L’Espresso
L'Espresso, 10/03/2005
È mezzanotte e non tutto va bene
Il problema non è se vi piace o non vi piace Teo Mammucari. Questi sono fatti vostri. Ogni scarrafone è bello a mamma sua. La questione è se vi piace o non vi piace la televisione fatta alla maniera di Teo Mammucari. Il quale, lo sapete, è un ex Iena, un tipo con una faccia non troppo raccomandabile, facciamo da impunito, dotato di un talento naturale non dissimile da quello di Fiorello (vabbé, Fiorello è inarrivabile, ma ci siamo capiti), che fa una televisione che i dirigenti tv, i programmisti, gli autori considerano "moderna". Se non sapete o non ricordate che cos'è la modernità, per un ripasso è sufficiente guardare "Mio fratello è pachistano" (Canale 5, il martedì sera alle 23.40). Programma indefinibile, perché tutto giocato sulla personalità del protagonista Mammucari. Ma programma nel solco della tv di seconda serata di maggiore successo (dicono), sul genere dell'altro programma più o meno di culto, "Cronache marziane" (tutto è di culto ormai). Là, lustrini, drag queen, coriandoli, luci, clima gay; qui soprattutto freak di periferia indotti a giocare, cioè a prendere la televisione come gioco, a diventare protagonisti, a "fare" il programma sotto la guida del provocatore Mammucari. Per divertirsi occorre essere dell'umore adatto, e non sempre ciò accade mentre la palpebra si abbassa insidiosamente. Bisogna apprezzare che un poveretto di tipica ascendenza pasoliniana, una reincarnazione tardiva di Ninetto Davoli senza ricci, o di uno dei fratelli Citti, venga fatto ballare un lento con Heather Parisi. Anvedi come balla Nando. Ciò consente di apprezzare di nuovo la celebre risata cavallina della Parisi e il suo schiaffetto fra il divertito e l'indignato quando il coatto le si avvicina al viso per fare nasin nasello. Oppure vedere altra gente del popolo, anzi, del sottoproletariato, scaraventata sulla scena televisiva a fare l'impossibile: ad esempio, telefonare in inglese a un albergo. Divertente? Ba, be bi bo bu, direbbe Renzo Arbore citando Ernesto Bonino. Se dobbiamo divertirci con queste cose, se siamo obbligati, lo diciamo: giuro, mi diverto. Apprezziamo i maltrattati, gli sradicati del suburbio resi protagonisti. Ridiamo tutti, fingendo che tutto questo para-situazionismo sia divertente. Siamo dei simulatori sociali. E mentre al culmine del divertimento la palpebra precipita, una voce dal subcosciente sussurra: non sarà il caso che ci ridiano Fiorello?
L'Espresso, 10/03/2005
Garage band Ligabue
Luciano Ligabue è entrato nel suo studio di registrazione, e ha cominciato a lavorare al nuovo disco. Questa è la notizia. Il resto è vita di paese incrociata con il mondo. E con lo show business, ma sullo sfondo, lontano. Qui, il solito giro, come sempre. Non ha mai messo su casa a Milano, come raccontavano dopo la separazione dalla moglie: c'è suo fratello Marco, dieci anni meno di lui, oltre al manager e amico da decenni Claudio Maioli, colui che per tutti è "il grande venditore". Ligabue ha messo insieme un repertorio potenziale di una ventina di canzoni nuove, per pubblicarne dieci. L'album uscirà a settembre, e non ha ancora un titolo. Forse verrà lanciato con un grande concerto qui nella pianura, in una di quelle notti. Si aspettano da queste parti, fra il torrente Crostolo e il Tresinaro, «fra cosce e zanzare», folle oceaniche. Il tam tam è già cominciato. Nel frattempo, vita buona, qui in mezzo all'Emilia, per una star che fra poco più di una settimana compie 45 anni. La casa appena fuori dal paese, in un ex convento rimesso a nuovo. Corse nei viottoli di campagna per tenersi in forma; una sambuca dopo il pranzo al ristorante dell'Hotel dei Medaglioni; due passi nel centro storico di tipico impianto medievale. La compagna nuova, Barbara, una biellese portata in questo pezzo di Emilia; il piacere dei bambini, Lenny che compirà sette anni a