L’Espresso
L'Espresso, 30/11/2006
Un minestrone ma ci farà bene
La Finanziaria dei mille dolori sta arrivando in porto. Ha resistito alle spallate di Silvio Berlusconi, agli interessi confliggenti dei partiti dell'Unione, al forcing dei ministri per evitare limitazioni di budget, alla battaglia di interdizione del partito dei sindaci, al «fuoco amico» degli osservatori vicini culturalmente al centrosinistra come Giacomo Vaciago e Gianfranco Pasquino, alle bordate della Confindustria e delle categorie del lavoro autonomo, alle critiche degli economisti liberali che propugnavano più tagli alla spesa e meno tasse. Nel lessico di Romano Prodi, questa è più o meno l'istantanea del «paese impazzito», in cui gli interessi si coalizzano per resistere alle misure risanatrici del governo. «Lo avevamo detto che avremmo fatto una finanziaria di centrosinistra», conferma il ministro per l'attuazione del programma, Giulio Santagata. Ossia una manovra fondata su una riscontrabile redistribuzione del reddito. Con un contenuto politicamente impegnativo, anche se controverso sul piano tecnico. Nel momento in cui il provvedimento giunge al rush finale, si avvicina quindi il tempo di un bilancio politico. Va da sé infatti che la Finanziaria è lo specchio di un equilibrio nella coalizione; e la prima considerazione, in proposito, è che finora l'Unione ha tenuto. Risultato tutt'altro che ovvio, vista l'esigua maggioranza al Senato e le differenze interne alla coalizione. Piuttosto, c'è da considerare il prezzo politico pagato da Prodi e da tutto il centrosinistra, reso misurabile dalla perdita di consenso nei sondaggi. Un effetto inevitabile, frutto di un provvedimento che scontenta tutti? Questo starebbe a significare l'efficacia della legge, secondo lo schema enunciato dal premier. In effetti diversi analisti, fra i primi Mario Deaglio, hanno messo in luce come la metamorfosi continua dei provvedimenti parziali, annunciati, cambiati, ritirati, ripresentati (Suv, successioni, aliquote), abbia fatto perdere di vista i due obiettivi di fondo della manovra: risanamento e rilancio. Eppure, sul complesso della legge, critiche severe sono venute, numerose, anche da sinistra: il riformista ds Nicola Rossi ha segnalato una sfasatura "culturale" della Finanziaria rispetto a una lettura moderna della società italiana; il sindaco di Bologna Sergio Cofferati ha criticato con asprezza un impianto basato su una identificazione sfuocata del reddito e della ricchezza. In realtà, la prima Finanziaria del governo Prodi è il frutto ampiamente inevitabile di una coalizione composita, che si regge sulla capacità di Prodi di tenere insieme tutte le componenti. Sotto questa luce, le critiche sono probabilmente giustificate dal punto di vista economico. Un economista di sinistra come Paolo Leon ha scritto fin dalla presentazione della manovra che essa potrebbe avere un effetto "depressivo". Il che deriva, se non si capisce male, dal fatto che toglierà un certo volume di risorse dal circuito economico. Il giudizio di Paolo Onofri, l'economista bolognese che ha collaborato con i governi della legislatura di centrosinistra (1996- 2001), è più sfaccettato: la Finanziaria sarebbe «un primo timido passo» verso una razionalizzazione della spesa e delle entrate. Ma il significato più profondo di una manovra voluminosa, e che incide nel vivo della redistribuzione (sempre secondo Onofri, «prende complessivamente un po' dalle famiglie e dà, nel complesso di misure dal lato delle entrate e dal lato delle spese, alle imprese»), è ovviamente politico. Alla fine dell'iter parlamentare, se non avverranno incidenti, Prodi sarà riuscito a mantenere compatta una compagine politicamente farraginosa. Stando così le cose, si avvera nella sostanza il disegno progettato a suo tempo da Arturo Parisi, l'«alleanza a perimetro largo», tenuta insieme dalla figura del leader della coalizione. Si capisce in questo senso, o almeno si ricostruisce più precisamente a posteriori, il ruolo giocato da Prodi: ha chiesto al ministro dell'economia Tommaso Padoa-Schioppa di fungere da garante della manovra rispetto alle istituzioni europee, e nel contempo di presidiare senza cedimenti i saldi di bilancio, accettando di caricarsi di una funzione ragionieristica. Assicuratosi il risultato complessivo, il presidente del Consiglio ha guardato con un certo distacco il proliferare delle proposte, degli emendamenti, delle contrattazioni, delle azioni di lobbying e di scambio. Evidentemente ciò che serviva a Prodi era chiudere il cerchio della coalizione, portare a casa il risultato politico. Il bistrattato programma dell'Unione, nella sua ampiezza, ha funzionato da testo guida per sterilizzare i conflitti interni. Nel momento in cui il percorso parlamentare si concluderà positivamente, il premier potrà sostenere di avere conseguito un successo politico indubitabile. Certo, si tratta di un successo interno: che ci siano stati errori di comunicazione, o che l'impatto prevedibile della manovra abbia determinato contraccolpi in termini di gradimento, resta il fatto che secondo diversi sondaggisti «non si è mai assistito a un precipitare del consenso così rapido di un governo in carica». Ma evidentemente Prodi sente di poter mettere nel conto una fase di piano inclinato nella popolarità del governo. Ciò che gli serviva era il controllo completo sull'asse che va da Clemente Mastella all'ala bertinottiana della coalizione. Come gli ha detto Francesco Guccini quando lo ha incontrato nell'aula magna di Santa Lucia a Bologna, «resisti, resisti, resisti». È vero che la Finanziaria ha scontentato tutti, anche coloro che ne trarranno benefici (difatti, la Confindustria di Luca Cordero di Montezemolo esprime un giudizio negativo sulla "filosofia" della manovra, criticata per il prevalere delle entrate, ma incassa silenziosamente il taglio del cuneo fiscale). Ma è anche vero che figura stampato in maiuscolo in tutti i manuali di scienza politica il principio per cui i governi devono sfidare l'impopolarità nella prima fase della legislatura. Dopo verrà il tempo delle riforme, delle modernizzazioni, della rimessa in efficienza. Dopo. Quando si profilerà il partito democratico, quando l'ala riformista dell'Unione potrà impegnarsi per realizzare i propri obiettivi. Quando la nevrosi della legge finanziaria lascerà il campo alla qualità potenziale del governo. Basterà aspettare poco per capire se il caro prezzo pagato dall'Unione le sarà servito ad acquistarsi un futuro. n
L'Espresso, 14/12/2006
Mezzanotte l’ora dei rocker
Qualche volta è necessaria una grande dedizione: ad esempio, l'imperdibile "Tg2 Dossier Storie" dedicato agli albori del rock italiano è andato in onda sabato 2 dicembre a mezzanotte, solita ora dei vampiri. Si sa come sono i programmi di Michele Bovi: documentazioni formidabili, basati su una ricerca d'archivio impressionante, che conduce a trasmissioni a costo basso, ma ricchissime di testimonianze e reperti. Il programma di sabato scorso era dedicato al mezzo secolo del rock italiano, cominciato a Milano con uno storico Festival nel 1957 ed è stato l'occasione per una parata di protagonisti di allora. E non soltanto i soliti Celentano, Jannacci e Gaber, ma soprattutto quei pionieri come Guidone e Ghigo che hanno aperto la strada all'epoca dei "giovani". In studio, insieme a Maria Concetta Mattei c'erano Renzo Arbore e Clem Sacco: impagabile, quest'ultimo, in smoking bianco dotato di magnifico papillon, con fantastica testa di riccioli neri. Ora, non sono in molti a ricordare Clem Sacco, cantante e fantasista nato al Cairo da genitori italiani. Ma bisogna sapere, perché in futuro la sua riscoperta è sicura, che Sacco è stato il vero inventore di un genere, la canzone demenziale, anzi, il rock demenziale. Le sue canzoni erano dedicate alla vena varicosa o all'uovo alla coque, e si capisce perché oggi può essere considerato il precursore degli Skiantos e di Elio e le Storie tese. Se ne riparlerà, perché l'energia di Clem Sacco è un miracolo della natura, e ci sarà quindi sperabilmente occasione di rivederlo sulla scena. Ma il programma di Bovi era divertente perché faceva vedere anche l'aspetto vitaminico e ribelle del rock di fine anni Cinquanta. E bisogna dire che a distanza di tempo i più interessanti sono i rocker dalle carriere fallimentari per ragioni di censura, quelli come il Ghigo di "Coccinella", capace di prestazioni fisiche e vocali strepitose: quelli condannati più o meno al silenzio dal conformismo del tempo, che oggi conducono vite appartate, un po' fuori dalla scena. Gli altri, a cominciare da Celentano, sono usciti dal rock per rifugiarsi nel tepore della melodia all'italiana, segnalando così la verità tendenziale del proverbio misoneista secondo cui si nasce incendiari e si finisce pompieri. Ma si sa che ci vogliono le avanguardie per fare le rivoluzioni, anche se alla fine sono le nomenklature a occupare le posizioni di potere: aridatece Clem Sacco, allora.
