse un altro programma: «Non sapeva, il direttore di Raiuno, Fabrizio Del Noce, che aveva acceso la miccia di una bomba a orologeria. Si era rivolto a un "revenant", al giustiziere che non avrebbe utilizzato la sua libertà per regalare audience agli epuratori». A distanza di poco più di un anno dal 20 ottobre 2005, quando fu programmata la prima delle quattro puntate di "Rockpolitik", esce da Bompiani il libro che monumentalizza quella trasmissione, «un asteroide caduto sulla tv italiana». Si intitola "Rockpolitik. Adriano Celentano" ed è curato da Mariuccia Ciotta, giornalista che fa parte della direzione del "manifesto"; e contiene la storia del programma, alcuni testi editi e inediti di Celentano, ma soprattutto la ricostruzione del clima in cui la trasmissione andò in onda. Vera specialista del celentanismo, Mariuccia Ciotta, dal momento che già nel 2001 aveva pubblicato un libro ("Un marziano in tv"), dedicato a "Francamente me ne infischio", e i suoi giudizi su Adriano non appaiono proprio in chiaroscuro: «Già con "Fantastico 8" aveva fatto esplodere la democrazia in tv e in qualche modo anticipato Mani pulite». In quale modo, boh (Eugenio Scalfari scrisse allora che «Celentano evoca l'istinto e l'indistinto» ed era l'archetipo di una nuova politica: semmai aveva anticipato Silvio Berlusconi, non il pool di Milano). Ora, questo nuovo libro pone altri problemi: nel senso che si poteva pensare che "Rockpolitik" appartenesse al passato, agli archivi, alle teche della Rai, essendo una sostanza di immagini volatili, essenze senza corpo, suoni svaniti. E invece il libro presenta "Rockpolitik" come un capitolo irrinunciabile nella nostra vicenda, una specie di epos politico che ambisce a diventare ethos pubblico. Asserragliati nel bunker di Brugherio, i "resistenti" proiettano nel cielo dell'Italia contemporaneo i loro "son et lumière" contro l'omologazione: «Immagini dark, un po' Miyazaki, un po' Batman, un po' Matrix». Agitano l'arena pubblica con l'estetica dello skyline di New York, con gli assoli di chitarra, con il disegno apocalittico della scena. Forse un prodotto televisivo non ha mai trovato il proprio cantore come è accaduto questa volta a Celentano: «Lo scenario che si apre è vertigine spazio-temporale che non appartiene al presente televisivo... Shock dello sguardo, traiettorie a spirale in piano sequenza alla Brian De Palma». Al punto da suggerire l'idea che tanto la curatrice Ciotta quanto il clan raccolto in quella loro Camelot ci credano veramente, credano cioè che "Rockpolitik" sia stato un evento "epocale", in cui il brain storming degli autori immaginava che Adriano "Che" Lentano invitasse il subcomandante Marcos, o che potesse trovarsi a fronteggiare l'irruzione di Berlusconi dentro la realtà immaginaria del programma scandalo. Naturalmente dietro questo lirismo ci dev'essere per forza la nozione che l'ex Molleggiato sia un genio. Curiosa è anche l'adorazione da sinistra per un reazionario come lui: ma forse dipende dal fatto che Adriano è un outsider, «io sono un uomo libero, né destra né sinistra» (parole e musica di Ivano Fossati), è l'Indiano enigmatico di Paolo Conte, e d'altronde lui ricambia facendo il testimonial per la sottoscrizione del quotidiano comunista: «Il "manifesto" è rock». Ma occorre anche essere convinti che Adriano sia talentuoso, anticipatore e "oltre" in ogni tappa della sua carriera. Se è così, ha inventato il rap con "Prisencolinensinainciusol", è stato ambientalista ante litteram con la via Gluck, e ora sconvolge il costume e la politica con le antinomie "rock/lento", in cui «Rockpolitik è il contrario di Realpolitik». «Il doppiopetto è lento, il blue jeans è rock». Apparente