L’Espresso
L'Espresso, 20/01/2005
È fallito Berlusconi ma non il paese
Molte dichiarazioni pubbliche degli esponenti del centrosinistra hanno per oggetto non tanto il fallimento del governo Berlusconi, bensì un fallimento presuntivo dell'intero paese, in seguito alle politiche o non-politiche berlusconiane. Lo stesso Romano Prodi, in una recente intervista alla rivista cattolica "Il Regno", lo ha specificato con chiarezza: «Chi ci governa porta pesanti responsabilità: declino economico, disgregazione sociale, ferite inferte alla legalità, stravolgimento della Costituzione, degrado dell'etica pubblica. L'Italia, Berlusconi non se lo può più permettere». Ma non è detto che puntare sull'idea della catastrofe socio-economica procurata dalla Casa delle libertà possa essere un'idea davvero fruttuosa. È vero che l'economia italiana sta attraversando un periodo di trasformazione profonda, forse radicale, ed è possibile che in futuro gli squilibri determinati dalle delocalizzazioni produttive e dalle crisi settoriali possano aggravarsi, con effetti imprevedibili in termini di compatibilità sociale. Tuttavia non è detto che al momento la retorica dell'impoverimento complessivo della società italiana sia di per sé vantaggiosa per il centrosinistra. Declino e povertà sono termini generici. Psicologicamente depressivi. Contraddetti, come di questi tempi ricorda spesso lo storico Giuseppe Berta, da alcuni grandi indicatori che occhieggiano nei titoli dei giornali. È vero o non è vero che la Borsa di Milano è cresciuta del 15 per cento nel 2004, figurando come il migliore mercato mobiliare europeo? Ed è vero o no che l'Italia, secondo i dati esposti da Adolfo Urso, è in Europa il secondo paese esportatore verso la Cina, dopo la Germania? Mettiamoci anche i conti ottenuti nel 2004 dal ministro dell'economia Siniscalco, con un buon risultato sul deficit e una leggera discesa del debito pubblico, e si otterrà una serie di segnali, di spie, di indicatori su cui sarebbe opportuno riflettere. Il primo elemento da mettere a fuoco è che l'impoverimento andrebbe valutato come un fenomeno redistributivo, non come una tendenza permanente dell'economia italiana: si sono impoveriti alcuni ceti, il lavoro dipendente e i pensionati; mentre altre categorie economiche, che hanno potuto capitalizzare il cambio con l'euro, hanno come minimo ricostituito i margini di profitto. Ciò ha almeno due implicazioni. In primo luogo una politica di centrosinistra dovrebbe individuare con chiarezza il messaggio da rivolgere alla società, e in particolare a quegli elettori che sono stati sedotti dalle sirene dell'"enrichissez-vous" berlusconiano e che ora si ritrovano cornuti e mazziati: sotto questo profilo, la polemica più o meno brillante sul "centro" politico come fattore strategico per la vittoria elettorale va ancorata ad alcuni contenuti, altrimenti è pura astrazione. Subito dopo, seconda implicazione, si ha la sensazione che nonostante tutto l'Italia contemporanea sia un paese ricco. Forse di una ricchezza nascosta e improduttiva, come nella concezione di Eugenio Scalfari, il quale auspica misure per rimetterla nel circuito economico. Ma al di là dei provvedimenti necessari a questo scopo, come la patrimoniale, che sarebbero possibili soltanto se intesi come una leva straordinaria per lo sviluppo del paese, cioè in presenza di un progetto credibile di modernizzazione integrale, va elaborata una politica relativa al paese vero, non a un paese immaginario. Il paese vero è sottoposto a tensioni, soggetto a crisi più o meno estese, ma soprattutto aspetta una proposta. E la proposta politica non può limitarsi alla deprecazione. Certo la costernazione rispetto alla pratica del governo Berlusconi, e la retorica del paese mortificato dalla destra, è un mastice ancora efficace per il centrosinistra, ma sarebbe il caso di non perdere di vista le condizioni reali dell'economia e della società italiana. Sono tre anni che personalità credibili come Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta segnalano la non credibilità dei conti pubblici, e l'aleatorietà delle leggi finanziarie: ma per ora la catastrofe non è avvenuta. Semplici manipolazioni contabili? Puri espedienti finanziari? Può darsi. Ma intanto, in attesa della catastrofe che certamente verrà, sarebbe il caso di fare i conti con la realtà autentica del nostro paese. Altrimenti si sa che cosa succede, nel gridare troppe volte al lupo.
L'Espresso, 27/01/2005
Meglio un pacco che due scatole
L'energetico, il galvanico Paolo Bonolis si trova in un momento particolare della sua carriera, lì che tira un bilancio dopo il successo di "Affari tuoi" e in attesa di quel giudizio di Dio e del popolo che è il Festival di Sanremo. Il suo programma con i pacchi e le scatole è stato un successo debordante, basato com'è su uno schema da fiera paesana, cioè su un "format" che gli italiani conoscono da sempre, e che è sempre irresistibile nonostante sia diventato un format internazionale. Insomma, siamo sempre al punto che il concorrente deve scegliere fra una scatola che può contenere una paccata di euri oppure un peperone. Suspense, suspense. Di suo, il Bonolis ci mette alcuni tratti particolari, ossia la solita conduzione muscolare, vitaminizzata, a voce stentorea; il solito lessico da coatto ripulito, che dice in modo finto-aulico le parole della quotidianità. Tanto che ha continuato a ripetere fino all'ultimo «Mezzo miliardo del vecchio conio», espressione, vecchio conio, improbabile: l'avesse detta una volta ogni tanto, passi; invece la diceva sempre, sempre, traducendo gli euri in lire. Ma insomma, le lire non ci sono più, se non nella memoria, e le lire del vecchio conio a cui si riferisce Bonolis costituiscono un esempio vistoso di paternalismo, una discesa cinica al livello del pubblico generalista. Questo "change over" a ritroso è il prodotto chissà quanto involontario dell'euroscetticismo popolare italiano: anziché chiamare le cose con il loro nome si nominano i fantasmi. Adesso aspettiamolo all'appuntamento della vita, cioè a Sanremo. Da ciò che si è saputo, ma poi vedremo che cosa avverrà effettivamente sul palco, Bonolis e l'organizzazione trasformeranno il Festival in un kolossal televisivo, una "Super Domenica In", oppure in una iper-edizione di "Votate la canzone della vostra vita: vi piace di più la maglietta fina o l'acqua azzurra?". Inseguiranno ospiti stranieri e italiani che forse verranno o forse no, ma chi se ne frega, perché quando a Sanremo arriva l'ospite canoro, il cantante o il gruppo, il pubblico generalista o si addormenta o mette mano al telecomando: «No, il cantante no!». E allora qual è una soluzione, un Sanremo senza cantanti? Be', l'idea non è peregrina, e forse l'unico a poterla realizzare è Bonolis. Che presenti, che canti, che balli, che faccia la valletta. Sarebbe un festival-pacco? Chi se ne frega, meglio un pacco che due scatole.