L'Espresso, 21/12/2006
Criminali di qualità
Non male l'idea della serie tv "Crimini": otto soggetti di altrettanti autori di fama come Giancarlo De Cataldo, Sandrone Dazieri, Massimo Carlotto, Giorgio Faletti, Carlo Lucarelli, Diego De Silva, Marcello Fois, Andrea Camilleri. La serie si è aperta mercoledì 6 dicembre su Raidue in prima serata con "Troppi equivoci", una storia del venerabile Camilleri sceneggiata da Rocco Mortelliti e Carla Vangelista, regia di Andrea Manni. Aldo Grasso ha sostenuto con insigne perfidia accademica che la fiction è risultata migliore del racconto originario di Camilleri. Applausi a Grasso, anzi, «orejas, ovaciones y música» come ai toreri. A sua volta, il vostro critico (scusino i gentili lettori la terza persona, gli succede di rado) nutre una seria e insuperabile diffidenza verso i film televisivi (ma anche non televisivi) in cui i personaggi parlano con l'accento regionale del luogo di ambientazione. Che volete, siamo fatti così, cittadini del mondo: non appena c'è uno che dice «hai scassato la minchia» o «è megghiu pe ttia» ci viene una crisi d'identità mancante e imploriamo la globalizzazione, l'omologazione totale, un'edizione americana senza sottotitoli di "Csi Miami", oppure una fiction ambientata a Torino dove qualcuno dica "neh" o a Milano con un postino che dica a un caramba «mi hanno ciulato il motorino». Comunque la fiction di Raidue era buona, con personaggi ben disegnati: c'erano i consueti difetti della fiction italiana, in cui gli attori in genere recitano come in una fiction italiana; ma c'era anche Beppe Fiorello, che ormai ha raggiunto una statura di attore di livello superiore. Eh, che tempi: ci fosse un'industria cinematografica come negli anni Cinquanta e Sessanta, l'ex Fiorellino verrebbe fuori come un mattatore; adesso deve accontentarsi di questi ruoli, in cui l'attore Fiorello, alla fine, risulta anche un po' troppo superiore al film, per cui in certi momenti viene voglia di dirgli che si dia una calmata, non c'è bisogno di puntare al capolavoro, non deve stracciare tutti: evitare i peccati di zelo. Comunque vale la pena di aspettare gli altri episodi della serie (che sono stati pubblicati in volume da Einaudi), perché non capita spesso una simile contaminazione di letteratura e intrattenimento, autori e televisione, scrittori e popolo. Se il seguito rispetta le premesse, potrebbe essere la smentita ufficiale che cultura e audience non vanno d'accordo.
L'Espresso, 21/12/2006
SE FISCHIA LA SINISTRA
Ci sono davvero due Italie, un'Italia politica che guarda a se stessa e una società che preme per innovazioni sostanziali? Forse è questo il dilemma del centrosinistra e del governo che esso esprime. A guardare gli atteggiamenti che emergono dalle indagini demoscopiche si ha la sensazione di attese frustrate. Anzi, sul piano dei criteri di fondo, dei principi, dei "valori" emerge un'opinione pubblica "postmaterialista", disponibile ad accelerare sensibilmente il cambiamento: sui temi dei comportamenti diffusi, come la regolazione delle unioni civili, l'eutanasia, il testamento biologico, la società italiana appare davvero pronta a scegliere un cambiamento profondo. A cui tuttavia si affiancano anche spinte sostanzialmente regressive, legate soprattutto al tema della sicurezza. Non è un caso, a questo proposito, che il primo incidente di percorso sia avvenuto con l'indulto. I sondaggisti avevano registrato un calo immediato del consenso verso il governo, fra i tre e i quattro punti di caduta, e non era servito a niente puntualizzare che il dispositivo di clemenza nasceva da una iniziativa parlamentare, approvata con un voto trasversale agli schieramenti. Pollice verso. Quindi non solo due Italie: più probabilmente c'è una miriade di Italie che l'Unione tenta ancora di raccogliere con gli strumenti tradizionali della politica: con compromessi fra Margherita e Ds, cercando di incanalare nel mainstream governativo le pulsioni libertarie, laiche, egualitarie, specialmente quelle della sinistra radicale. Ma la sfasatura ovviamente si manifesta anche sul terreno classico della politica economica, e in particolare sulla legge finanziaria: perché le prime mosse governative, dalla ripresa di iniziativa in politica estera sul Medio Oriente con l'operazione Libano, così come le misure di liberalizzazione del decreto Bersani, erano state accolte con favore (come si vede nel sondaggio pubblicato in queste pagine, il consenso sulle procedure di liberalizzazione è ancora ampio, anche se ha dovuto fronteggiare a fatica la reazione a catena delle categorie); ma la Finanziaria era attesa come il vero banco di prova del governo Prodi e della sua capacità riformatrice. E qui, alla fine di settembre, è successo il mezzo disastro. O il disastro intero. Il sintomo di una specie di incomunicabilità fra il governo di centrosinistra e l'elettorato. Una decina abbondante di punti di caduta nell'indice di gradimento. Mai vista, dicono gli esperti, una discesa così precipitosa. In pochi giorni, Romano Prodi e il suo governo infilavano una china ripidissima, e si ritrovavano in condizioni di impopolarità quasi analoghe a quelle di Silvio Berlusconi nella seconda parte della legislatura di centrodestra, allorché nel giugno 2005 toccò il suo minimo di consenso, con solo il 29 per cento di valutazioni favorevoli. A meno di tre mesi di distanza, la situazione non è migliorata. Sembra anzi che si sia sollevata un'ondata di risentimento verso il governo, che si manifesta ogni volta che se ne presenta l'occasione. I fischi a Guglielmo Epifani a Mirafiori. Le contestazioni al Motorshow contro lo stesso Prodi. La protesta dei ricercatori, ancora a Bologna, all'indirizzo di Pier Luigi Bersani. «I fischi all'indirizzo del segretario della Cgil sono stati largamente amplificati dal circuito dei media», sostiene uno dei migliori conoscitori della Torino industriale, lo storico Giuseppe Berta: «Tuttavia sembra che il sindacato e il governo di centrosinistra non siano in grado di capire che la base operaia, e non solo operaia, vuole certezze, non ipotesi che considera inquietanti. Tanto per dire, gli operai vogliono sapere quando potranno andare in pensione, e che fine farà il loro tfr». In altri termini, annunciare di continuo riforme su argomenti sensibili, lasciando nell'aria un clima di insicurezza, provoca disagio e ansia. Ma basta questo a spiegare il calo del consenso? La contestazione torinese di Epifani rappresenta davvero il segnale che è saltato il legame storico fra ceti popolari, rappresentanza degli interessi "di classe" e governo della sinistra? E più in generale, si può dire che il governo Prodi si trova di fronte a uno smottamento difficilmente colmabile in termini di gradimento pubblico, e cioè al segnale conclamato di una impossibilità di raccogliere consenso sul programma politico che ha varato? A prima vista i dubbi sembrano pochi. Secondo le indagini di Renato Mannheimer, il giudizio favorevole sull'operato dell'esecutivo non supera il 31 per cento del campione intervistato, «uno dei valori più bassi di consenso mai toccati dopo meno di un anno di governo». Come se ciò non bastasse, la diminuzione del gradimento «riguarda in particolare chi possiede titoli di studio più elevati, chi è impegnato in un'attività lavorativa, chi ha dai 35 ai 55 anni, vale a dire i segmenti centrali nella vita socioeconomica del