maggio, la piccolissima Linda che ha solo cinque mesi. Come sarà il nuovo disco? Musica alla mia maniera, dice il "Liga", come lo chiamano gli affezionati. Oppure "Bue", come voleva chiamarlo Adriano Celentano nel suo penultimo programma: «Posso chiamarti Bue?» Be', se non se ne può fare a meno. E allora vai, Liga. Che cosa ci aspetta, dopo "Fuori come va?", mezzo milione di copie, e un tour che riempiva gli stadi con raduni di massa? Perlomeno si sa che questa è terra buona per la musica popolare: a poca distanza c'è Novellara, dove è sepolto Augusto Daolio, la voce dei Nomadi, e la sua tomba è ancora la meta di un pellegrinaggio, dove i visitatori lasciano un regalino, un biglietto, un ricordo. Allora, rock. Rock esplicito, rock programmatico. «Oggi la musica si ascolta distrattamente, ci arriva addosso mentre siamo in altri contesti». E quindi è necessario mantenere uno stile, un registro, una tonalità. Perché Luciano Ligabue non è un rocker qualsiasi. Sa che cos'è la gavetta. Si è sbattuto. Non se la tira. Conserva riconoscenza per chi gli ha dato una mano nei tempi duri, come il povero Pierangelo Bertoli. Poi c'è il lato tecnico, si dà il caso che sia un baritono, un caso raro in un mondo, quello della musica rock e pop, di tutti tenori; quindi con una voce particolare, scura, che arriva al massimo al sol naturale: però riconoscibile, inconfondibile, la sua. E lui è convinto che il dono divino della musica popolare risieda nella semplicità di cui è portatore il rock, «una canzone è straordinaria quando la fischietta il muratore, o magari l'intellettuale di nascosto». Non esistono geni incompresi. «Ed è commovente vedere come una canzone diventa patrimonio di tutti». Fuori nevica, sul cotto rosato del Palazzo dei Principi, ed è una nevicata di fine febbraio, un autentico fuori stagione anche per la Bassa. Sembra una citazione dal suo romanzo "La neve se ne frega", 150 mila copie vendute, un libro con cui il Liga si è messo in testa di rivaleggiare con Aldous Huxley o George Orwell, un'anti-utopia, un libro ambizioso. Ma adesso tutta l'energia è concentrata sulla musica. Quale rock, Liga? «Il rock'n'roll, quello classico, fatto con le chitarre, con quel suono particolare, con quel riff d'attacco che rende riconoscibile tutto». Chiaro: il rock è la chitarra a cinque corde di Keith Richards, il sound degli Stones, le note basse e distorte di "Satisfaction". Se si lascia andare, è capace di raccontare la sua visione olistica del corpo e della mente, di come secondo lui tutto è reso vitale da un'energia di fondo, e il palcoscenico costituisce un'esperienza in cui il fare musica sintetizza una forza vitale che viene dal pubblico, rimbalza nella band, rifluisce nelle platee. Sicché gli è venuto naturale, durante il suo "Giro d'Italia", una tournée semiacustica nei teatri, esibirsi anche in alcuni reading di Charles Bukowski, mentre Mauro Pagani contrappuntava la lettura con il violino. Molto intellettuale. «No, molto popolare». Perché lui è convinto che per essere davvero popolari ci vuole la capacità di mettere le mani nel materiale, nella musica, nelle parole, nei suoni. «Prendi Lucio Battisti, il musicista popolare per antonomasia: è quello che ha lavorato più sodo, ha costruito i suoi grandi brani togliendo invece di aggiungere, "La canzone del sole" è fatta con tre accordi. E i critici dicevano che era un cattivo cantante... Altro che cattivo cantante, era un grande interprete». Quello che gli piace di Battisti è il lavoro accanito, il suo metodo, «provi e riprovi e non ti fermi mai, e intanto aggiungi, tagli e sintetizzi...» (come da autodichiarazione battistiana in "E già"). Il prendere una tradizione e superarla, perché «prendi uno come Picasso, prima di stravolgere la forma era un grandissimo ritrattista». E popolari non si nasce, popolari si diventa. Per questo Ligabue lavora tutti i giorni, a modo suo: «Prendo la