L'Espresso, 03/02/2005
Per favore non parliamo di ricatti
Le persone normali sanno che "Report", il programma di Milena Gabanelli, è una scheggia di realtà dentro il paesaggio azzurrino e flou dell'informazione televisiva pubblica e privata. La puntata del 15 gennaio sulla mafia era effettivamente fastidiosa, perché faceva sentire la voce degli estorsori (a "Report" li chiamavano estortori, ma ci siamo capiti: distorcere distorsore, estorcere estorsore), e la voce del ricatto, ancorché telefonica, non era per nulla piacevole: anzi, faceva impressione. Forse per questo il presidente della Regione Sicilia, il giocondo Totò Cuffaro, si è molto lamentato, chiedendo un programma di riparazione. Adesso si è perso il conto, e pare che il programma riparatore non s'abbia da fare. Queste cose dispiacciono, fanno male. Anche perché non si era capito bene come si potesse riparare. Forse con una trasmissione in cui si sarebbe sostenuto che la mafia non esiste, o è fatta da gentiluomini vecchio stampo che amministrano l'ordine. Oppure mostrando dei ricattatori pentiti che restituivano il pizzo piangendo, convertiti sulla via di Saxa Rubra dal direttore di Raidue Massimo Ferrario. Oppure ancora bruciando la Gabanelli sul lungomare di Mondello. Già, perché la riparazione ai danni inferti alla patria dalla tremenda Gabanelli sarebbe stata prodotta, a quanto pare, a quanto dicono, a quanto si sussurra, dal programma di approfondimento "Punto e a capo", condotto dalla coppia composta da Daniela Vergara e Giovanni Masotti. E qui ci vogliono le pinzette chirurgiche, per districare le responsabilità. In quanto la Vergara è un'icona sexy, l'unica giornalista televisiva in grado di rivaleggiare con l'Alda D'Eusanio (ma con un tocco più umano, più accogliente, più insomma ci siamo capiti). Mentre Masotti, eh, Masotti! Masotti è il buonsenso forzista messo in un contenitore bonone, è il bell'uomo Masotti che deve rassicurare le famiglie inquiete per la mafia. Programma riparatore? «Io non sono un carrozziere». Bene. «Però se faremo un'altra puntata sulla mafia sarà equilibrata». Bravo. «Avrà spazio anche la parte sana della Sicilia». Grazie. «Ci sono le ombre, ma anche le luci». Eccolo, più bello e più grande che pria, Masotti. Si consiglia un programma sulla parte sana della mafia, con le luci, ma delicate, morbide. I panni sporchi laviamoli in famiglia. E alla Gabanelli, che fa vedere solo le ombre, mandiamole un esorcista. Chiamate Masotti, il tecnico delle luci.
L'Espresso, 03/02/2005
Lady Guastalla
Il primo bar vicino all'azienda è La luna blu. L'altro è La tazza d'oro. Lei entra e tutti la salutano dicendo semplicemente: «Ciao, Anna Maria». Per tutti gli altri, per i giornali e la politica, è "la" Artoni. Qui è una di loro. Se si vuole avere un'idea di quella specialità locale che è l'azienda familiare, un concetto dell'impresa emiliana, del capitalismo di territorio, insomma di tutte quelle cose che messe insieme hanno fatto il social-capitalismo "pinker than red", più rosa che rosso, è utile una visita qui a Guastalla, profonda bassa padana, Emilia di confine. Una giornata di nebbia che smentisce le ironiche nostalgie di Luca Cordero di Montezemolo, quando dice che «non ci sono più le nebbie di una volta«. Storie: nel cuore amministrativo dell'impresa di trasporti Artoni, negli uffici dell'ex cantina sociale di questo paesone ultrapadano di 17 mila abitanti, la nebbia è nebbia, la comunità è la comunità, il lavoro è il lavoro. A lasciarla parlare, Anna Maria Artoni, classe 1967, «quasi 38 anni, ma dico ancora 37, speculo sui mesi», single, presidente dei giovani industriali, volto glamour della giovane Confindustria montezemolista, snocciola senza un'esitazione la sua genealogia. Scorre nei quadri d'epoca la figura del bisnonno Cirillo, carrettiere, cappello con la piuma e frusta in mano, un artista dello schiocco: mestiere proletario, trasportare derrate alimentari, e richiamare i clienti facendo risuonare in aria lo scudiscio; e poi il nonno Paride, il modernizzatore, quello che compra il primo camion e fonda l'azienda, nel 1933. Quattro figli, e un camion a testa: ecco nata l'impresa di trasporti Artoni, con il logo a cinque strisce che simboleggiano i figli e il padre. «Bene, l'azienda va bene», dice la Artoni. Nel 2004 ha raggiunto i 148 milioni di euro di fatturato, 18 per cento in più dell'anno precedente, mentre il settore è cresciuto soltanto dell'8 per cento. Trecentosettanta dipendenti, oltre mille collaboratori, circa 30 milioni di colli movimentati, investimenti nell'attrezzatura e nell'informatica. È una società a controllo ferreo, Luigi Artoni, settantenne di micidiale efficienza, presidente e amministratore delegato, Anna Maria Artoni vicepresidente (e direttore amministrativo fino al 2002, quando lascia l'incarico operativo per sopraggiunta carriera confindustriale): «La proprietà è famigliare, ma il modello organizzativo è manageriale. Il salto l'abbiamo fatto negli anni Ottanta, quando mio padre ha rilevato la quota dei fratelli e ha trasformato l'azienda, inserendo un gruppo di dirigenti, professionalizzando l'impresa in modo moderno». Qualcuno ogni tanto la sfotte: per il sito gossiparo Dagospia è Ulivella, la leader implicita della criptosinistra imprenditoriale; oppure, con uno sguardo critico al look, «ecco s'avanza la Artoni, occhialini da segretaria d'azienda gattomortista». Negli ultimi convegni dell'establishment confindustriale l'ala ideologica di destra ha storto il naso: «Troppo di sinistra, la Artoni». Troppo progressista, troppo sociale, troppo poco berlusconiana. E si potrebbe anche capire, dal momento che ha respirato la cultura socio-politica dell'Emilia rossa, che ha un buon rapporto con Romano Prodi, che una delle sue amiche è la deputata diesse Elena Montecchi. Al convegno della Margherita organizzato a Fiesole da Ermete Realacci, tutti pazzi per Mary Ann, e qualcuno l'ha inserita nel governo ombra del centro-sinistra. Altri parlano di una sua possibile candidatura nelle file prodiane nel 2006. È un'ipotesi realistica? «Adesso non ci sono le condizioni». E domani? «Neanche domani», risponde, con un sorriso forse traditore. Carriera che si impenna, in ogni caso, per una ragazzona dal viso spirituale e dal corpo materiale, cresciuta in una famiglia profondamente