Paese». Si potrebbe aggiungere probabilmente che l'identikit dell'italiano insoddisfatto ha una riscontrabile tendenza a sovrapporsi con una buona approssimazione al profilo dell'elettore di centrosinistra, e specialmente a quei settori di società che si aspettavano freschezza e originalità nelle soluzioni, e creatività nelle riforme. Sono quei ceti che si sono trovati di fronte una legge finanziaria assai voluminosa quanto di ardua decifrazione. Il premier Prodi e il suo ministro dell'economia, Tommaso Padoa-Schioppa, hanno sempre sostenuto che la severità e l'ampiezza della manovra sono funzionali al progetto di unire in una sola fase politica il risanamento dei conti pubblici e il rilancio dell'economia. Progetto condivisibile, se non fosse che i calcoli preventivi del governo non hanno evidentemente intercettato la crescita impetuosa delle entrate tributarie. Sono state quindi vistose le critiche all'impianto stesso della politica fiscale sottesa alla finanziaria. Il sindaco di Bologna Sergio Cofferati ha criticato aspramente e ripetutamente la fisionomia della manovra, soprattutto per la sua incapacità di identificare con ragionevolezza "sociologica" il profilo della ricchezza. Di qui a dire che l'azione del binomio di governo composto da Prodi e Padoa-Schioppa si rivolge a un paese inesistente non c'è che un passo. Certo hanno giocato sfavorevolmente alcuni fattori rilevanti: un risanamento del bilancio statale largamente giostrato sulle entrate, come ha rilevato il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi; una conferma della tendenza alla crescita della spesa pubblica (Tito Boeri); l'incessante mutazione in Parlamento dei provvedimenti parziali, che ha fatto perdere di vista gli obiettivi centrali della manovra; mentre non ha giovato alla popolarità del governo la sensazione che la finanziaria configuri un complesso di misure dal contenuto intrinsecamente "inflazionario", cioè tendente ad aumentare a cascata il peso fiscale sui cittadini (con effetti che saranno da valutare sul piano delle imposte comunali e regionali). Ma il dissenso montante contro il governo sembra condensarsi in gran parte in un clima generale di delusione: sensazione insidiosa, perché agli stati d'animo non si comanda. Alla fine, dal punto di vista essenzialmente politico, Prodi e il centrosinistra si presentano ai cittadini come un'esperienza che abbina in modo politicamente confuso aumento delle tasse e aumento controllato dei diritti. Cioè sacrifici di una qualche entità sul piano del reddito, uniti ad aperture fin troppo moderate sul terreno delle garanzie civili. Sarebbe questa una tipica mediazione di centrosinistra, se non fosse che questi due livelli non sono negoziabili o scambiabili. Sulle coppie di fatto o sulla bioetica la società italiana appare laica, secolarizzata, disponibile a misure in linea con la tendenza civile europea, tanto da apparire sensibilmente più avanzata rispetto ai partiti e indifferente ai compromessi architettati per non scontentare la Cei: in sostanza si aspetta riforme in questo senso, e comunque le considera un elemento fisiologico se non automatico nel cambiamento di mentalità e di comportamenti. Quindi il prezzo pagato in termini fiscali non viene percepito come congruo: non si coglie come modernizzante uno "scambio" alla pari fra diritti civili e redistribuzione forzosa. Ciò significa che il centrosinistra dà l'impressione di non avere molto da dare. L'offerta prudentissima di modernità nei diritti non giustifica nei cittadini l'esigenza di un volume fiscale che permane elevato e in certi casi si innalza. Anzi, di fronte al riaggiustamento dei conti, ogni categoria vede soltanto ciò che sembra danneggiarla e dunque reagisce di conseguenza, contribuendo alla sensazione di disorientamento e confusione. È il «paese impazzito» evocato da Prodi. Oppure, più probabilmente, l'effetto di un'azione farraginosa, che offre a ogni corporazione lo spunto per una protesta. Mentre i principali leader del centrosinistra, a cominciare da Piero Fassino e Massimo D'Alema auspicano o invocano la "fase due", cioè il rilancio dell'azione riformista, la domanda che aleggia sul governo di centrosinistra è una domanda pesante: riuscirà la compagine di Prodi a tornare in sintonia prima di tutto con i suoi sostenitori? Oppure il patrimonio di credibilità si è troppo assottigliato per recuperare credito nell'opinione pubblica? E occorrerà valutare se l'incertezza della maggioranza, visibile con un certo imbarazzo negli "stop and go" sui diritti civili, non costituisca un fardello troppo pesante. Perché questo vorrebbe dire che il governo e l'Unione perdono consenso in quanto hanno scelto la cautela e la mediazione dove l'opinione pubblica si aspettava chiarezza e incisività. Dopo cinque anni di berlusconismo, c'era l'occasione per cambiare rotta. Perdere una simile opportunità può implicare la durata; ma può anche significare smarrire un'anima.
L'Espresso, 29/12/2006
Pallone da cult
Non è che tutti noi siamo passatisti. Tuttavia abbiamo una sana nostalgia verso il tempo in cui le cose erano chiare. Quando "Novantesimo minuto" era "Novantesimo minuto", nella sigla c'era quello che si mangiava le unghie, in un quarto d'ora uno vedeva i gol e si toglieva il pensiero. E dunque c'è da essere grati a Marco Giusti, il quale ha raccolto per Mondadori "Il meglio di 90° minuto", libro e dvd. Il libro è una fonte preziosa, dove si possono ritrovare le battute di Ferruccio Gard, l'uomo che Paolo Ziliani paragonava a Nosferatu: «La squadra capitolina ha evitato di capitolare»; oppure i refusi di Giorgio Bubba: «Questa rovesciata di Vialli è potentissima, sembra un bomba al Nepal». Come ricorda Giusti, "Novantesimo minuto" comincia il 27 settembre 1970 alle 18, su Raiuno. Ideato e curato da Maurizio Barendson, Paolo Valenti e Remo Pascucci. Destinato a diventare un frammento del costume nazionale. Perché nel contenitore di quel programmino si rivelò l'essenza della tv, il suo essere teatro dei folli, vascello dei matti, enclave della demenza formalizzata in personaggi, maschere e freaks. Basta vedere scorrere le figure di Giorgio Bubba e di Tonino Carino, del riportato Franco Strippoli e di Luigi Necco, di "Gianduiotto" Cesare Castellotti, del belloccio Giampero Galeazzi e di Gianni Vasino, per capire che la televisione del futuro è nata in quel passato calcistico, dove i sunnominati hanno inventato un genere, ma soprattutto hanno spiegato che in tv, per apparire, ci vuole la dismisura, per "bucare" occorre un quid di mostruosità. L'unico apparentemente normale, in quella domenicale commedia dell'arte, era proprio il conduttore principale, Paolo Valenti, stile e dignità stranianti: «Una vera e propria papera non direi che mi sia capitata in tanti anni di carriera. Tuttavia debbo ricordare la mia prima radiocronaca, mentre ancora frequentavo il corso. Era una corsa di bighe allo stadio dei Marmi. Feci una radiocronaca drammatica che venne giudicata bellissima. Senonché commisi questa piccola omissione: dimenticai completamente di dire chi avesse vinto. Vittorio Veltroni mi accolse così: «Stupendo, la cronaca mi ha trascinato. Ma scusami, mi puoi dire adesso chi ha vinto?». A vedere quanto erano giovani e bravi Necco e Carino, Marcello Giannini da Firenze e Piero Pasini da Bologna, non si capisce perché alla fine la Rai capitolina ha dovuto capitolare.