chitarra, cerco uno spunto, lo sviluppo canticchiando in uno pseudo-inglese, e registro tutto». Quanto alle parole, «aspetto che nasca un concetto, un'idea», ma i versi vengono sempre alla fine, sulla musica (con una sola eccezione, "Angelo della nebbia", un'allegoria padana come i quarantatré racconti compresi in "Fuori e dentro il borgo", il libro da cui è nato "Radiofreccia", un'autobiografia di tutti noi immersi nel fluido dell'esistenza, «scelti da chissà che mano per essere buttati in mezzo alla nebbia»). Ascolta musica un po' eccentrica, Liga, come un tipo che si chiama James Blunt, il quale fa un soul-rock-pop «molto crossover»: però con gli amici si diverte a suonare in casa facendo una serata-Battisti o una serata-d'autore: «Perché io sono affezionato soprattutto ai cantautori, e specialmente a Francesco De Gregori», e difatti la sua canzone a cui forse è più affezionato si chiama "Metti in circolo il tuo amore", una voce alla De Andrè combinata con un fingerpicking favolosamente degregoriano o dylaniano: «Già, ho un'ammirazione anche per Bob Dylan, perché ha rifiutato di diventare un monumento, e ha continuato a mettere le mani nella sua musica, a cambiarla, senza accontentarsi di rifare se stesso». Qualcuno si diverte a montare una sua rivalità con Vasco Rossi, concerto contro concerto, stadio contro stadio, pienone contro pienone. «Ma Vasco è uno autentico». C'è da credergli, se lo dice uno che è un figlio del popolo, con il padre Giovanni che negli anni Settanta gestiva una balera, il Tropical, e che ogni giorno ripeteva che i musicisti sono tutta gente che fa la fame, ma che alla fine, senza dire una parola, gli portò a casa la prima chitarra: «Quando dico "credo nei riff di Keith Richards", come nel monologo di Stefano Accorsi in "Radiofreccia", mi si può credere: cioè si può credere a uno che ha cominciato a suonare con il prontuario per gli accordi da autodidatta, e con le tablature pubblicate da "Ciao 2001"». C'è anche da credere a un tipo che con le canzoni ha avuto un rapporto quasi diaristico, come sfogo e confessione quotidiana: la prima canzone si intitolava "Cento lampioni" ed era la storia del riscatto morale di una prostituta, un "topos" di tutti gli autori principianti. Adesso invece la musica è professione, «non ci sono più alibi, sono un professionista fino in fondo». Primo concerto nel febbraio 1987, «ero introverso, chiuso, teso, mentre adesso sul palco mi sento a casa mia». Non sa ancora bene che cosa verrà fuori dal lavoro dei prossimi mesi, «mi piacerebbe un suono da garage band», ma comunque sarà un tentativo aperto a tutti gli esiti possibili, determinato soprattutto dalla voglia, dall'ispirazione, dalla tecnica dei musicisti coinvolti nel progetto. Lavoro, lavoro e ancora lavoro perché entro giugno, al massimo luglio l'album deve esser pronto. È "una vita da mediano", come la canzone che ha segnato la nuova stagione del centrosinistra. Gliel'aveva chiesta Piero Fassino in persona, poi hanno insistito Gad Lerner e Michele Santoro, lui ha acconsentito, «ed è la mia canzone più fraintesa, perché molti l'hanno presa come una ostentazione di falsa modestia». È vero, molti dicono che non si può fare la star e poi ritrarsi nel ruolo di centrocampista di fatica: «Non è così, io sono uno che fa musica di mainstream per poter fare altre cose molto meno ovvie». Il cinema, per esempio, «che è una fregatura, perché c'è una mediazione troppo forte fra l'idea e il risultato, eppure sono riuscito a fare un film, "Da zero a dieci", che raccontava la storia di alcune persone che morivano». La scrittura, con il gusto di cambiare genere, di cercare strade anche ambiziose. E la musica. Per essere oggi capace a modo suo di parlare come De Gregori, di illustrare la vita come De Andrè, e di fare risuonare il cuore dei ragazzi che lo amano con una musica nuova e antica, come Battisti: «Be', io ci provo».