inserita nella comunità, con la madre Lilia, fama di grandissima cuoca, che conserva tutte le amicizie nella natia Correggio. Scuole pubbliche a partire dalle elementari Edmondo De Amicis, senza fisime aristocratiche, al riparo da esclusività finto-borghesi, fino al diploma di ragioneria. Amicizie quasi tutte nella parrocchia della Madonna della Porta, qualche tentazione extra-aziendale come dj proprio nell'emittente parrocchiale Radio Dimensione, nei primi anni Ottanta. Un po' di pallavolo, «ma non ho mai pensato a prendere sul serio lo sport, anche perché sono riuscita a rompermi sei volte la caviglia sinistra» (adesso non pratica niente, per tenersi in forma si concede una settimana in una beauty farm due volte l'anno). Ci dev'essere un dato genetico emiliano e popolare, a pensarci, se una rampolla del padronato vecchio stampo non si iscrive neppure all'università: «Oppure semplicemente la voglia di cominciare subito a lavorare in azienda. Quando ho capito che mi serviva una preparazione più approfondita ho seguito un master sperimentale di Profingest, a Bologna, con un'aziendalista come Gianni Lorenzoni, e un economista come Luigi Golzio, durissimo». E deve esserci anche una specie di etica del lavoro, per una ragazza che ancora giovanissima passava le vacanze estive in azienda, a fare lavoretti, le lettere di vettura, la sistemazione dell'archivio. Un po' controvoglia («Ma perché non continui a studiare?»), suo padre la assume a 19 anni, nel 1986, con un contratto di formazione e lavoro: forse è la precaria più ricca d'Italia, e lei ci si mette d'impegno, nell'area amministrativa, in appoggio a un'impiegata che le fa da pigmaliona: e ci mette nove anni a diventare dirigente, anche se si iscrive subito al gruppo dei giovani imprenditori di Reggio Emilia, dove fa amicizia con i giovani Ruggerini (motori), Lombardini (idem), e soprattutto con Barbara Morini (calcestruzzi), che la guida nella realtà del movimento imprenditoriale e la introduce a ciò che loro chiamano partecipazione. «Tutto dev'essere nato con un convegno dei giovani a Capri, nel 1987, quando era presidente Antonio D'Amato». Lei diventa presidente dei giovani a Reggio Emilia, e vicepresidente regionale. Fino a quando, un po' per caso e un po' per necessità, nasce la candidatura alla presidenza nazionale. Adesso, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato, in aprile, Anna Maria Artoni si diverte a ricordare quella campagna elettorale con la nonchalance dei vincitori. Ma allora fu una battaglia durissima. Contro di lei, candidata delle regioni soprattutto del Nord, era schierato Vincenzo Boccia, salernitano, ex vicepresidente di Edoardo Garrone, che da due anni si stava preparando al balzo. «Campagna elettorale durissima», sorride. Sessanta giorni ventre a terra, con la sua lanciatissima squadra: Matteo Colaninno, Giannetto Marchettini, Annibale Chiriaco, Cristina Bonetti, Michela Marguati. Successo al ballottaggio, sul filo di lana, per sei voti. «È bello vincere le elezioni. Ma dopo ti senti il vuoto nello stomaco e ti chiedi: e ora che faccio?». Già, che si fa? «Ci siamo chiusi per tre giorni in un buen retiro a Castel San Pietro Terme, a due passi da Bologna, per fare brain storming». Poi una rete di relazioni, a Roma con l'Arel ed Enrico Letta, a Londra con la London School of Economics. Ma soprattutto, dice lei, la ricerca di un filo conduttore, nel tentativo deliberato di riprendere l'esperienza di un suo predecessore, Aldo Fumagalli: «Ho detto che occorreva tornare a fare politica, con l'iniziale maiuscola, nel senso della passione civile». Per questo il suo primo convegno come presidente dei Giovani, a Santa Margherita, è stato dedicato all'immigrazione: «Per mettere a fuoco le modalità e soprattutto le opportunità dell'inclusione, a tutti i livelli». Prevedibile che di conseguenza la chiamino Ulivella. Un altro convegno sulla democrazia economica, a Capri, sostenendo che la politica ha bisogno di consenso e quindi chi è obbligato a ricercare il consenso non fa le riforme, sicché Silvio Berlusconi stringe i denti, stira le labbra e commenta: «Questa volta la Artoni poteva stare zitta». Ulivella? Il fatto è che oggi vige il principio evangelico, ma interpretato poco evangelicamente, chi non è con me è contro di me. «Valeva anche con D'Amato, che pure era stato una scelta netta, di innovazione. Mentre io non credo nelle rivoluzioni, nelle rotture, nello scontro permanente. La politica implica la composizione». Finché non arriva l'era Montezemolo. E basta che pronunci il nome Luca perché all'Artoni si accendano gli occhi, dietro le lenti gattamortiste: «Perché Luca ci ha restituito un sogno». Vediamolo, il sogno. Una società, dice, in cui va rovesciata la piramide sociale: adesso le risorse sono largamente rivolte alla comunità che invecchia, quasi nulla sugli ammortizzatori sociali per i giovani nel mercato del lavoro flessibile. Un programma di sinistra, anche se lei si sottrae: «Ma davvero non è possibile esporre le proprie idee senza essere catalogati in uno schieramento?». Dipende. La presidente dei giovani imprenditori Anna Maria Artoni ha in mente un capitalismo basato sulla trasparenza, un mercato presidiato dalle regole, una competitività fondata sull'innovazione e la qualità dei prodotti; mentre nel mondo imprenditoriale, rispetto a queste ubbie giovanili, si sentono continuamente sospiri di nostalgia al pensiero dei bei tempi delle svalutazioni competitive, e si conta su una politica che consenta l'elusione fiscale, la prossimità al sommerso, la mano libera. A parlare di un capitalismo moderno si può passare per comunisti. Ed è per questo che la carriera della Artoni è a un bivio. L'ambiente dice che è la candidata principale, se non unica, alla successione di Massimo Bucci, il presidente della Confindustria dell'Emilia-Romagna. Ma intanto amici e nemici continuano a immaginarla in politica. Anche se non ci sono le condizioni. E se le condizioni si creassero? «No comment». Fuori la nebbia è sempre fitta. L'Emilia è sempre l'Emilia. Non si schiererà, non si farà candidare. Ma se davvero qualcuno le offrisse un incarico, un ruolo, facciamo un ministero, forse anche la storia degli Artoni famiglia di carrettieri, corrieri, trasportisti, potrebbe registrare novità mai viste da queste parti.