ovvietà, schema creato da Diego Cugia per allineare prevedibili alternative fra Paperino e Topolino. Eppure sfonda. In poche ore diventa lo schema di riferimento per tutti, con i giornali che ci fanno i titoli. E allora basta un altro passo per intuire che nel pensiero dei sequestrati di Adriano, Carlo Freccero, Maurizio Crozza e tutti gli altri, mentre Vincenzo Cerami si dedica a «distillare l'arte per il grande pubblico, disseminare segnaletiche emozionali su vie sconosciute», si dev'essere formato il pensiero per cui "Rockpolitik" è la riscossa dell'umanità, della libertà, dei diritti, della democrazia "vera": e così la voce di Celentano è il risarcimento per il silenzio imposto dall'editto di Sofia a Enzo Biagi, a Michele Santoro, a Daniele Luttazzi, e ai silenziati di lungo periodo come Gianni Minà. Lo slogan, dopo che la destra è insorta rabbiosamente, appare inevitabile: «Politica e rock sociale», sintesi di musica e impegno. Ascolti sensazionali, duetti con share cosmico, 15 milioni e mezzo di italiani che assistono allo show a due con Roberto Benigni. Resta soltanto da verificare l'ultima alternativa: se lo spettacolo è, in tutti i sensi, un programma politico, ci sarebbe un erede, qui in giro?
L'Espresso, 23/11/2006
Il bello del fuori onda
E poi dicono che i reality vanno male. Semmai fanno ascolti bassi gli show fiacchi, le ripetizioni stanche, i programmi senza l'idea e senza protagonisti credibili. Ma quando l'idea traspare, affiora, si manifesta, aleggia in uno studio televisivo, il reality show trionfa. Di recente, a parte le pupe e i secchioni, il migliore è stato "Gnocca senza testa", andato in onda durante il programma di Michele Santoro "Annozero". I protagonisti erano figure insigni come i professori Giulio Sapelli e Renato Brunetta, con figure televisivamente eccellenti come Filippo Facci e Marco Travaglio. La struttura del reality è la seguente: si fa risuonare fuori onda o fuori show un insulto molto mondano e chic rivolto a una giornalista presente, nel caso Rula Jebreal, o a una testimonial come la gentile signorina Borromeo. Poi si informano le agenzie di stampa e si assiste allo spettacolo postmediatico, che nei giorni successivi diventa frenetico. Chi è stato? Chi viene "nominato"? Chi è il colpevole? Uno grande e grosso o uno piccolino ed energetico? Il biondino o il moretto? Altro che "La tv del sommerso", documentatissimo saggio di Aldo Grasso sulle reti locali, appena uscito per Mondadori: questa è la tv dell'emerso; e la discussione è subito nazionale o addirittura "glocal" Si apre infatti subito il dibattito, che si concentra sugli accusati, indagandone psicologia e stile, vezzi lessicali e abitudini salottiere. Boutade accademica o boutade giornalistica? Senso di superiorità di sinistra o sana volgarità di destra? I professori declinano le responsabilità, i giornalisti non sono in grado di affibbiarle. Ricognizioni più accurate mettono in campo ipotesi sofisticate: forse l'espressione scandalosa era «gnocca senza testo», nel senso che mancava lo script? C'è un problema di infratesto, di paratesto, di fuori di testo? Sui quotidiani le polemiche infuriano. A questo punto varrà la pena di depositare il format, magari intitolandolo "La Pupa e il Cazzone": e aprire forum, blog, gruppi di discussione, focus group. Fare intervenire il mondo laico, gli ambienti cattolici, sentire il parere di Crozza e Fiorello. Naturalmente le pupe insultate devono stare al gioco, mai intervenire, mai rispondere. La gnocca deve fare lo gnorri. Il vincitore verrà deciso dal pubblico a casa, con opportuni sms. Serata finale in cui un gruppo di pupe e uno di fresconi si insultano a vicenda. E lo share si impenna.