L'Espresso, 29/12/2006
60 mila volte Treccani
C'è sempre un fascino particolare nelle opere che raccolgono storie di vita: ma nel caso dell'"Enciclopedia biografica universale" che "L'espresso" e "la Repubblica" mandano in edicola a partire dal 27 dicembre la suggestione aumenta se si pensa alle caratteristiche dell'iniziativa. Perché si tratta di un'opera inedita, realizzata in esclusiva per il Gruppo editoriale L'Espresso dalla Biblioteca Treccani, il più prestigioso istituto enciclopedico italiano: 20 volumi di 720 pagine l'uno, che saranno distribuiti con i due giornali (il primo volume è in regalo, il prezzo dei successivi è di 14,90 euro), e che comprendono 60 mila voci biografiche, storie di figure illustri che si sono distinte nella storia, le scienze, l'arte, la politica, il costume, l'economia; a cui si aggiungono 300 grandi biografie redatte da firme illustri, a partire dai primi del Novecento, tratte dalla Grande Enciclopedia Treccani, e 3 mila immagini. Un insieme di vite, dunque. Una folla impressionante. Una rassegna, ma anche un panorama straordinario, prima ancora che uno strumento di studio, di verifica e di approfondimento. Come scrive nella presentazione dell'opera il presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana, Francesco Paolo Casavola, l'Enciclopedia biografica universale «ci aiuta a vedere nel passato non informi rovine, ma costruzioni umane, e sui loro modelli migliori può essere concepito il nostro futuro». D'altra parte, per comprendere il significato di un repertorio vasto come questo, dobbiamo anche pensare che molto è cambiato negli ultimi due decenni sul modo in cui si guarda alla storia e all'agire umano. Fino all'altro ieri infatti si tendeva a interpretare il mondo sulla scorta dei pensieri forti, le grandi narrazioni politiche, le cosiddette ideologie, ossia complessi di idee, criteri, valori che travalicavano l'individuo e la sua vicenda materiale. Esistevano, certo, le persone, uomini e donne, ma andavano iscritte dentro una visione complessiva. C'era l'abitudine a considerare il singolo come una manifestazione di un sistema. E vigeva anche il dogma secondo cui la vita andava separata nettamente dalle opere. Oggi invece possiamo di nuovo farci affascinare dalle esistenze singole. Cercare di spiegarci una scoperta scientifica o un'opera letteraria anche, se non soprattutto, a partire dalla storia umana di un protagonista. Per dire, se prendiamo la parabola di Albert Einstein, possiamo limitarci alle scarne formulazioni con cui di solito si accenna alla teoria della relatività "ristretta" e alla relatività "generale"? Agli occhi di un lettore contemporaneo, Einstein non è soltanto lo scienziato che ha rivoluzionato il modo di concepire lo spazio e il tempo: è stato anche l'intellettuale provocatore, il pacifista, il cosmopolita; è stato un'icona beffarda, che rappresenta un "esserci", non un ritrarsi dal mondo e dalla società. Niente torri eburnee. Dietro una figura come quella di Einstein, e al suo fianco, in un reticolo di rimandi virtualmente infinito, non ci sono esclusivamente le equazioni e le teorie che disegnano un universo differente da come era sempre stato pensato. Non c'è soltanto l'universo quantico e il principio di indeterminazione, quanto piuttosto il «Dio non gioca a dadi» con cui Einstein tentò di obiettare all'intuizione di Heisenberg. Ma soprattutto, nella traiettoria intellettuale di un genio, è compreso il riflesso della sua concezione sui contemporanei, in settori e sfere intellettuali diverse. Così come la sintesi di Freud condusse l'arte a cercare profondità sconosciute, anche l'universo di Einstein fece esplodere, per "simpatia", come una deflagrazione implicita, le arti e le tecniche narrative del secolo scorso. Proust, Musil, Kafka, Joyce, le grandi avanguardie degli anni Venti e Trenta del Novecento, appaiono allora il frutto implicito di uno sguardo inedito sul mondo delle cose. E non c'è soltanto questo aspetto: chi oggi volesse ripercorrere la vicenda letteraria di James Joyce, per citare uno dei grandi innovatori della narrazione, o dell'antinarrazione, potrebbe ricorrere a studi sofisticati, in chiave linguistica, stilistica e psicologica; ma oggi che cosa ci importa di più, la tecnica dell'"Ulisse", il "flusso di coscienza", le sue invenzioni distruttive rispetto alla classicità del romanzo, o la vita di Joyce, la sua storia di irlandese, di triestino, di scrittore europeo? O la vicenda del suo matrimonio appassionato e complice? In modo analogo si comincia a guardare diversamente anche alla politica. Anziché alle tendenze fondamentali e alle "famiglie politiche", dal socialismo al liberalismo, risulta sempre più rivelatore osservare la biografia di Karl Marx, o l'avventura rivoluzionaria totale di Lenin. Per venire ai giorni nostri, ci sono alcune vite che illuminano un'epoca, o la fase di un cambio di scenario. Parlare in astratto del peronismo significa descrivere una esperienza politica di populismo sudamericano in una singolare miscela di autoritarismo e gestione pansindacale; ma leggere la vita di Evita Perón equivale a osservare un'esperienza in cui una figura di donna si trasforma in simulacro della politica, in immagine quasi sacra (e infatti trasferita nel culto con il musical e il film di un'altra immagine pagana e sacra, la santa e perversa Madonna). A ripercorrere il XX secolo, chi meglio di John Fitzgerald Kennedy impersona le aspettative di cambiamento dei primi anni Sessanta, nell'età di Krusciov e di papa Giovanni? Ciò che rimane oggi, a parte il tema dell'integrazione razziale, è la scena di un'America impaziente che trova il suo presidente giovane, irlandese, cattolico, bello, con la moglie affascinante e stilizzatissima, e sullo sfondo il legame leggendario con donne bellissime come Angie Dickinson, Marlene Dietrich, e naturalmente Marilyn Monroe, la bionda mozzafiato di "A qualcuno piace caldo", la commedia inimitabile del "viennese" Billy Wilder. Difatti, anche della Monroe, che cosa rimane? I film, certamente, perché gli uomini preferiscono le bionde. Ma sono film che adesso guardiamo alla luce della fine tragica dell'attrice; una persona di cui, a saper guardare e leggere le testimonianze in proposito, non resta semplicemente la bellezza d'epoca, bensì l'intelligenza e la dedizione politica («Io sono un soldato del presidente, perché quest'uomo sta cambiando il mondo»). Per certi aspetti, giudicare la storia attraverso le idee, o le ideologie, equivale a interpretare una partita di calcio recensendo i moduli tattici e gli schemi di gioco. Mentre risulta sicuramente più suggestivo ripercorrere i momenti magici dei grandi campioni. Gianni Brera, che fu un grandissimo scrittore, oltre che un critico sopraffino non solo calcistico, dedicò un libretto (pubblicato da Longanesi) alla figura di Helenio Herrera: in cui il "Mago" diventava protagonista sul campo e fuori dal campo. E in cui la sua personalità spiegava quel calcio di più e meglio che non l'illustrazione degli accorgimenti tecnici in campo. Lo schema della prevalenza della vita sulle opere sembrava una forzatura o un equivoco, all'epoca della correttezza politica. Ma in quest'ultima fase è diventato addirittura lampante: basta pensare alla figura e all'effetto mondiale di una personalità come quella di Karol Wojtyla. Allo spettacolo della sua vita e alla spettacolarizzazione della sua morte. Una parabola in cui la presenza viva del papa, la sua stessa forza e fragilità fisica è diventata uno strumento di affermazione della chiesa cattolica, un segno della sua potenza simbolica e reale. Dopo essere usciti dal solco dell'ideologia, naturalmente si viaggia a tentoni. Non ci sono bussole, non ci sono sestanti politici. Ciascuno di noi deve andare alla ricerca di un tragitto possibile, di pensiero e di vita, affidandosi alla propria capacità e alla propria sensibilità: sessantamila vite sono un patrimonio impressionante, per provare a capire, quando occorre, ciò che è vivo nella nostra cultura, nel mondo di oggi, e ciò che invece si è inabissato. D'altronde, ogni esistenza è un mistero: ritrovare le tracce di questo mistero è un modo possibile per non perdersi nella folla del mondo contemporaneo. n