L'Espresso, 10/02/2005
Mezzanotte in Arboristeria
Anche dopo la seconda puntata l'effetto Arbore si è fatto sentire, quantunque si abbia l'impressione che "Speciale per me" non sia proprio un programma d'attacco. Sabato 29 gennaio Raiuno è riuscita anche a penalizzare la nuova trasmissione, lasciando che Milly Carlucci trascinasse il suo show cretinetti con i ballerini dilettanti mezz'ora dopo il timing previsto. Poi c'è stato il telegiornale, quindi la pubblicità: e la sigla di Arbore è partita a mezzanotte e 20, con 35 minuti di ritardo. Forse in questo modo il nicchiatore Arbore sarà stato contento, nel senso che alcune centinaia di migliaia di telespettatori potenziali si saranno addormentati, adattandosi così perfettamente al sottotitolo della trasmissione, "Meno siamo meglio stiamo". Resta tuttavia un mistero perché Raiuno non abbia protetto gelosamente quell'oasi di pace televisiva che è l'ultimo frutto della Premiata Arboristeria. Pura casualità, diranno i dirigenti supremi della rete. Magari tutto dipende dal fatto che le danze dell'atletico Igor Cassina e del funambolico Gianni Ippoliti sono durate più del previsto in quanto i danzatori improvvisati si sono fatti prendere dalla passione per il ballo (comunque il programma del sabato sera di Raiuno, "Ballando con le stelle", benevolmente definito da Sebastiano Messina su "la Repubblica" «un reality show senza il corollario di volgarità tipico del genere», sembra perfettamente intonato al pubblico tv di riferimento soprattutto quando i protagonisti recitano a soggetto, e la coatta che balla con Ippoliti può esibirsi nel canonico «Io gli imparo a ballare...»). In sostanza, conviene rinviare il giudizio su Arbore alla fine del ciclo. Ma nel frattempo mettiamo agli atti che l'interesse della rete per il grande ritorno non dev'essere straordinario. Evidentemente il popolo notturno interessa fino a un certo punto, richiama poca pubblicità, e niente sponsor se non il Cacao Meravigliao. E poi Arbore non si è sforzato moltissimo, non ha messo insieme nuove idee adeguate alla tv sentimentale e feroce dei nostri tempi avventurati. Fa le sue solite cose, quelle che piacciono al suo pubblico di nottambuli, gente tollerante e civile. E che magari si addormenta, perché è bello lasciarsi andare, verso le due di notte, quando siamo ancora un paio di milioni, con tanti saluti all'Auditel (tanto l'apparecchio resta acceso, e quindi resta accesa la testimonianza).
L'Espresso, 17/02/2005
Luciana la iena disumana
Era un'occasione sontuosa, il rientro televisivo della Littizzetto, per vedere se la Luciana è effettivamente un crac, come si dice in gergo ippico, ossia una campionessa in grado di vitalizzare ogni programma, con la robustezza del suo humour mezzo colto e mezzo volgare, in parte prevedibile e in parte inesorabile. Dopo averla vista nelle "Iene", il giudizio è sospeso. E non solo perché, come dice il galvanico critico della "Stampa" Alessandra Comazzi, è difficile sostituire la ragazza Alessia Marcuzzi, rassicurante e «odorosa di femmina». Ma perché la Littizzetto è portatrice di sarcasmo, di umorismo irsuto, di scabrosità lessicali, di riferimenti alle miserie femminili, alle puzze maschili, alle flatulenze della convivenza. Insomma, un umorismo non depilato. Non è detto che tutto questo universo del rapporto maschio-femminile resista impunemente in un programma da televisione generalista. Perché l'aggressività della Littizzetto, e la sua capacità di giocare con i temi della convivenza e della femminilità, funzionano molto bene nei suoi libri (anche il terzo capitolo della sua opera omnia, "Col cavolo", ormai in bilico fra la "Recherche" proustiana e la solita rifrittura di ritagli, strappa comunque qualche sorriso per l'acidità delle battute, per l'autocommiserazione buttata in vacca, per il femminismo cialtrone e vissutissimo, logoro, consunto fino alla verità della vita). Ma la Littizzetto ha bisogno di un contesto, di un format, di una cornice. Va da sé poi che questa cornice lei la distruggerà. Le "Iene" però non sono il suo contesto. Sono invece un programma volutamente destabilizzante, fin dai tempi della Simona Ventura. E quindi la madamin Luciana aggiunge tensione a tensione, sprigiona ondate di disagio, emana sfasature, squilibri, di?sassamenti, perdite di fase. Tanto più che nella prima puntata aveva a fianco, oltre ai due boys, la maestra di ballo Heather Parisi. La quale è l'immagine di un equilibrio rassicurante e convenzionale, produce ondate di rassicurazione borghese, guardi lei e vedi i suoi figli (direbbe Mogol). Mentre la Littizzetto, verso la quale continuiamo a toglierci tanto di cappello, è lo scarto rispetto alla norma, quella che dice "culo" alla festa di famiglia (e poi magari il culo te lo tocca davvero, e ci ride sopra). Forse la trasgressione non si addice alla tv generalista, e quindi alla Luciana converrà andarci piano, con le trasgressioni.
L'Espresso, 17/02/2005
Sarebbe bello avere dei treni
Con una delle sue battute in tipico stile emiliano, Pier Luigi Bersani è intervenuto al convegno romano della Fondazione Rodolfo De Benedetti ("Oltre il declino", 3 febbraio) spiegando che la carenza vistosa di investimenti in settori strategici della realtà nazionale costituisce e costituirà un problema di eccezionale rilievo nei prossimi anni. Allorché il potenziale di trasporto delle ferrovie raddoppierà nelle tratte principali grazie all'alta velocità, ha detto Bersani, «qualcuno dovrà ammetterlo: sarebbe bello avere dei treni». Lo spirito dell'ex ministro piacentino è utile per indurre a guardare con più attenzione ciò che sta avvenendo nell'Italia di oggi. Nell'Italia? Diciamo nelle Italie. Perché c'è un paese virtuale, quello del Contratto con gli italiani e della propaganda berlusconiana, in cui sarebbero avvenute delle meraviglie, "l'infrastrutturazione", come la chiamano i tecnici e in particolare il ministro Lunardi, procede a tappeto, i progetti si susseguono, si posano prime pietre a raffica, le inaugurazioni si susseguono, con tagli di nastro e promesse di efficienza. E poi c'è invece il paese reale, dove la situazione non è proprio in linea con gli annunci e le fantasmagorie del Terzo Millennio e del Secondo Governo di Silvio Berlusconi. Lo ha rilevato con nitidezza Aldo Bonomi sul "Sole 24 ore" del 6 febbraio, commentando le nuove ipotesi relative al MiTo, la messa in rete di Milano e Torino, e rilevando che passando in treno si costeggia appena fuori la metropoli lombarda la nuova grande fiera, con «la vela di Fuksas come simbolo», «un polo di rappresentazione del capitalismo italiano in Europa e nel mondo», luogo di eventi anche immateriali e non più solo «vetrina delle merci». Ottimo. Alla moda. Irresistibile. Tuttavia Bonomi, discepolo di un osservatore minuzioso della realtà reale come Giuseppe De Rita, non si limita a contemplare il sogno. Si guarda attorno e le sue osservazioni sono disarmanti: «Intanto gli Eurostar si bloccano per ore. I pendolari sono in rivolta... La mobilità è peggiorata... Chi arriva in autostrada da Torino a Milano deve fare un po' di coda al casello. Quasi sempre. L'orario di punta ormai è continuato. Chi guarda con attenzione lungo la scarpata vedrà uno strano insediamento. Non è un orto per gli anziani offerto dal Comune. È una delle tante baraccopoli sorte fuori città, nelle cascine occupate, a ridosso dei canali e delle massicciate ferroviarie e nelle fabbriche dismesse... Sono invisibili: immigrati senza casa». Sembra la descrizione di una favela, povertà estrema, disagio feroce accanto alla retorica delle "tre i", e del mondo immaginario, del terziario evoluto, dei consumi vistosi. Ma potrebbe essere l'Italia normale che tutti abbiamo sotto gli occhi. Non si fa del disfattismo viscerale dicendo che una parte consistente dell'opinione pubblica sta facendo i conti con il confronto fra il Sogno e l'Incubo. Grandi opere, nel sogno, il Ponte sullo Stretto, l'"efficientamento" del territorio, il decisionismo sbrigativo della legge-obiettivo contro le lentezze bradisismiche delle Regioni e degli enti locali. Nell'incubo quotidiano, oltre ai pendolari in rivolta, con il responsabile delle Fs Elio Catania che si attira improperi promettendo soluzioni entro i prossimi due o tre anni («Ma noi andiamo a lavorare domattina, altro che due anni!»), sarà bene registrare anche il colossale pasticcio combinato dalle forze stradali riunite con i quattro giorni di blocco sull'A3 per una nevicata "vasta e imponente", ma con il consueto ministro Lunardi che non ha trovato di meglio che dare la colpa ai camionisti privi di catene. La sostanza è che la dimensione ipnotica del berlusconismo sta cedendo il passo all'apertura degli occhi sulla realtà. Il vicepremier Marco Follini riconosce con un fastidio che la polemica pedissequa contro il comunismo produttore di "miseria, terrore e morte" è un disco rotto, ma evidentemente, pur sbandierando sondaggi rassicuranti, Berlusconi è in difficoltà sensibile. Deve ritrovare il nemico. Ma nella società italiana ci sono riserve di rancore, sacche di risentimento tutt'altro che mitigato (anzi, forse accresciuto) dal taglio selettivo delle tasse e dalla perdita di reddito negli ultimi due anni, e dal disfunzionamento generale. Può darsi che alla fine Berlusconi abbia effettivamente trovato il suo nemico. Ma anziché le classiche tre narici e la bandiera con la falce e martello, potrebbe avere l'immagine sconsolata di un italiano qualunque.