L'Espresso, 23/11/2006
Delle hit noi siamo i re
Queste classifiche non erano mai state pubblicate. Volete sapere come va la musica italiana? Qual è lo stato dell'arte, chi sono i compositori più accreditati, gli autori più pregiati, le canzoni più eseguite? Ecco fatto. "L'espresso" pubblica in esclusiva uno studio della Siae sulle classifiche del diritto d'autore fra il 2001 e il 2005. Una graduatoria basata sugli incassi, con le statistiche che per la prima volta tengono conto non soltanto delle vendite discografiche, ma di tutto l'indotto musicale, da Internet ai film, dalle suonerie telefoniche agli spot pubblicitari. È il ritratto della musica italiana, come appare secondo il responso del mercato. Non mancano diverse sorprese. Ma soprattutto ci sono molte conferme. Prima di tutto: a vedere i dati si può tirare un lieve, ma avvertibile sospiro di sollievo. Fra gli autori musicali italiani che incassano all'estero il primo è Ennio Morricone. Cioè un musicista fatto e finito, controfiocchi compresi, che tutti conoscono per le colonne sonore dei film western di Sergio Leone, con le loro invenzioni musicali, i leitmotiv che sottolineano il presagio, il dramma, il duello, la morte. Talento artigiano applicato all'arte cinematografica. Semmai il grande pubblico non sa che Morricone non è un compositore che rifiuta sdegnosamente i meccanismi dell'arte commercial-popolare, anche in campo canzonettistico. A suo tempo ha arrangiato i grandi successi anni Sessanta di Gianni Morandi, quelli che finivano in ginocchio da te per dire non son degno di te, e se qualcuno ha un po' d'orecchio riconosce la mano del maestro anche in un successo che risale ai tempi del lancio della teleselezione, "Se telefonando" di Mina (l'orchestrazione e i cori sono inequivocabilmente del maestro; tanto che è riconoscibile, la scrittura, anche nella bella e sussurrata versione francese di Françoise Hardy). E Nino Rota è quarto, grazie alle colonne sonore con Fellini, Coppola, Visconti, Monicelli e mezzo cinema italiano). Dopo di che, ci si può sbizzarrire nella ricerca degli eroi del pop, per la verità senza troppe sorprese: perché dietro Morricone c'è l'infallibile Eros Ramazzotti, con il suo melodico moderno che, dicono, piace molto nel mondo latino; e il chirurgico, micidiale Toto Cutugno, uno che ha sempre sostenuto che le grandi canzoni sono fatte con gli "accordi del barbiere", quelli che conoscono tutti e tutti o quasi sono in grado di fare sulla tastiera di una chitarra. Italianità deteriore, quella di Cutugno? "Sono un italiano vero" come inno nazionale del kitsch deprivilegiato? Questo per gli schizzinosi, quelli che detestano il pasoliniano potere "abietto" delle canzoni. Ma allora bisognerebbe spiegare i successi sanremesi, i brani per Celentano, un pezzo per Ray Charles, una carriera di "hit song", e concludere che, se Toto è una malattia, deve trattarsi della stessa malattia profonda della società italiana, che dev'essere contagiosa anche all'estero. Può anche incuriosire che il giovane ed energetico Tiziano Ferro, intelligente e modaiolo interprete di diversi trend americani, superi di un paio di lunghezze Zucchero Fornaciari, musicista assai più completo, che dei suoi duetti con maggiori e minori star internazionali ha fatto un programma artistico e commerciale. Ma non sorprende affatto ritrovare nella classifica, oltre al sempreverde Domenico Modugno, alcuni "autori solo autori", non conosciutissimi dal grande pubblico, come Mauro Malavasi (collaborazioni intense con Dalla e Carboni fra gli altri), il paroliere Adelio Cogliati e con lui Piero Cassano (uno dei migliori e forse non del tutto riconosciuti canzonettisti italiani, a cui si deve gran parte della produzione di Ramazzotti e dei Matia Bazar). In sostanza dai borderò internazionali viene fuori un'immagine nel complesso classica se non ipertradizionalista della musica italiana. Può sorprendere, infatti, accanto alla presenza dei