L'Espresso, 06/01/2005
Prendi il satellite e scappa
Zapping, zapping, zapping. Ma con l'etere, il satellite, il digitale terrestre, e senza dimenticare le opportunità della banda larga, lo zapping potrebbe diventare una semplice ginnastica manuale, una diteggiatura fine a se stessa, come un massaggino shiatzu. Ottimo. Così la televisione si relativizza, si ridimensiona alla condizione naturale di elettrodomestico. Nessuno ormai chiede «che cosa c'è per televisione stasera?». Si accende la tv ed è "lei" che ci guarda, che fruga nei salotti e nei tinelli che ingoia la nostra privacy. Il rovesciamento è abbastanza straordinario. Tutto questo mentre il trentottesimo Rapporto Censis dice che il 42 per cento del pubblico, se si accorge che la serata televisiva butta male, semplicemente spegne l'apparecchio, e si dedica ad altro. Magari dorme, ma rifiuta di farsi scrutare dalla tv, di farsi indagare dall'occhio indagatore del Grande Fratello. Già, sono i partecipanti all'Isola dei Famosi, sono i protagonisti del Gf, sono i "reality heroes" che invadono le nostre case e ci mettono sotto osservazione. Noi crediamo di osservare una discussione cazzona, lo psicologismo demenziale delle conversazioni fra il tatuato e la bonona, fra il modello basco e il presunto quasi-gay israeliano, e invece sono loro che ci hanno invaso e ci controllano. L'Auditel parla di noi, non di loro. E il pollice sul tasto del telecomando è un antidoto solo parziale. Chi ha capito tutto è ancora una volta il mago delle televisioni, ossia il docente di comunicazione totale Silvio Berlusconi: quello che ancora una volta, alla presentazione dell'ultimo libro di Bruno Vespa, ha ripetuto che il pubblico «che ci guarda» non è proprio quel che si dice qualificato, anzi, cultura da «seconda media, neanche nei primi banchi». Con il che, viene da chiedersi come facciano, questi di seconda media, ad accettare di essere trattati come merdine, pura massa amorfa, che si lascia guidare dal pifferaio di Hamelin con il suo sorriso perenne, forse indice della soddisfazione infinita di togliere soldi ai poveri per darli ai ricchi, a quelli delle medie per darli a quelli del liceo. Eh sì, finora ha funzionato, il grande scambio. Platee immense inebetite dagli show televisivi Mediaset, «implose nella privacy», secondo la definizione del filosofo Carlo Galli, e successivamente disponibili a votare in massa, qualcuno anche con entusiasmo, l'euforia degli abissi, per il Grande seduttore. Zap, zap. Ragazzi, ci siamo cascati tutti. Siamo cascati nella trappola Lecciso, nella trappola trash, nella trappola "cult", pronuncia "cùlt", all'italiana, secondo la lezione di Marco Giusti. Ormai dovrebbe essere chiaro il fatto che il trash è una faccenda da intellettuali, tutti orgogliosi di avere la bacchetta magica per trasformare il kitsch in "camp" e il "rubbish" in trash. Ma pattume era e resta immondizia, e viceversa. Senza sottolineare che c'è una sottile vena reazionaria, nella teorizzazione del trash, riconoscibile dal fatto che si può indurre il popolo a trangugiare qualsiasi schifezza, e anzi lo si incoraggia nei suoi gusti da seconda media o da quinta elementare, con la soddisfazione di avere imposto un trend (e loro, poveri diavoli, magari ci credono, eccome se ci credono: e le povere diavole difatti si vestono da coatte della moda, con le pance di fuori, i rotoli di ciccia sull'orlo dei jeans, la mutanda in vista, già logora per un paio di lavaggi di troppo). Ma no, no. Dopo un po' il trash stufa. Stufano anche i brutti sporchi e cattivi dovunque siano raccolti, nell'isola o nella vecchia fattoria. Stufano le soap storiche incredibili tipo Rivombrosa. Vogliamo il glamour, chiedono gli happy few, al momento tristissimi per la verità, dateci la cultura, il "never complain never explain" ripetuto da Arbasino, le prose complicate, gli spettacoli esclusivi, i libri difficili, al diavolo "Il codice Da Vinci", "Angeli e demoni" e tutta la produzione di Dan Brown. E quando si presenteranno Dolce e Gabbana a spiegarci che la loro pubblicità scorreggiona, o scorreggina, non deve scandalizzare perché il petomani c'erano anche nelle corti dell'ancien régime, gli si spiegherà che appunto si è fatta la Rivoluzione francese proprio per non sentire più i peti dell'aristocrazia, e si sono tagliate le teste perché non se ne poteva più di pidocchi e parrucche. Chiaro? (E poi, com'è che siamo tutti intelligenti, quando si parla del trash, quasi che si fosse creato un nuovo ceto, la "smart class", di cui tutti si sentono membri: ma dai, anche fra di noi, anche fra di voi ci sono gli idioti!). Se no, uno si lascia trascinare dall'inerzia, e passa un sabato sera in compagnia di Giorgio Panariello, e assiste a un mega-show privo di qualità, privo di sceneggiatura, di script, di storia, di redazione, con gli ospiti Aldo, Giovanni e Giacomo che sono venuti a presentare il loro ultimo film e che non hanno preparato niente, neanche una gag piccolina, uno scherzo, uno skeccettino, niente. Tanto è la tv. Perché fare il minimo sforzo? Tanto è il pubblico della tv, ragazzi, seconda media, ultimi banchi. Pensionate meridionali ultrasessantacinquenni e di bassa scolarità, recitano le categorie del marketing, con il realismo brutale con cui si identificano i target. Non vale la pena di investire talento, non serve a niente. D'altronde, che cosa si cerca nel tubo catodico o nello schermo al plasma? Informazione? Lotta fra titani, fra Charlie Rossella e Clemente Mimun, con ciprie e nuvole rosa, gossip e boatos sulla nuda cronaca, e un acquiescenza politica senza troppa dedizione: ma non c'interesserà mica il contenuto dei tg, vero? Ci importa soltanto del duello eventuale fra i due direttori, se si odiano, se si amano, se sono e restano amici, ancorché magari «di merda» secondo la notevole espressione di Michela Rocco di Torrepadula portavoce del ripudiato Mentana. E se Rossella farà il sorpasso, e se Mimun, nel caso, si farà venire l'esaurimento. L'approfondimento? Volete l'approfondimento? Ma non vi basta "Porta a Porta"? Non vi basta "Ballarò"? Ne volete dell'altro? Innanzitutto bisognerebbe sapere se l'esuberante professor Brunetta è un agente dell'approfondimento e se approfondire significa urlare in venessiàn sulla voce degli altri (in questo caso, Brunetta è approfondito e approfonditore). Zap. Per chi proprio vuole, ci sono le due isole serie, "L'infedele" e "Otto e mezzo". Che hanno dati d'ascolto risibili, intorno al 2 per cento, sul piano generale, ma siccome ciascuno di noi vive in comunità molto intellettuali, devono avere picchi altissimi di ascolto in alcuni settori specifici, intorno all'80 per cento di share fra i professori universitari. In realtà, anche Giuliano Ferrara e Gad Lerner sono soggetti alla legge dello zapping: qualcuno li incrocia sempre, scanalando e si sofferma qualche istante. Ma poi anche i professori universitari riprendono l'esercitazione con il pollice sui tasti, e addio cari, adieu. Non fa neanche male, lo zapping esasperato, lo scanalamento estremo, perché insegna che la vita televisiva è effettivamente blob, spezzettamento della realtà e della virtualità in frammenti montati in modo talmente casuale da sembrare necessario. Alla fine, comunque, qualcosa resterà da vedere, su Raisat, su Cult Network, su qualche canalino semiclandestino. Vedremo "Lo sciagurato Egidio" di Giorgio Porrà, vedremo David Letterman di tanto in tanto, vedremo qualche mezzo film, qualche mezza partita di calcio. E ci renderemo conto, grazie al cielo, che il problema del controllo televisivo è tutto una questione di pluralismo e di mercato: cioè bisognerebbe convincere le pensionate a mettere su parabole e decoder, i condomini a centralizzare il padellone, cablare tutto, e poi sia quel che sia. Sapendo già che inserito nel vortice di uno zapping infinito, Berlusconi si riduce a comparsa mediatica. Si può puntare cinicamente il telecomando all'altezza di Silvio, schiacciare il tasto, e premere ancora, freddamente, con ferocia, impedendogli di guardarci in casa e di criticare la nostra preparazione culturale: finché di quell'uomo non rimarrà che una traccia leggerissima o comunque leggera, mentre si fa tarda la sera.