L'Espresso, 24/02/2005
Anche Minoli ha fatto un miracolo
Se non altro si può dire che Giovanni Minoli è uno a cui piacciono le partite difficili. Ad esempio sfidare il canonico Bruno Vespa della seconda serata con i filmati di "La storia siamo noi". Visto l'instant movie "Quella parte di anima chiamata corpo: il calvario di Karol Wojtyla", di Stefano Rizzelli (Raidue, 7 febbraio) ed eccone una valutazione sommaria. Produzione di difficoltà micidiale, sesto grado superiore della tv contemporanea, triplo avvitamento carpiato. 1. Perché il calvario del papa è ovvio, sotto gli occhi di tutti. 2. Perché a parlare di anima che è corpo e viceversa c'è il rischio di sfiorare i territori new o post age di Gabriele La Porta. 3. E anche perché il potenziale emotivo garantito dalla personalità di Giovanni Paolo II è stato sfruttato in ogni modo, con tutte le immagini e con tutte le parole possibili. Quindi è difficile essere originali e convincenti insieme. Minoli ha fatto un mezzo miracolo, con tecniche borderline. Ha preso le immagini più suggestive, le espressioni più clamorose, l'affettuosa confessione di Wojtyla «ecco qui un papa un po' deficiente», le escursioni in elicottero, i bambini nascosti per gioco sotto la veste rossa, i baci sui capelli delle donne, gli abbracci ai minatori sudamericani, l'ammonimento ai preti nicaraguegni, la sofferenza quotidiana mostruosa, il dolore e il Parkinson, e ha costruito una "testo" credibile e narrativamente compiuto. Sotto, ci ha messo qui una musica heavy metal, là qualche coro che assomiglia ai "Carmina Burana" di Carl Orff, talvolta la chitarra di The Edge, insomma la musica velocissima degli U2; e dentro ci ha piazzato un montaggio che qualche volta assomiglia alla "Passione" di Mel Gibson. Come risultato, un effetto choc continuo, visivo ed emozionale. Ora Wojtyla sembra una rockstar, ora un uomo percosso mortalmente dal dolore, ora un sacerdote che attende il suo destino incommensurabile. Insomma, un tentativo piuttosto efficace di essere colto e popolare, scomodando insieme la teologia del cardinale Ratzinger e le aspettative dell'audience. (E forse è anche uno dei possibili modelli di come si possa fare una tv rapida, veloce, puntuale, sostanzialmente moderna con le invenzioni del postmoderno: in fondo, Michael Moore ha insegnato qualcosa a tutti, anche a Minoli e ai suoi. Non è un peccato: Dio non ha imposto a nessuno di essere noioso, neppure alla tv di qualità).
L'Espresso, 24/02/2005
Voglio una vita random
Gli ultimi due decenni del Ventesimo secolo sono stati il regno della certezza, della prevedibilità, del calcolo. Il fordismo si rimaterializzava nel toyotismo. Come spiegò Jeremy Rifkin nel bestseller "La fine del lavoro", nelle fabbriche giapponesi il ciclo del montaggio veniva stressato nei punti critici, per mettere in tensione il sistema e trovare soluzioni in grado di incrementare la produttività. Stavamo entrando nel mondo "alla McDonald's", dove un panino può essere preso come unità di misura universale, del tenore di vita e dell'apporto calorico consigliabile, e in cui la programmazione totale del "Truman Show" era un modello incombente di struttura narrativa praticabile. Sta cambiando tutto. Il criterio, il dogma, il modulo. L'uomo a una dimensione è un residuo del Novecento, Herbert Marcuse un freak filosofico che ha sognato il passato, come un mutante di Ridley Scott. Già, "Life is random", dice la Apple nella sua pubblicità. La vita è a caso. È stato Luca Sofri, sul "Foglio" del 14 gennaio, a rilevare la tendenza: e cioè che la nuova versione dell'iPod, il riproduttore del formato mp3, contiene soltanto la funzione "random", ovvero "shuffle": «Quella che permette di ascoltare le canzoni in un ordine casuale inventato dall'apparecchio e sconosciuto all'ascoltatore». Dicono i sociologi che l'apparente irrazionalità del nuovo iPod è invece perfettamente allineata alla condizione (giovanile) contemporanea. Alle sue aspettative, e alle sue non-aspettative. Abituati all'ordine casuale della musica nelle discoteche, sempre meno vincolati al copyright, abituati a lasciarsi intercettare nel web da un link sconosciuto, i ragazzi del nuovo millennio non hanno l'abitudine mentale a rispettare le costruzioni standardizzate. Rispetto alle opportunità offerte dalle comunità estemporanee e infinitamente mutevoli di "file sharing", la rigidità di un normale cd risulta una fonte di insofferenza: il downloading possibile è infinitamente più eccitante della riproduzione codificata dal disco stampato da una multinazionale. La gioventù di oggi non è neppure un aggregato sociale: sembra piuttosto una somma di individualismi, in cui ogni soggetto agisce da solo come membro preterintenzionale della folla solitaria. L'atteggiamento quotidiano è "streetwise", guardingo come uno scout che legge e interpreta indizi metropolitani, «attento a camminare per strada guardando intorno a chi si incontra e a che cosa succede di momento in momento». In questo scenario in cui non ci sono né generazioni né "movimenti", e nel quale i complessi di norme si destrutturano. il sociologo Zygmunt Bauman ha parlato di una società «adiaforica», che sconnette le scelte dall'etica riducendole a questioni tecniche, e resta indifferente davanti alle gerarchie di valore, anzi le tratta come una dimensione "less than zero". La funzione "random", ossia la fornitura casuale di sensazioni, completa il processo e azzera anche il dilemma tecnico. Rassicura, conferma, sorprende, gratifica. Il software è stato ridotto al minimo, così come non esiste la possibilità di intervenire sulla sequenza. C'è solo un fluire assimilabile alla «modernità liquida» sempre di Bauman, in cui c'è «la libertà di trattare l'intera vita come un unico protratto tripudio di shopping», con brevi gratificazioni a ogni acquisto e a ogni esperienza. Tutto ciò si riflette su tutte le dimensioni della vita: il teorizzatore della "Terza via", Anthony Giddens, specificava che il passaggio dall'esperienza erotica casuale e frammentaria, il «sesso di plastica», all'«amore confluente» e alle «relazioni pure» rappresentava il transito verso il progetto di una nuova stabilità affettiva e a una forma ulteriore di