L'Espresso, 10/03/2005
Fermate l’Italia ho lo stress
Ci sono milioni di motivi per essere stressati. La mancanza di tempo, la sensazione di essere infilati dentro automatismi pazzeschi, il senso che la vita "l'è malada" per un parcheggio introvabile, la percezione quotidiana che lavorare stanca e i colleghi sono odiosi. Eppure c'è una forma di stress che sintetizza tutte le altre, è uno stress quintessenziale, un distillato alchemico dell'Italia ansiogena: infatti, 400 mila individui, l'1 per cento del corpo elettorale, sono stressati dalla sola presenza di Silvio Berlusconi. Altro che grazie di esistere. Il premier per loro è una polarità malefica, un accumulatore di negatività, un contatore elettrico del male quotidiano. Ma a sua volta Berlusconi deve avere 400 mila cause di stress. Una per ogni per capello trapiantato, e non soltanto perché la caduta di uno solo dei nuovi capelli è un colpo al cuore. E poi tutto il resto, una folla di agenti del logorio: quel permaloso del presidente della Repubblica che se la prende, i giornalisti che all'85 per cento sono di sinistra, le leggi che si sa come entrano in Parlamento e non si sa come ne escono, i magistrati che mettono le mani nelle scartoffie dell'azienda, Gianfranco Fini che «non mi viene dietro» e si rifiuta di assecondarlo nelle battute, Carletto Ancelotti con la resistenza vischiosa alle sue disposizioni tattiche sul Milan a due punte... In confronto, per stare sul lato calcistico dello stress, Massimo Moratti è placido e beato. D'accordo che il suo stress si chiama Adriano, lo statuario centravanti brasiliano che si è prosciugato, svuotato, sgonfiato, ma il patron dell'Inter è ormai abituato da anni alle spese pazze senza risultati visibili, alla tensione domenicale, alla fatica di pareggi senza volto (come diceva lo scrittore Nick Hornby, «la vera condizione del tifoso è un'amara delusione» e allora chi è più tifoso e più stressato di Moratti?). Stress, sindrome interclassista. Cambiano evidentemente i ruoli e le funzioni sociali, Perché Montezemolo e Marchionne hanno pensieri diversi da quelli del pubblico impiego, e Yaki e Lapo possono trovare soluzioni esistenziali e di intrattenimento più brillanti di quelle dei loro coetanei (perché un conto è uscire con una collega e un conto con Martina Stella), ma alla fine i meccanismi del disagio sono identici al vertice così come nella pancia della collettività. È la convivenza che genera stress: Romano Prodi che deve convivere con Fausto Bertinotti, e soprattutto con coloro che gli rimproverano l'alleanza con Bertinotti; mentre quest'ultimo ha il suo daffare per controllare la tensione procuratagli dai suoi compagni trotzkisti, e da tutti quelli che lo criticano perché ha perso di vista "il concetto di imperialismo". Dice la ricerca presentata in queste pagine che una delle origini dello stress perdurante è la frustrazione determinata dalla mancata soddisfazione nel lavoro, anche se si stratta di una professione in sé prestigiosa e, a detta degli altri, gratificante. E allora non c'è rimedio. Se il sesso prestazionale genera angoscia, il lavoro domestico è una condanna supplementare per le donne, se ogni risveglio mattutino è lo starter di un oscuro malessere, addio alle illusioni: l'esistenza in sé è una fonte di dolore, l'inferno siamo noi e sono gli altri, il mondo è una cupa cospirazione ai danni di tutti. Cerchiamo di difenderci restando sempre connessi, "wired", con il cellulare acceso, l'e-mail aperta, il satellite e il digitale collegati, nella vaga speranza che essere connessi depotenzi l'angoscia, e che l'arrivo di un sms porti una risposta. Tutto inutile. Ogni decisione è una pena, ogni apertura si richiude: Marco Pannella stressa i cattolici e i cattolici stressano i radicali, i riformisti sono, o erano, stressati da Furio Colombo e dal girotondismo. Siamo nei pressi del "bellum omnium contra omnes", tutti sono nemici di tutti. Giovanni Masotti stressa Daniela Vergara, Milly Carlucci ha stressato perfino il compassato Renzo Arbore. Ce lo ricordiamo, l'inno dei disincantati, dei distaccati, dei rilassati, di quelli delle ore tarde: "Che stress, che stress, che stress di giorno... Ma la notte no!". Vero niente: nel tempo dello stress totale, anche la notte stressa.