soliti mostri sacri, come Riccardo Cocciante, il cui successo è stato ravvivato dalle sue opere pop come "Notre Dame de Paris", e l'infallibile Tony Renis, con il totem di "Quando quando quando", ancora utilizzatissimo anche nella pubblicità (nonché le versioni "titaniche" per Celine Dion), la completa invisibilità mondiale di Vasco Rossi. In parte dovuta al fatto che alcune delle più famose canzoni del Blasco sono frutto dello stile compositivo di un bravissimo e semi-ignoto autore, l'ex chitarrista dei Luti Chroma Tullio Ferro, e in parte per la caratterizzazione esplicitamente nazionalpopolare di Vasco, che ne fa un fenomeno straordinario di massa in Italia e uno sconosciuto appena fuori confine. Immagine classica che viene confermata all'estero dalla classifica delle canzoni, in cui nel quinquennio campeggia al primo posto il bolero di Andrea Bocelli "Con te partirò" (autori Francesco Sartori e Lucio Quarantotto), formidabile operazione M&M, "musica e marketing", della producer Caterina Caselli, che con il tenore non vedente ha creato un caso planetario, sintesi di melodramma e musica moderna, un "emotional pop" capace di colpire il pubblico mondiale con la forza dello stereotipo e di professionalissimi colpi bassi. Non sembra un caso allora che nelle prime posizioni, ancora più in alto di "Nel blu dipinto di blu", cioè quella "Volare" che cominciò a spopolare al Festival di Sanremo del 1958, ci sia la favola pseudonapoletana di Lucio Dalla, "Caruso", che non si sa se è una canzone tremenda o suprema, ma è comunque capace di suggerire alle platee di mezzo mondo l'incanto ora vero e ora da cartolina di Surriento, «la dove il mare luccica», fra lacrime, commozioni, singulti partenopei e mille versioni tutte ugualmente "artistiche". Insomma, a guardare l'elenco della Siae, l'immagine esterna dell'Italia musicale è davvero una miscela di pop e di Otto-Novecento, di canzoni contemporanee e di opera lirica, dove la "Turandot" di Piccini e "Azzurro" di Paolo Conte convivono con "Un'emozione per sempre" e "Più bella cosa" dell'infaticabile Eros Ramazzotti, o con l'ineluttabile "Arrivederci Roma" di Renato Rascel, hit da crociera, turismo e souvenir d'Italie. Ma dove i giochi diventano durissimi, e la competizione estrema, è nella "chart" degli autori più ricchi per gli incassi in Italia. La top ten infatti è uno specchio del gusto dominante: tolti il dominatore Morricone e Pino Donaggio, specialisti di musica da film, la graduatoria risulta priva di incertezze, come gerarchia dei valori popolari. In testa il fortissimo Vasco, poi Mogol: il quale dopo l'avventura battistiana si è reinventato alla grande con i tre dischi realizzati con Celentano e Gianni Bella (ora però giunti a un "calando"); segue il solito Ramazzotti, e al quinto posto si impone Lucio Battisti, scomparso prematuramente nel 1998, che continua a precedere Zucchero, Claudio Baglioni, Luciano Ligabue, Lucio Dalla, e tutti i cantautori da Francesco De Gregori a Fabrizio De André, da Antonello Venditti a Gino Paoli. Il recente successo del "Cofanetto", pubblicato dalla Bmg, che comprende la produzione esoterica di Battisti, le 40 "non canzoni" scritte con Pasquale Panella, è la dimostrazione di come il "maestro solitario" permanga non soltanto nei cuori ma anche nei negozi e sul mercato. Colpisce anche qui la posizione non altissima di Roby Facchinetti, autore principe dei Pooh, e quella di Franco Battiato, il quale evidentemente non riesce a replicare le vendite folli dei tempi di "Centro di gravità permanente". Ma va anche detto che le distanze sono molto ravvicinate, se è vero che fra la trentesima e la quarantesima posizione ci sono alcuni bestseller come il paroliere Franco Migliacci, coautore con Modugno di "Volare" (che secondo una certa corrente di specialisti della musica italiana è il più bravo in chiave tecnica, per la sua capacità di scandire e far risuonare le sillabe nei versi delle canzoni); e anche