felicità. Ma tutto ciò appare ottimistico. Oggi gli individui vivono nel «mondo a rischio» descritto dal tedesco Ulrich Beck, nella "Risiko Gesellschaft", una società priva di certezze, insicura, indefinita, in cui le identità vengono modellate da incessanti giochi di ruolo. Ognuno recita una commedia in cui il casting è fenomenologia pura, "attualità" permanente, invenzione continua di performance sociali, casuali faccia a faccia che producono un senso sempre mutevole. Insomma: nei non-luoghi descritti da Marc Augé con le loro rovine, merci e macerie, nei riti collettivi registrabili in qualsiasi ipermercato, come scrive Davide Sparti in un recentissimo libro ("Suoni inauditi. L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana", Il Mulino), «il vivere stesso è un esercizio di improvvisazione, e la nostra identità, più che un nucleo fisso interno all'individuo, destinato ad accompagnarlo fino alla morte, evoca una presenza mobile». Per interpretare questa «traiettoria imprevedibile», nella ricerca di una «coerenza narrativa» apparentemente impossibile da conseguire, per stabilizzare l'uomo "flessibile" di Richard Sennett disgregato nella sua soggettività dal nuovo capitalismo, occorre una creatività che non può fondarsi solo sulle routine. La tradizione e il passato suggerirebbero di ricorrere alle forme politiche della modernità, alla creazione logica di consenso attraverso i partiti e le contrapposizioni razionali fra interessi. Ma tutto questo, nell'universo frammentario, non funziona più. Non reggono neppure gli algoritmi che presiedono a un film come "Sliding Doors", dove l'alternativa iniziale determina tutte le altre. Se tutto scorre, il mondo è così capriccioso, argomentabile da un pensiero tanto debole che alla fine si può eliminare il pensiero e lasciare esclusivamente la debolezza. Resta la citazione, la memoria erratica come in un libro diventato rapidamente di culto, "L'originale miscellanea di Schott" (Sonzogno), raccolta imperscrutabile di conoscenze sclerotizzate, catalogo di ricordi mummificati, manuale per censire i nomi dei pianeti, le regole di un duello, i nomi dei sette nani. Se poi l'impianto del racconto di vita è un reality show come il "Grande Fratello", dove tutte le strategie narrative sono aperte, la sola interpretazione praticabile è quella momento per momento, come un navigatore satellitare che "ricalcola" di continuo la mappa comportamentale. In questa selezione problematica, viene di nuovo la tentazione di ricorrere ai visionari filosofi sostenitori delle teorie "contro il metodo", quelli che spopolarono, come Paul K. Feyerabend, nel segno di una «teoria anarchica della conoscenza»: anche se adesso si tratta invece, più verosimilmente, di una pratica casuale dell'esistenza.
L'Espresso, 24/02/2005
Il tallone di Prodi
La forza di Romano Prodi è la debolezza delle macchinazioni altrui. Fino al congresso dei Ds, Mortadella era un "bollito". Dietro la sua figura data per cadente si affollavano pretendenti veri e finti, candidati alternativi a iosa, sostenuti dai corridoi romani, dal chiacchiericcio tiberino, dai salotti, dai retrobottega della Capitale. Bella, la politica virtuale. Eccitante, l'idea di poter cambiare il leader ogni due o tre settimane. "Divertente", come si dice in gergo, la possibilità del totocandidati, una festa per il partito degli intelligenti, dei dietrologi, di quelli che non la bevono, che ne sanno sempre una in più degli altri. Poi il presunto bollito Romano è andato al Congresso, ha fatto la sua prudente demagogia («Care compagne e cari compagni»), che è un ossimoro come la dissimulazione onesta dei gesuiti nel Seicento, e ha tirato giù una visione da leader, mettendo in mostra, come ha segnalato Giampaolo Pansa, «le risorse immateriali» di chi è stato alla guida della Commissione europea, e che ha dunque uno sguardo strategico. Dopo l'intervento al Palalottomatica, Massimo D'Alema ammetteva a labbro tirato e baffo arricciato che «Romano ha fatto il discorso della vita». Così, all'improvviso, con una virata spettacolare del sentimento, tutte le fumisterie degli ultimi mesi si sono dissolte. È sbocciata la primavera, è nata l'Unione, si è aperta la Fabbrica. Negli stessi corridoi dove prima si sogghignava si è smesso di ridere: anzi, in certi sancta sanctorum del potere annunciato come la Rai è cominciato il pellegrinaggio, il contatto per interposta persona, con le relative dichiarazioni di inalterabile amicizia e «dite a Romano che può sempre contare su di me». Quanto ai poteri forti, ormai è assodata la convinzione che l'esperienza di Berlusconi quel poco che poteva dare l'ha dato, e siamo agli sgoccioli. Per qualche tempo dentro i palazzi dell'economia si è cullata l'illusione di certe invenzioni neocentriste, ma adesso fra il mondo delle imprese e l'Unione c'è di mezzo forse soltanto l'antica diffidenza per il Prodi cattolico, quindi solidarista (arriveranno a rimpiangere con lacrime di coccodrillo il realismo di D'Alema), oltre all'esecrazione per l'alleato anomalo, il sempiterno Fausto Bertinotti. Tuttavia lo sanno anche loro che gli eventuali futuri ministri unionisti sono più professionali. Letta (Enrico), Bersani, Amato, D'Alema, De Castro, Giarda, insieme a qualche new entry, rappresentano una squadra super-garantita. Quindi la debolezza di Prodi è di altro tipo. Politica, perché sui temi a maggiore tasso di conflittualità (bioetica, Iraq) il centro-sinistra è "tot capita tot sententiae", con un effetto-casino spesso deprimente. E nella comunicazione, dato che nonostante gli spergiuri di Berlusconi, il controllo da destra sulla televisione è ferreo (anzi, talvolta sfiora il grottesco, come quando a Prodi, citato magari solo per iscritto, risponde Schifani, ripreso nella sua scultorea bellezza). L'altro rischio effettivo è che lo staff prodiano si illuda di poter replicare le modalità della campagna 1995-96. Allora l'ingenuità era un valore, significava immediatezza, freschezza, prossimità ai cittadini; oggi apparirebbe improvvisazione, estemporaneità, dilettantismo. Per battere Berlusconi, in una campagna che diventerà una drammatica guerra ideologica, non ci sarà spazio né per gli errori né per le approssimazioni.