L'Espresso, 17/03/2005
Bonolis a corpo sciolto
Dibattito: qual è stato il momento più basso, e quindi televisivamente più alto, del Festival di Sanremo? Pareri discordi. Quando accanto a Mike Tyson si profila la seminuda Federica Felini (anche il suo nome è un refuso, come disse Enzo Biagi di Storace), e l'intero share di Raiuno si augura qualcosa di irreparabile, che 'o animale si metta a sudare ancora di più, oppure un'erezione inopinata e tremenda del pugile. Oppure il momento in cui la suddetta Felini si mette a parlare, con la vocetta da pupazza, provocando un immediato e generale crollo della libido, Tyson compreso. E se fosse invece la scena, spesso replicata, in cui la povera Clerici, eletta lady Ciccia da Paolo Bonolis, si tira su le gonne da uovo di Pasqua per poter scendere la scalinata, mostrando le cavigliotte? Ma c'è anche il momento in cui sempre Bonolis fa calare le luci e annuncia i cantanti bocciati dalle giurie, davanti a una poltrona vuota, che fa tanto "percorzo del dolore". Eppure, fatti i conti, vince a mani basse l'intervista di Bonolis a Tyson. Non perché sia un bello spettacolo: il pugile è impresentabile, non sa parlare, non sa cantare, il suo "Volare" è stonato, il suo rap è un barrito. Tuttavia c'è un picco, una cuspide, un istante straordinario nel faccia a faccia. Cioè quando Bonolis chiede a Tyson qual è il suo rapporto con il danaro. E Tyson, evidentemente preparato, risponde: «C'è chi ha il dono di trasformare la cacca in oro». Dice «cacca» in italiano, sublime: «Mentre io faccio l'operazione opposta». A questo punto Bonolis non lo tiene nessuno. La cacca lo sollecita, lo aizza. Quasi tocca la pancia del colosso pugilatore, e lo ammonisce: «Se deve magnà de meno, così se ne fa de meno!». Di cacca, evidentemente. Allo sguardo attonito di Tyson che rotea gli occhi dicendo «What?», Bonolis conclude «Lassàmo perde». Ecco: si invita Tyson, che già non c'entra niente e forse è un residuo non rifiutabile della gestione di Tony Renis, e gli si pone di fronte Bonolis, l'uomo che parla un italiano speciale, altro che aulico più popolare, è puro Renato Zero. E si manda tutto in cacca. In più, il vitaminizzato conduttore di Sanremo pende dallo sguardo del condannato per stupro, quasi gli si bagna il ciglio, potrebbe spezzarglisi la voce. E alla fine conclude che Tyson è «una bella persona». Noi ci limitiamo a proporre l'esilio per chi ha usato, usa e userà l'espressione di cacca «una bella persona».
L'Espresso, 17/03/2005
Errore Massimo
Le baruffe veneziane sono l'incidente che rivela un deficit di politica nell'Unione, come dice Massimo Cacciari? «Il centro-sinistra doveva capire che non può più concedersi il lusso di un'immagine schiacciata sulla magistratura», ha detto filosoficamente l'ex sindaco, dopo essersi ricandidato alla guida della città lagunare, in esplicita opposizione alla scelta «rossoverde» di Felice Casson. Certo, Casson non è un magistrato qualsiasi. Per la destra è la classica "toga rossa". È il pubblico ministero politicamente impegnativo del caso Gladio, delle indagini sull'eversione nera nel Triveneto, sulla strage di Peteano. È il pm della requisitoria sugli omicidi bianchi al Petrolchimico di Porto Marghera. L'autore delle inchieste ambientali sull'elettrosmog dell'Enel. Ma in ogni caso un magistrato che spacca di nuovo la politica. Solo quella veneziana? Oppure il caso Casson è un sintomo più profondo di una tensione dentro l'Unione, e in particolare nella federazione ulivista? Lo abbiamo chiesto a Antonio Di Pietro, il più famoso degli ex magistrati in politica. Massimo Cacciari ha detto che «non si è mai visto un pm che in due giorni si dà alla politica». «Devo richiamare un presupposto. Io sono fra quelli convinti che ci vuole una distinzione chiarissima, una separazione nettissima fra chi è in magistratura e fra chi fa politica. E vorrei segnalare che Casson si è dimesso dalla magistratura». Ma sempre Cacciari ha segnalato che sono passate «quarantott'ore» fra le dimissioni e l'annuncio della candidatura. «Però il distacco è avvenuto, non ci sono rischi di sovrapposizione, non c'è confusione di ruoli, non c'è ricatto psicologico sugli elettori. Si tratta di un uomo che ha tagliato il cordone ombelicale con il suo ruolo precedente. E quindi le considerazioni di opportunità sono fuori luogo. Ne parlo a ragion veduta, perché io mi sono dimesso dalla magistratura, e detto per inciso non è vero che l'ho