protagonisti della scena musicale come il giovanilista Max Pezzali (autentico sociologo della provincia profonda) e il più argomentato musicista della scena nazionale, Ivano Fossati. Va anche aggiunto che le classifiche delle royalties vengono molto influenzate dalla pubblicazione di album nuovi, collezioni, raccolte, "greatest hits", partecipazioni a compilation, trasmissioni televisive. Non cambiano molto le cose a guardare la classifica delle canzoni, dove comanda l'eterna "Volare" di Modugno e Migliacci, ma dove si affaccia un altro hit da falò e da spiaggia, da comitiva e da gita scolastica, "Io vagabondo" dei Nomadi, che non sarà una grandissima canzone dal punto di vista della scrittura musicale ma evidentemente ha lasciato inciso nella psicologia collettiva la voce di Augusto Daolio, sfortunato "Eric Burdon della Bassa", come fu chiamato a suo tempo. I cultori di una visione tradizionale della musica domestica resteranno stupiti per la presenza, sia in campo nazionale sia all'estero, di una specie strana di star internazionale, Benny Benassi, trentanovenne disc jockey specializzato in musica "house" e "electroclash", che nel 2003 ha sbancato con "Satisfaction"; e anche per la posizione altissima di "Blue" (Eiffel 65), uno hit da dieci milioni di copie sul mercato mondiale. Ma in sostanza, la musica è sempre la musica. E la musica italiana è sempre la musica italiana. Un po' provinciale, un po' "glocal". Con un grande passato alle spalle, e per il futuro si vedrà. n
L'Espresso, 30/11/2006
Dr House ancora un miracolo
Ormai gli esperti sanno tutto del dottor Gregory House, ovvero "Dr House", infettivologo dell'ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital (traggo questo informazioni da Wikipedia, perché quando mi capita di guardare questo telefilm entro in una specie di trance, con tutti i muscoli tesi, i glutei stretti, mesmerizzato dalla tensione della trama e dal ritmo del racconto, e non faccio caso ai dettagli). Quindi, se tutti sanno tutto, tanto vale saltare i preamboli: non credo che il successo di "Dr House, Medical Division" dipenda dalle battute del tremendo medico col bastone, dalla sua misantropia, «sono diventato medico per curare le malattie, non i malati», o dal suo apparente cinismo, tipo «preferisce un medico che le tiene la mano mentre muore o uno che la ignori mentre migliora?». Questo è il sale e il pepe della pietanza. Sapete come fanno gli americani: la bella faccia di un attore, Hugh Laurie, che potrebbe assomigliare a Tom Waits, una sceneggiatura come si deve, caratterizzazione, battute, drammi, problemi, dilemmi e soluzioni. Ma il segreto di "Dr House" dev'essere che è rassicurante. Magari la mamma muore di cancro al polmone, ma il prematuro è salvo e il papà piange intravedendo nel futuro l'ombra di un sorriso. C'è una logica, una catarsi. E c'è anche qualcos'altro: di solito la trama della puntata è che tutti pensano che il tale o la tale paziente abbiano una malattia spaventosa, che curano con quantità abominevoli di farmaci, di solito peggiorando la situazione, mentre House si apparta a fare dei suoi vudù, trangugiando pillole perché la gamba gli fa male, e appena può tratta i collaboratori come poveri imbecilli. E dato che il paziente continua ostinatamente a voler crepare, House ha la sua bella intuizione, che annulla tutte le diagnosi precedenti e, nell'incredulità generale, salva il malato. Il quale, cambiata la terapia, recupera immediatamente le forze, si alza dal letto e ringrazia il cinico House. Il quale sogghigna e ne dice una delle sue. Alla fine insomma la quadratura si trova, anche se designata da cause improbabili (come una zecca nella vagina, o un'intossicazione da termiti); ha successo una razionalità indiscutibile, anche se impersonata dal cinicone. Sicché ogni volta la conclusione della storia strappa gli applausi, e si va a letto sperando che anche nella sanità italiana ci sia qualche House, all'occorrenza.