L'Espresso, 03/03/2005
La velina dà solo baci accademici
Per capire la televisione non bisogna credere alla televisione, alle dichiarazioni sulla qualità, alle intenzioni dichiarate. Conviene guardare i programmi di connettivo, della mattina, del primo pomeriggio, del preserale. Solo così, nelle trasmissioni di intrattenimento sfigatone, che naturalmente comprende anche i divi della tv diurna (i Cucuzza, le Clerici, ma anche le Venier e i Giletti), è possibile capire la massima di David Letterman «tv is shit». In un qualsiasi studio mattutino o pomeridiano sfilano i protagonisti della cacca televisiva contemporanea, capeggiati dai professionisti e dalle professioniste dell'ospitata, quelli che come Alessia Merz hanno capito che non serve sapere fare qualcosa, l'importante è «saper stare in televisione». In un programma come "Verissimo", qualche settimana fa si è visto un servizio sul mestiere della velina come opportunità per le giovani italiane di oggi. Tutto questo detto seriamente, come se effettivamente potesse essere previsto un corso, uno stage, un esame di Stato, e realisticamente uno "sbocco" professionale. Anzi, forse qualcuno dell'entourage psico-pedo della ministra Moratti ci avrà pensato: ottimo, ecco la formazione professionale del Terzo Millennio, nel postindustriale estremo, diventa velina, ce la puoi fare (nota a margine: ricordarsi di controllare se ne parla il pamphlet utilmente reazionario di Paola Mastrocola "La scuola raccontata al mio cane"). Ma per restare alla tv, bisogna mettere a fuoco che l'universo semantico è quello intercettato con i suoi gesti situazionisti da Carlo Freccero, l'uomo che spedì Flavia Vento sotto una tavola, perfetta donna oggetto; ma che forse non avrebbe previsto, nemmeno lui che la Vento suddetta si sarebbe messa in testa idee politiche e la voglia di ventilarle. Grave errore. Il destino del freak è di diventare televisivamente un superfreak, e poi di togliere il disturbo o rintanarsi nelle nicchie (vedi Chiambretti, vedi lo stesso Arbore). Ma i freak se si illudono di poter "stare in televisione" anche in programmi tematici, specialistici, sono dolori. Ogni volta che appare sulla poltroncina di "Controcampo", Elisabetta Canalis, starlet spaziale e inidonea al professionismo, induce tutti a chiedersi se la crisi di Bobo dipendesse dal sinusoide della loro relazione. Ma se la svippata e anche lo svippato reclamano una loro "professionalità", tranquilli che tutto finisce in vacca, absit iniuria.
L'Espresso, 03/03/2005
Saremo sempre Sanremo
Da quando abbiamo riconosciuto, grazie soprattutto a critici di professione gramsciana come Gianni Borgna, che Sanremo non è semplicemente uno spettacolo, ma un'autobiografia del paese, non si sa più come guardarlo, il Festival, e neanche perché. Da quando poi, oltre che una scheggia di identità nazionale e uno specchio del costume isole comprese, è diventato un fenomeno politico di occupazione dell'immaginario, ad esempio con la direzione artistica del socialista e berlusconiano Tony Renis, oppure con le minacce ovaiole di Giuliano Ferrara contro Roberto Benigni, il suo palcoscenico si è fatto incandescente. Ma della gara, o delle canzoni, a chi interessa più? Adesso gli esperti di tv dicono che il cantante abbassa lo share. Eppure per decenni il Festival è stato una parola magica. Sanremo è un imprinting senza scampo dal 29 gennaio del 1951, allorché la radio mandò in onda il primo Festival della canzone dal Salone delle feste del Casinò. La prima edizione si svolse in un'Italia già divisa in due dalla guerra fredda e dal 18 aprile 1948. Fu vinta da "Grazie dei fiori", celebre per l'interpretazione di Nilla Pizzi, che sarebbe stata attorniata per anni, in quanto "regina" dalle figure nostalgiche del divismo musicale e canoro di allora, il direttore d'orchestra Cinico Angelini, il presentatore Nunzio Filogamo, i cantanti Achille Togliani e il duo Fasano, Gino Latilla e Giorgio Consolini. Alcuni versi d'epoca sono indiziari della retorica sentimentale e del tono provinciale: «Dio del ciel se fossi una colomba». «Campanaro della Valpadana, per chi suoni la campana». «Tamburino del reggimento che suonavi alle cinque in punto». «Vecchia villa comunale, sei rimasta tale e quale». Trattasi di rime da catasto. Oppure di moralismi, bigotterie, trombonate, vecchie scarponate. Benché fin dal 1953, terza edizione, ci fossero oltre 60 inviati a seguire il Festival, se dovessimo giudicare l'età degasperiana dalle parole delle canzoni i Cinquanta apparirebbero soprattutto piagnoni, donne che pregano, mamme che imbiancano, barche che tornano sole; e valutando la dilagante nostalgia pelosa della sana povertà del passato, il giudizio sul regime democristiano sarebbe impietoso. Ma anche dopo, dopo gli anni grigi della prima ricostruzione e i gesti bianchi di Pio duodecimo, il Festival è elusivo. Non è rimasta traccia, per dire, né della Cinquecento né della Vespa, nel lessico di Sanremo: non c'è insomma una canzone che abbia fissato in forma autenticamente popolare i simboli della mobilità degli italiani, le utilitarie che hanno consentito di andare in fabbrica e di soddisfare l'aspirazione al weekend. (Per essere obiettivi fino in fondo, il Festival, mentre tutto cambiava, è riuscito anche a planare inconsapevole nella Seconda Repubblica, a dispetto di Tangentopoli e restando indenne dal maggioritario). È scienza comune che per trovare l'eco della modernizzazione, il chiasso festoso del boom, bisogna arrivare a quel 1958 in cui Modugno deflagra con "Nel blu dipinto di blu", che diventa orgasmicamente "Volare", braccia spalancate nel decollo, un tuffo in un quadro di Chagall nonché, metaforicamente, nel miracolo economico. Ma sarà vero? È sarà vero che il Festival ha modellato gusti, atteggiamenti e comportamenti degli italiani, di tutti i figli di Bubba, in tutta la terra dei cachi? Certo li ha registrati, intensificati e rimessi in circolazione, facendoli diventare di massa. Ha celebrato il mammismo, il giovanilismo, la protesta, la contestazione, «ci sarà la rivoluzione, nemmeno un cannone però sparerà» (Mogol), il riflusso, l'edonismo, le vacche grasse e magre, «sugli sugli, bane bane, tu miscugli le banane» e «buongiorno Italia con gli