fatto perché volevo entrare in politica: mi sono dimesso per fare l'imputato. Ma questa è un'altra storia». Quindi secondo lei la soluzione Casson è una soluzione adeguata, dopo il fallimento della candidatura dell'ex assessore Alessio Vianello. «Senta. Non vorremo mettere in discussione il diritto costituzionale di un cittadino di candidarsi, vero? E allora bisogna affrontare il significato politico di ciò che si è scatenato attorno a Casson. Stiamo parlando di una persona capace, competente, che conosce il territorio e i suoi problemi. Vogliamo discutere il fatto che un uomo come Casson utilizza in politica il credito guadagnato nel campo della giustizia? Ma questo succede ai protagonisti della televisione, ai docenti universitari, agli esponenti di molte professioni, agli avvocati, ai medici. Chi decide di entrare nell'arena politica capitalizza la notorietà e la stima guadagnata nell'attività precedente, e non mi sembra di avere assistito a molte esecrazioni in proposito. Quindi l'opposizione a Casson va giudicata da un altro punto di vista». Non perché è un ex magistrato. «No. Bisogna vedere piuttosto se c'è qualcuno che teme l'effetto Casson. Perché sicuramente lo teme il centro-destra. È una personalità che si è spesa nel territorio, e questa, a Dio piacendo, non è una colpa, è un merito. Ha acquisito una conoscenza approfondita, è competente, ha una sua visione anche particolareggiata delle cose: e quindi è un candidato altamente competitivo, che può vincere. Ipotesi che naturalmente alla Casa delle libertà non piace affatto». E allora perché Cacciari decide di ributtarsi nella mischia, creando questo dualismo imbarazzante nella Fed e nell'Unione? «Dentro il centro-sinistra i problemi derivano soprattutto da questioni di bottega. Il cosiddetto dualismo fra Cacciari e Casson non c'entra e non spiega nulla. Casson era un punto di sintesi che i partiti non riuscivano a trovare». Se non è dualismo, se non è scontro fra personalità, di che cosa si tratta allora? «Con Cacciari ho un'amicizia fraterna, un grandissimo affetto personale; ma questa volta devo dire, se mi permette un'espressione popolaresca, che l'ha fatta fuori dal vaso. Cioè ha perso di vista l'obiettivo. Perché l'obiettivo primario è battere la destra. Questo è sempre stato un punto fermo nel Cacciari-pensiero, lui ha sempre sostenuto la necessità di rafforzare ed estendere l'alleanza proprio in vista di questo scopo. E allora nonostante tutte le interviste e le dichiarazioni non si capisce bene la decisione che ha assunto». Magari c'è un male oscuro nel centro-sinistra. «Intanto bisogna dire che sul piano politico non c'è un diritto di primogenitura della Margherita nella scelta dei candidati. La scelta dei candidati non è una riserva di partito, e di un solo partito nella fattispecie. E se per un momento vogliamo restare sul piano personale, sottolineo che la storia politica di Cacciari è tutta iscritta nella logica del maggioritario. Mi ha sempre ripetuto che le ragioni parziali devono passare in secondo piano rispetto alla logica generale. E io ho accettato questa logica, pagando i prezzi dovuti, a costo di passare, agli occhi della destra, per "comunista". Comunista io! Per cui non è molto chiaro qual è la ragione che lo ha indotto a una decisione che divide». Proviamo a chiarirci le idee. «Ho l'impressione che Cacciari si sia fatto condizionare da un assetto dei poteri forti veneziani, da ambienti che non vedono di buon occhio un sindaco di sinistra. Per quanto mi riguarda, vorrei dirgli, con tutto l'affetto possibile, che preferivo il Cacciari unitario. Quando lo incontrerò, lo abbraccerò e gli dirò: Massimo, il vaso è più in là». Eppure lei è un moderato. L'Italia dei valori non è un partito di sinistra. Le eventuali preoccupazioni di Cacciari verso un sindaco troppo caratterizzato a sinistra potevano essere anche le vostre. «C'è un errore che mi sembra grave, da parte di Cacciari, che consiste nell'avere accettato la stretta logica di partito. Così fra l'altro ha messo in difficoltà anche me, proprio in quanto presidente di un partito come l'Italia dei valori. Ma come: io, rappresentando il mio partito, vado dal notaio a costituire l'Unione, superando differenze e sensibilità che inducevano alcuni dei nostri a restare fuori, mi spendo politicamente in chiave unionista, e lui decide in questo modo, determinando una spaccatura così vistosa? Noi sosteniamo Casson in nome della logica