L'Espresso, 06/01/2005
Il leader è nudo
Dentro una crisi nera, nel cuore di una notte fonda, i membri del club prodiano si fanno forza a vicenda. Hanno capito, forse tardi, che la partita è molto impegnativa, coinvolge poteri più o meno forti che pianificano scenari o intercettano opportunità estemporanee. Sullo sfondo della défaillance del centro-sinistra, dopo il fallimento della lista unitaria alle regionali, ci sono spinte che possono alterare il formato stesso della competizione bipolare. Il re è nudo. L'uomo senza vestiti è Romano Prodi. Era tornato da Bruxelles accompagnato da una scia di consenso. Convinto di poter modellare il centro-sinistra come un'alleanza larga, in cui la presenza dei partiti fosse un elemento supplementare, non il fattore fondativo. Qualcosa sta andando storto. Questa crisi viene da lontano. Appartiene alla storia di forze politiche stravolte dalla grande tragedia antipolitica degli anni Novanta. Nell'emergenza, molti avevano pensato che il progetto ulivista potesse surrogare il ruolo dei partiti, sostituendo con la progettualità riformatrice culture politiche che erano state triturate da Tangentopoli. Non era o, meglio, non è così. A dispetto della post-politica, la crisi del centro-sinistra è una crisi politicamente profondissima. Prodi si presenta come una personalità e un principio di sintesi che tiene insieme centro e sinistra, ossia una cultura riformista non socialista e il gradualismo postcomunista. Ma non appena sono riemerse le identità, sono riapparse anche le pregiudiziali. Secondo l'entourage prodiano, Rutelli e Fassino costituiscono una morsa micidiale, l'uno che coltiva la Margherita come soggetto distintivo, l'altro che intende attribuire ai soli Ds lo slogan "l'Ulivo siamo noi". Singolare parola, pregiudiziali. Figlia di un lessico da prima Repubblica. Tuttavia chi dimentica il passato è condannato a replicare in commediola ciò che fu dato in tragedia. E oggi, dietro il modesto cabotaggio delle candidature, fa sentire il suo effetto la "radiazione fossile" della discriminante anticomunista. Prodi (con i suoi consiglieri, a cominciare da Arturo Parisi) è convinto che le divisioni del passato possono essere superate soltanto attraverso una mobilitazione collettiva dell'elettorato e dell'opinione pubblica. Ma non appena i naturali egoismi di partito riemergono, affiorano anche le incompatibilità del passato, le antipatie culturali, le idiosincrasie. Immaginare oggi un percorso che porti alle elezioni politiche del 2006 attraverso una mediazione continua, una trattativa perdurante, un negoziato estenuante equivarrebbe ad accettare l'idea di una sconfitta per forza d'inerzia. Tocca a Prodi trovare la via d'uscita. Tocca a lui dimostrare la qualità di una leader?ship. Che, proprio in quanto non è una investitura celeste, deve misurarsi anche con le miserie dei corridoi politici. Ci vuole l'umiltà di riconoscere ruolo e sostanza delle strutture di partito. Occorre il realismo necessario per accettare che gli spezzoni di classe politica facciano sentire il loro peso. Ma è urgente anche la definizione di un sentiero che porti l'intera coalizione a un confronto competitivo con la Casa delle libertà. In questo senso, c'è una sola strada per il Professore. Drammatizzare. Accettare il fatto sacrilego che la sua leadership sia a rischio. Approfondire il conflitto, scegliendo il terreno dove il conflitto va praticato. Eventualmente giocare la carta brutale del "partito di Prodi". E con questo cambia tutto. Non c'è una discesa comoda, una stradicciola senza ostacoli che conduce alla vittoria elettorale agevolata dalla cattiva prestazione del governo Berlusconi. La risorsa essenziale di Prodi è che nessuno può permettersi di sostituirlo? Benissimo: e allora tanto vale mettere a frutto la crisi. Rilanciare. Da una parte c'è un centro-sinistra invischiato nelle trappole che si crea da solo; dall'altra un progetto di medio periodo che accetta la crisi per superarla. Non sono tempi normali. Se la leadership ulivista non riesce a cogliere l'aspra opportunità di questa crisi, avremo un Ulivo normale, amorfo, ameboide. Cioè inutile. Tanto vale provare a essere vivi.
L'Espresso, 13/01/2005
Si è pentito l’antifazista
Ma insomma, sdoganatelo. Non potete lasciarlo tutta la vita a "Che tempo che fa", a produrre i suoi piccoli prodigi metatelevisivi. Forse si gode la ricca liquidazione, forse gli piacerà fare la tv di nicchia, forse si sentirà meno stressato senza l'obbligo di misurarsi nevroticamente l'indice con gli altri, forse forse forse. Eppure l'ora è giunta da un pezzo. Liberate Fabio Fazio, ridategli il prime time, un megashow, qualsiasi cosa. E lo diciamo anche a lui: torna, caro Fabio, tutto è dimenticato, tutto è perdonato, su tutto è steso un velo. Dato che saremmo disposti anche a sopportare il ritorno di Claudio Baglioni in versione metallizzata e aliena, e il suo eventuale remix di "Anima mia", vale la pena di specificare perché tutti coloro che pure erano stati scettici sugli ultimi anni di SuperFazio si sono amaramente pentiti e si cospargono il capo di cenere. Tutti quanti: chi aveva fondato un partito "antifazista", chi si proclamava antifazioso, chi aveva cominciato a detestare il fazismo, ossia l'atteggiarsi complice, la citazione ammiccante, il culto del "garbage" anni Ottanta (che era un po' meno del trash, e un po' a lato), lo sdilinquimento per i Cugini di campagna. Anche chi rimpiangeva addirittura i tempi del Fazio cabarettista e comico, dell'imitatore che rifaceva un incazzatissimo Cossiga in pieno trip giuridico, «Ma lei l'ha dato diritto costituzionale uno?». Si sono pentiti del peccato antifazista semplicemente perché magari accendono la televisione e vedono il fortissimo investimento di Raiuno sul reality show "Il Ristorante", con Antonella Clerici, quella che non può vivere senza il calcio, passata dal mezzogiorno di cuoco alla prima serata svippata e mangereccia. E si chiedono dove sia il fortissimo investimento, magari rispondendosi che consisterà nella cravatta shocking di Luca Giurato e nella cravatta gemella di Fabrizio Del Noce, ospite della prima puntata. E uno si dice: sarà questo il servizio pubblico. Cioè Giucas Casella, Pamela Prati, Edoardo Vianello. Per poi virare fuori dal moralismo: se spettacolo dev'essere, che spettacolo sia, ma come Dio comanda. Abbiamo visto brutture di ogni tipo, e adesso ci è venuta voglia di parlare ancora male di Fazio. Ridatecelo. Ne parleremo subito orribilmente. Lo criticheremo aspramente. Se ci va lo stroncheremo. Ma rimettetelo all'onore dell'audience, per favore. Perché in fondo ci siamo stufati di dire male di Panariello.