spaghetti al dente, e un partigiano come presidente» (Toto Cutugno, of course). All'inizio degli anni Sessanta, quando a fare il reportage per l'"Europeo" ci andava Oriana Fallaci, Sanremo ha lanciato gli "urlatori", e soprattutto Mina e Celentano, che rappresentavano l'immagine anche fisica di una clamorosa innovazione di voci e di gesti, che importava un'America teppista. Può darsi che allora, quando i Sixties erano ancora ben lontani dall'essere "fab", l'ex Baby Gate e l'insolente Adriano fossero effettivamente gli emblemi di un paese giovane, che si liberava a strattoni dai codici. Una generazione cresciuta fra l'hula-hoop, lo scubidù, il twist, e il fantasma del sesso. Difatti, quando Mina canta "Tua", una canzone del repertorio di Tonina Torrielli e di Jula De Palma, vengono fuori inclinazioni erotiche esplicite. Ha spiegato Gianfranco Manfredi, cantautore e scrittore, che per la Torrielli era la dichiarazione d'amore coniugale di una donna onesta, modesta, virtuosa, fedele; la De Palma ne fece una cosa spaventosamente sexy, terrorizzando la tv democristiana e giocandosi la carriera; Mina, la "teddy girl" irridente di «bllll... le mille bolle blu», ne ricava una cosa tutta superficiale, niente di importante, una scopatina da considerare con un'alzata di spalle. Dopo di loro, ci sarebbe ancora stato spazio per alcune rivincite della tradizione, ma poche: ad esempio nel 1964, allorché la sedicenne Gigliola Cinquetti spopolò con "Non ho l'età", «lascia ch'io viva un amore romantico», tipico caso di revanscismo della morale sessuale tradizionale dopo che fin dal 1963 si erano consumati guancia a guancia galeotti sulle note brividose di Sapore di sale («che hai sulla pelle, che hai sulle labbra...»). Vabbè, Sanremo è una macchina onnivora. Qualunque fenomeno sia registrabile, il Festival ne diviene il catalogo. Ci sono i cantautori, è emersa la "scuola di Genova"? Occasione sontuosa per le famiglie incattivite, che tifano per il reuccio Claudio Villa e/o per Luciano Tajoli contro tutti gli altri, di massacrare il sofisticato "valzer musette" di Bruno Lauzi e il gregoriano sepolcrale di Gino Paoli, occhiali scuri e «ieri ho incontrato mia madre, ed era in pena perché». Desiderano lorsignori un'atmosfera nazional-popolare? Quel che ci vuole è Peppino Gagliardi che canta con il rosario fra le mani. O preferiscono forse il côté internazionale? Ecco Paul Anka, Gene Pitney, Petula Clark, Françoise Hardy, Dionne Warwick, Timi Yuro, i Minstrels, i Surfs. Dunque non si poteva mancare nemmeno l'appuntamento con l'era "beat", allorché esplodono i Beatles, le ginocchia delle ragazze avvertono l'eccitante brezzolina sollevata da Mary Quant, e nel 1966 sulla Riviera sbarcano gli Yardbirds, i Renegades, ad affiancare l'Equipe 84 e Caterina Caselli, con Mike Bongiorno che rilascia esclamazioni di sbalordimento borghese, forse sincere, di fronte ai «gallinacci» e ai capelloni inglesi e italiani. Al Festival si è visto e sentito di tutto, dalla tragedia del suicidio impenetrabile di Luigi Tenco, un gesto che «va al di là di ogni sdrucciolevole simbolismo beat» (secondo l'enigmatica sentenza di Salvatore Quasimodo) agli show di Benigni su «Wojtylaccio», dal saltello di Joe Sentieri ai piedi scalzi di Sandie Shaw, dallo ye-ye al wo-wo, dal beat emiliano della Caselli alle trasgressioni di Patty Pravo e agli esordi più o meno punk di Anna Oxa. Si sono visti da un lato fenomeni nazional-familiari come frate Cionfoli e la coppia Al Bano & Romina, dall'altro le spericolatezze padane di Vasco Rossi e la provocazione bizzarra di una Loredana Bertè con il pancione finto, prima prova trash di gravidanza istrionica. Però ci passano tutti, Gaber, Morandi, Arbore, Tozzi, Ruggeri, Ramazzotti, Dalla, Vecchioni, Zucchero. Non si nega quasi nessuno, a parte i soliti intellettuali, De Gregori, De Andrè. Una volta, nel '69, c'è passato anche l'inafferrabile, il misterioso e timidissimo Lucio Battisti: nei filmati in bianco e nero lo si vede che prende a roteare animosamente il braccio non appena parte il ritornello di "Un'avventura", e fa un po' ridere (e un po' commuove, altroché). E allora come si può interpretare il Festival? Ci sono due scuole: una dice che è proprio lo specchio della nazione; l'altra che è una vetrina che rispecchia solo la merce che mostra. Sta di fatto che quando Celentano nel '66 cantò "Il ragazzo della via Gluck" (bocciata al primo turno) riuscì a vedere i problemi dell'urbanizzazione, ma anche l'anomia metropolitana, la desolazione di «case su case, catrame e cemento». Ciò che per Adriano in seguito sarebbe diventato una fissazione, in quel momento festivaliero era un'intuizione. Ma lo stesso Celentano, che quattro anni più tardi canta con Claudia Mori la temibile "Chi non lavora non fa l'amore", in cui il sesso coniugale è moneta di scambio e strumento di ricatto, reagisce all'autunno caldo con tutta la sua psicologia da maggioranza silenziosa, da incallito estremista di centro. Ormai lo abbiamo capito, Sanremo non è un frammento che rispecchia prodigiosamente tutta la nostra società. Però resiste a tutto, a un premio Nobel come Renato Dulbecco chiamato a fare il presentatore, al declino dei dati Auditel, alla sparizione di Pippo Baudo. Resisterà anche a Paolo Bonolis, perché è il "mondo di Sanremo", che esiste solo per alcuni giorni ogni anno: assomiglia alla vita reale ma non è la vita reale, riflette la società ma la deforma secondo canoni particolari, appare troppo finto per essere del tutto finto e troppo vero per essere realistico. Per questo il Festival è immortale (era immortale anche quando morì, negli anni del penoso oscuramento inflittogli dalla Rai): sopporta le ingiurie della realtà grazie al suo codice genetico di finzione, non crolla sulle sue finzioni perché incorpora, seppure stralunati, molti pezzi di realtà. Non è né di destra né di sinistra, né conservatore né progressista: è un mondo a parte, che una volta l'anno incrocia il nostro. Lo guardiamo come si guarda una stella cadente, sapendo che comunque non cadrà mai: perché l'Italia è un paese caotico e pieno di difetti, e invece il mondo di Sanremo, nel suo genere, sarebbe la perfezione, se valesse ancora quel vecchio detto, canta che ti passa.