unitaria, e lui decide di candidarsi contro Casson? Quando è stato il caso, noi ci siamo comportati diversamente. Sul rifinanziamento della missione in Iraq, i nostri senatori avrebbero preferito l'astensione, ma in aula hanno votato secondo la decisione della maggioranza. Con il risultato che ora ci troviamo davanti a un paradosso che ha dell'incredibile: chi è fuori dalla Federazione è bipolarista, ragiona e agisce per irrobustire l'alleanza nel suo insieme; e chi è dentro la Fed induce divisioni». Romano Prodi ha parlato di un'«anarchia veneziana». Baruffe locali. È un giudizio riduttivo? «È un caso locale e nazionale. Perché a Venezia c'è sempre stato un ingente conflitto interno nell'élite politica ed economica. Per esempio ho avvertito questo conflitto quando ero ministro: indimenticabili gli scontri sulla variante di Mestre, chi la voleva così, chi più sopra, chi più sotto, chi non la voleva per niente. Fortissime lotte di potere nelle pieghe di una classe dirigente chiusa in se stessa. Con i risultati che poi si vedono». E fuori di Venezia, sul piano nazionale? «È un caso anche nazionale perché è il sintomo del cambiamento dei partiti. Che non sono più quelli di una volta. Il federalismo è intervenuto anche nella loro struttura, e qualche volta il centro conta poco rispetto alle realtà territoriali. Ma il federalismo è buono solo quando non è anarchico. Cioè se i partiti e le coalizioni non sono acefali. Altrimenti intervengono le soluzioni pilatesche, che non risolvono niente. E allora ci vuole una struttura dirigente centrale in grado di dire dei sì e dei no. In questo senso il mio invito a Prodi è di non considerarsi l'arbitro, ma il protagonista, l'uomo che prende le decisioni». Ma non è possibile che sotto sotto ci sia la vecchia discriminante anticomunista? Che fra Margherita e Ds problemi di questo genere siano destinati a covare sotto la cenere per divampare al momento meno opportuno? «Il nostro sistema politico è ancora in fase di assestamento, anche se non credo affatto che nell'azione di Cacciari sia riscontrabile un atteggiamento anticomunista. Sono però convinto che se, come tutti noi ci auguriamo, nel 2006 riusciamo a mandare a casa la destra, e specialmente Berlusconi, che è stato il federatore della destra e colui che ha determinato lo schema bipolare, assisteremo a una grande scomposizione e ricomposizione dei poli. Con Berlusconi sconfitto la destra non sta insieme. E a quel punto il rimescolamento potrebbe essere generale. Non vedo come, per dirne una, Clemente Mastella possa restare a sinistra, se la destra cambia formato e leadership». E dove resterebbe Antonio Di Pietro? «Prima vinciamo, poi parliamo».
L'Espresso, 17/03/2005
Azienda Lega a conduzione familiare
Cinquecento persone. Forse mille. Accorse a Lugano davanti alla casa dell'esilio di Carlo Cattaneo per rivedere l'Umberto. È stato un rientro importante, quello di Bossi, anche se le sue condizioni rivelano la gravità della malattia che lo ha colpito e mostrano che il suo futuro politico è ancora problematico. È una rentrée significativa perché senza il leader, il capopopolo, il "guerriero ferito", senza il corpo e l'immagine del capo assoluto, la Lega non sarà finita, esaurita, defunta, ma sarebbe come minimo un'altra cosa. Difatti i militanti, nell'emozione del momento, tendono a mischiare i piani della politica e della mitologia. Al punto che la pasionaria Rosi Mauro esclama: «Bossi è immortale, è un Highlander!». A metà fra l'esaltazione e una fantasia, si tocca un punto cruciale. Il Carroccio non esiste senza il carisma di Bossi e senza le leggende che lo avvolgono. La Lega per mobilitare ed emozionare i suoi militanti deve poter ricorrere ai parafernalia nordisti, alle memorie celtiche, a Braveheart, all'"invenzione della tradizione" (secondo lo schema di Eric Hobsbawm) che consente di accedere a un repertorio, ancorché storicamente problematico, di simboli. Sotto questa luce celtica, conta poco la politica romana. E a riascoltare Bossi si direbbe che anche la "devolution" è robetta, una derivata giuridico-burocratica. Nonché il risultato delle mediazioni dentro l'alleanza di centrodestra. Un federalismo che verrà, con i tempi lenti della trasformazione istituzionale. Ma nel frattempo incalzano i tempi della politica effettuale, le elezioni regionali, le politiche del 2006. Bossi sa che la Lega non è mobilitabile sulla proposta o sul programma, bensì sull'identità. Per