L'Espresso, 13/01/2005
La politica del cavalletto
Cibo, medicine, tende. Ma anche ospedali da campo, potabilizzatori, aerei e orfanotrofi da realizzare sul posto. Le prime a muoversi sono state le organizzazioni non governative (Ong) forti di una presenza consolidata nell'area devastata dal maremoto di Natale. Mentre la raccolta dei fondi sta coinvolgendo tutto il Paese, dai consigli comunali alle banche, dalle squadre di calcio ai sindacati e alle imprese, anche il governo sta facendo la sua parte attraverso i suoi tradizionali strumenti operativi per le emergenze umanitarie: Protezione civile e Croce rossa italiana. Insomma, l'Italia della solidarietà si è mobilitata per soccorrere le popolazioni del Sud- est asiatico. Ecco un quadro dei soggetti in campo e delle loro prime iniziative. Governo Il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Gianfranco Fini rivendica l'attivismo dell'esecutivo: «Ci siamo mossi con grande tempestività, dando risposte concrete ai bisogni immediati delle popolazioni colpite». Alla Farnesina si lavora per portare soccorsi, ma soprattutto per coordinare le offerte di aiuto, finanziario, ma non solo, che arrivano da tutto il Paese. C'è l'unità di crisi che lavora per aiutare i connazionali ancora presenti nell'area e per tenere la contabilità delle perdite umane. Ma c'è soprattutto il Comitato di coordinamento nazionale per gli aiuti che cerca di mettere a punto le iniziative più adeguate ed evitare sovrapposizioni e sprechi. Ne fanno parte i rappresentanti delle regioni, delle province e dei comuni, dei sindacati, delle università, delle Ong e delle tante sigle impegnate nel volontariato. Aiuti immediati il ministero degli Esteri li ha già portati appena 24 ore dopo il maremoto: due aerei decollati dall'Italia alla volta dello Sri Lanka, per esempio, con un carico di 80 tonnellate di materiali di pronto soccorso. Ma il grosso deve ancora partire. Si tratta di attrezzature e medicinali destinati alla prevenzione di epidemie, compresi i depuratori per l'acqua. E personale medico. Protezione civile È l'organismo governativo che si è mosso per primo. Attraverso l'istituzione di una cabina di regia in grado di gestire le operazioni di soccorso. Ne fanno parte rappresentanti di Enac, Alitalia e Forze armate. Poi, con l'invio di aiuti concreti: tre team composti da specialisti dell'emergenza e medici spediti in Sri Lanka a Colombo e in Thailandia; due idrovolanti Canadair, partiti da Roma l'ultimo dell'anno. E ancora: 150 tende a Colombo per oltre 1.500 persone; 10 mila chili di farmaci e attrezzature mediche per arginare il rischio epidemie; sei tende sanitarie per la predisposizione di altrettanti posti medici avanzati; tre gruppi elettrogeni. Croce rossa Gli aiuti sinora portati sotto la sua bandiera sono opera essenzialmente della Federazione Internazionale, che ha lanciato un appello per raccogliere oltre 53 milioni di dollari, destinati a finanziare soccorsi a circa 2 milioni di persone su un arco di 6-8 mesi. È stato anche inviato in Sri Lanka materiale sanitario per 120 mila persone e team di specialisti per allestire 66 campi. Quanto alla Croce Rossa Italiana, due ore dopo la catastrofe, ha messo sul tavolo 300 mila euro per i soccorsi immediati. Poi ha avviato una raccolta straordinaria di fondi mobilitando tutti i suoi volontari. Lanciato anche un "Programma di igiene nei gruppi familiari" grazie al quale, ogni mese, saranno distribuiti in Indonesia e Sri Lanka oltre 40 mila pacchi contenenti saponi e shampoo. Infine, il fronte medico-ospedaliero: il commissario straordinario Maurizio Scelli programma l'allestimento di due campi medici con potabilizzatori delle acque (speso un milione di dollari) in zone ancora da individuare. Ong e privati Sono 23 le organizzazioni non governative italiane che stanno prestando assistenza in loco. Secondo gli ultimi dati forniti dall'Associazione delle Ong italiane, in India operano 13 organismi; in Sri Lanka 12; in Indonesia tre; in Myanmar due e uno in Thailandia. Presenti tutte le sigle storiche come Caritas, Cesvi, Mani Tese, Movimondo, Alisei, Coopi, Intersos e Focsiv. Il grosso degl'interventi s'indirizza verso l'assistenza nei campi degli sfollati, il supporto idrico-sanitario e la cura dei minori. Ma i progetti già operativi spaziano dalla ricostruzione dei villaggi alla riabilitazione, dai sostegni agricoli alla scolarizzazione. Come spiega Giangi Milesi, direttore della raccolta fondi del Cesvi, «non serve mandare roba a casaccio, tipo vestiti o generi alimentari, perché a quelli pensa già abbastanza bene la rete di solidarietà locale, anche se in Europa se ne parla poco». Molto più importante l'impegno su fronti più tecnologici, come i dispositivi per rendere l'acqua potabile. Anche Sergio Marelli, presidente delle Ong italiane, invita gli italiani a guardare più nel proprio portafogli che in soffitte e cantine, e sconsiglia inutili partenze di volontari. «In quelle zone c'è troppa confusione e noi stessi preferiamo affidarci ai partner locali», racconta Marelli. Non a caso, nelle zone colpite dalla catastrofe sono presenti solo una trentina di italiani e gran parte del lavoro è svolto con personale del posto. Tantissime anche le iniziative dal mondo economico e finanziario. Solo per fare qualche esempio, Sma e Auchan hanno offerto viveri alle principali Ong. San Paolo-Imi ha stanziato 250 mila euro, mentre Unicredito ha avviato una raccolta di fondi che il 4 gennaio aveva toccato il milione di euro. Ma la lista delle iniziative benefiche è sterminata, si va dalla Lega delle cooperative ai commercianti, fino ai calciatori dilettanti, la cui Lega si è impegnata a raccogliere 500 mila euro tra i tesserati. Finanziamenti Come verranno finanziate tutte le attività di soccorso "made in Italy"? Per quanto riguarda gli aiuti governativi, a parte i 4 milioni di euro spesi subito per inviare i primi aiuti, la voce più sostanziosa è poco più che una partita di giro. La Farnesina pensa di attingere alla voce dei debiti con l'Italia contratti da alcuni paesi dell'area colpita, ovvero 9,4 milioni di dollari per lo Sri Lanka e altri 30 milioni per l'Indonesia. Per arrivare ai 70 milioni di euro preannunciati da Fini si punta soprattutto sulle donazioni che arrivano via sms dai cittadini (22 milioni di euro al 4 gennaio). E proprio sulla gestione di questa montagna di offerte è scoppiata la bagarre tra Croce rossa e Protezione civile. Dopo 48 ore di polemiche, è dovuto intervenire lo stesso vicepremier per affidarli ufficialmente agli uomini di Bertolaso. Sul fronte privato, invece, basta navigare su internet. Tutte le Ong hanno siti facilmente accessibili (un sistema è accedervi da "www.vita.it", il portale dell'omonimo settimanale del Terzo settore), dove si illustrano i singoli progetti e le modalità di donazione. Nei primi dieci giorni, la raccolta ha già fruttato diversi milioni di euro. Cifre precise sono ancora impossibili da ottenere, ma per farsi un'idea del ritmo delle donazioni basta prendere il caso del Cesvi che in una settimana ha raccolto oltre 110 mila euro dalle carte di credito. Se si tiene presente che di solito attraverso questo strumento arriva appena un decimo delle offerte complessive (il grosso arriva per posta), si può intuire quanto il ritmo delle donazioni sia impetuoso. n
L'Espresso, 20/01/2005
Neorealismo hardcore
Se vi piace la tv del conforto, non guardate la televisione di Riccardo Iacona. Uno della squadra di Michele Santoro. Marxista-leninista, o giù di lì. Un tipo che un paio di stagioni fa ha realizzato un programma effettivamente della madonna sugli sfigati-guardoni che vanno a vedere vip e semi-vip, star e starlette, parassiti e squinzie a Poltu Quatu e a Porto Cervo, sperando di incrociare Briatore o almeno Smaila e Alessia Merz. Programma "epocale", come amano dire gli sfigati di oggi. Adesso il marx-leninista ne ha combinato un altro, di programmi, dal titolo sarcastico "W il mercato" (è andato in onda il 3 gennaio in prima serata su Raitre). Reportage durissimo, hardcore giornalistico, roba da stare male e da rovinare psicologicamente l'anno appena incominciato. Storia di un pomodorino seguito nel suo percorso di ricarichi, a partire dal prezzo irrisorio alla produzione fino allo squillante prezzo finale. I coltivatori del Ragusano strozzinati dai ras, quelli che "fanno" il mercato, che minaccianno di delocalizzare gli acquisti nel Maghreb. Chi ha del mercato un'idea accademica, quella che insegnano all'università, sarà rimasto infastidito dalle urla e dalla disperazione delle donne siciliane, o dalla rabbia urlata e rassegnata degli "imprenditori agricoli" proletarizzati. Certo, la radicalità di Iacona nasce da un'idea secondo cui il mercato capitalistico è una fonte di ingiustizia. Una concezione deliberatamente vetero, tanto da risultare oggi anticonformista. Eppure nel programma la linea dell'ideologia arretra di fronte alla persistenza ostinata dei fatti. Su "la Repubblica", Sebastiano Messina ha definito un «affascinante racconto neorealista» l'inchiesta di Raitre. Ottima definizione, se si aggiunge che quel fascino deriva dal rilievo dato all'asprezza dell'economia, all'individuazione della violenza nei rapporti "di classe". Sullo sfondo, un'altra faccia dello squilibrio sociale, i milanesi impoveriti che vanno al mercato dell'ortofrutta a comprare cassette invendute a un euro, 18 chili di arance per due soldi. «Che me ne faccio di 18 chili?», si chiede un acquirente, con l'aria di ricordarsi dell'elefante comprato nel suk perché era in offerta speciale. Irrazionalità del mercato, razionalità della televisione pubblica. Buoni ascolti, per questa tv indigeribile, cattiva, "brutta". Televisione d'altri tempi, possibile tv dei tempi nuovi.
L'Espresso, 20/01/2005
Top Banana reality show
Per entrare con le carte in regola nel nuovo romanzo di Mauro Covacich, "Fiona", che esce in questi giorni da Einaudi, non si deve avere la cultura di un critico letterario. Anzi, forse un esercizio critico convenzionale sul libro di questo italiano di frontiera, che fa muovere anche i suoi personaggi nel suo territorio, fra Pordenone e Trieste, risulterebbe deludente. Con questo libro, Covacich continua i suoi esperimenti letterari e soprattutto "etologici": dove l'etologia costituisce lo strumento per seguire le sue maschere, per definirle, per tracciarne i movimenti. Ci sono almeno quattro storie maggiori, oltre ad alcune minori, dentro la trama di "Fiona". Sempre ammesso che di storie si tratti, e non piuttosto di strutture, e di fenomenologie. C'è la vicenda di Sandro, alias Top Banana, produttore di reality show, il deus ex machina di una specie di "Grande Fratello" ribattezzato "Habitat", che con i suoi autori-freak lascia scorrere nella Casa un esperimento di convivenza via via più hard. «Avete fatto un casting perfetto. Questa è un'edizione grandiosa, complimenti. Il paraplegico poi è un vero pezzo di bravura». Si tratta di un reality che tende ad assomigliare più a una reinterpretazione del "Truman Show", con i protagonisti teleguidati dalla regia intellettuale e spettacolare del programma, che non a uno show di intrattenimento. Dove l'esasperazione dei comportamenti individuali o di branco viene favorita, manipolata, giustificata culturalmente da Diesel, Cane Morto, Telepass e Rosita (i creativi del Network, una specie di iper-Mediaset, gente descrivibile in base agli eccitanti che assume e al corredo oggettuale di cui è dotata («il piercing di Diesel è opaco, sembra un seme d'uva espulso dalla pelle del mento»), con le opportune citazioni di Baudrillard scolpite nel testo e rivelate nel paratesto del romanzo, evidentemente per dire che i presunti alieni sono già fra noi da un pezzo. C'è poi la storia privata del protagonista, una traiettoria normale e stralunata, con la moglie, una fumatrice compulsiva che insegna storia bizantina e insegue sogni professionali implausibili; una figlia adottiva, per l'appunto Fiona, una piccola haitiana autistica, che rappresenta la polarità fisica, naturale, del romanzo, una scheggia irriducibile di realtà conficcata nelle molteplici finzioni e rifrazioni del racconto. Vittima di psicologhe e di maestre la cui capacità di astrazione costituisce la principale risorsa per rassicurare i genitori minimizzando le condizioni della bambina, Fiona è il centro non designato ma ineluttabile delle interazioni famigliari, la personalità impenetrabile che fa da fulcro ai rapporti tra le famiglie dei coniugi. E in distanza la presenza imprendibile di una donna, la madre mancata di Fiona, la donna che in precedenza l'ha rifiutata, che diventa per il televisivo Top Banana un'ossessione erotica ed esistenziale. Ma naturalmente la parte più scenografica e socialmente rivelatrice del racconto è lo svolgersi del reality show: cioè il luogo dove la ragion cinica prende il sopravvento. Il micro-mondo di "Habitat" è costellato da una sequenza di trasgressioni: alla decenza, alla tolleranza, al rispetto, alla morale, se ancora può esistere una morale. Ma l'aspetto più interessante nel commento implicito di Covacich è che anche gli spettatori più tradizionali, le mamme, potremmo dire le casalinghe ultrasessantenni che sono il target semiufficiale della televisione generalista contemporanea, si stanno adeguando al lessico e alle regole del reality show, e lasciano precipitare nel silenzio anziché nello scandalo, in un non detto che significa già accettazione, le lacerazioni più vistose alla normativa etica consuetudinaria. Sotto questo profilo, una fellatio al disabile recluso nella Casa e mostrata al pubblico televisivo diventa un passo in avanti del linguaggio televisivo piuttosto che uno sbrego alle norme morali e ai codici collettivi. È vero però che Covacich, come aveva fatto nei romanzi precedenti (l'ultimo, "A perdifiato", è uscito nel 2003, e prendeva l'avvio dalla storia abbastanza autobiografica di un atleta giunto quarto alla maratona di New York, primo bianco dopo tre neri) non ha molte ambizioni di critico della cultura o della società: eventualmente ha lo scopo di registrare le strategie individuali nelle comunità culturali, l'esercizio delle leadership, il prevalere talora per inerzia degli esemplari alpha, l'acquiescenza dei gregari. Scrittore di corsa, quindi esente dal rispetto di decaloghi o di buoni sentimenti, Covacich è uno dei non molti autori italiani che non sbrodola moralismi, che non fa sentire il suo commento, che non si sovrappone al racconto con la sua voce. Scrive con piena oggettività, per incidere nel testo la meta-realtà che vede, in filigrana, dentro la nostra normale realtà quotidiana. Alla fine risulta naturale che tutti gli elementi del racconto esplodano in una specie di dialettica impazzita, per quanto tutta decifrabile. Nella casa di "Habitat" un surplus ad un tempo assurdo e strettamente logico di violenza rivela il sovraccarico emozionale di ogni convivenza coatta. E il privato del protagonista viene messo in luce come la faccia nascosta e non programmabile dell'assoluta esteriorità del reality: mentre manovra o lascia manovrare i reclusi di "Habitat", un suo alter ego prende le sembianze di Unabomber, cioè "Minemaker", vale a dire un altro decisore occulto irrazionale, un sabotatore casuale di vite altrui. Nella storia postmoderna di Covacich non c'è ombra della consolazione che si trova nel sostanziale "happy ending" di un altro romanzo a sfondo antropologico-televisivo, "Le dodici domande" dell'indiano Vikas Swarup (vedi box ). Covacich non concede niente. Fa collidere tutti gli elementi in gioco come se fossero atomi in un acceleratore nucleare, ne scatena la forza intrinseca, ne osserva la carica che si dispiega e i suoi effetti. Fiona, la bimba afasica, si rivela effettivamente il centro di tutto l'universo del romanzo. Imbottita di esplosivi, entra con il padre nel mondo a parte del Grande fratello televisivo, portando con sé la minaccia implicita di un'esplosione che dissolva il mondo finto e ultravero del reality show insieme con il mondo vero e artefatto della sua famiglia. La propensione fenomenologica dell'autore lo induce a negare a chi legge l'acme narrativo finale. Il botto, il climax materiale. Covacich spegne la narrazione, semplicemente, come con un tasto del telecomando; fa implodere il romanzo, disintegrandone la negatività con un comando a distanza. Rilascia intorno al racconto un alone "cult", e magari la consapevolezza di avere scritto uno dei pochi libri capaci di catalizzare l'epoca: o perlomeno il trend, il trash, l'estraneità assoluta, la morte delle psicologie e delle cose nel mondo della funzionalità pura.