tenere alto il morale della base, in questo momento è necessario esibire ancora e sempre le ragioni profonde del leghismo. Quali siano queste ispirazioni profonde è presto detto. L'anima autentica del Carroccio è legata intimamente all'idea della secessione. La Lega è secessionista nella sua essenza. È vero che l'utopia politica del Grande Nord che saluta "los italianos" e se ne va a raggiungere paesi e regioni felicemente alpini come la Svizzera e la Baviera non è più all'ordine del giorno dell'azione politica: fra i numeri due, Roberto Maroni si muove su territori come le pensioni e il mercato del lavoro, Roberto Calderoli si aggira dentro i commi della riforma costituzionale, l'Asse del Nord con il fratello di sangue Giulio Tremonti è una nozione sostanzialmente nostalgica, un "idem sentire" messo sullo sfondo dalle urgenze del governo. Eppure la psicologia della Lega è intimamente legata a quei momenti così accorati in cui a Lugano Bossi chiede un applauso per i Serenissimi, quelli che conquistarono il campanile di san Marco, e più ancora alle parole squisite con cui il capo allude alla radice vera e struggente del Nord: «La Padania e la Svizzera insieme sarebbero davvero lo stato più bello d'Europa». Da un lato si assiste così a una scena in cui il Carroccio appare come un'azienda a conduzione familiare, con la moglie Manuela e il figlio nella veste di custodi del patrimonio leghista. Dall'altro, lascia impressionati l'atmosfera crepuscolare in cui una élite politica continua, se non ad agitare, perlomeno ad alludere a progetti esorbitanti. Ilvo Diamanti ha definito la Lega come il partito "degli uomini spaventati": intimoriti dalla globalizzazione, dai processi immigratori, dalla concorrenza internazionale, dalla crisi dell'apparato industriale. Probabilmente si aggiunge a tutto ciò il lungo spavento della malattia di Bossi, e la paura che la Lega possa rivelarsi una entità residuale, un subaffitto folk della Casa delle libertà. In queste condizioni, la riapparizione di Bossi dovrebbe equivalere a una rinascita. Riparte l'avventura, ricomincia il film di "sword and sorcery" di cui il capo dei celti era stato il protagonista. Spadoni vichinghi e stregonerie lombarde, elmi e corna, favole e dietrologie, governi e parlamenti padani, e soprattutto politica a man salva. Purtroppo per lui, il guerriero è l'ombra di se stesso, Braveheart è lontano, e la Lega è l'alleato comodo di Silvio Berlusconi. E il movimentismo leghista, di fronte alla "Lega di governo" sembra soprattutto un ricordo dei tempi andati.
L'Espresso, 24/03/2005
Anche gli spot sono affari loro
Un servizio del "Sole 24 Ore" (pubblicato l'8 marzo ) ha messo in mostra la classifica delle star televisive. Cioè il loro valore di mercato, misurato dal livello di quotazione di uno spot (30 secondi) durante un loro programma. Al primo posto naturalmente si colloca Paolo Bonolis, e te pareva. Grazie al successo e alle scatole di "Affari tuoi" il sovrano di Sanremo vale la bazzecola di 115 mila euro (dal che si capisce che la Fiat deve puntare effettivamente molto sulla nuova Croma, se l'ha promossa durante il Festival; e deve credere anche nel SuperPaolo, se è vero che lo spottone era creativamente mediocre, e la ragazza affiancata a Pigmalione Bonolis parlava con un pesante accento regionale). Misteri. La pubblicità è una scienza, e quindi è possibile che perfino i difetti vengano commisurati appropriatamente al target. Ciò che colpisce, comunque, è che il mercato non sbaglia praticamente mai, e al vertice della classifica, subito dopo il Vitaminico Superenergetico, si colloca la Energetica Supermaterialona, ossia Simona Ventura, 85 mila euri secchi nonostante lo sboom delle "Tre scimmiette". Ecco. La graduatoria prosegue con Maria De Filippi (53 mila ottimi euro), mentre un programma di nicchia come "Alle falde del Kilimangiaro" fissa lo standing di Licia Colò a meno di 9 mila euro, però sono tutti soddisfatti, anche gli spettatori, che apprezzano. Ciò che colpisce è che Emilio Fede è fermo a 6.700 euro, pur essendo considerato da sponsor e pubblico il vero volto di Retequattro. Sarà una questione di specializzazioni, anche se per molti il cabaret politico di Fede è sempre stato al di sopra delle battute folk di Bonolis. Da tutto ciò si capisce che Ventura e Bonolis farebbero bene a lasciar perdere le avventure (per Paolino le avventure mediasettiche e per La Supersimoniaca le disavventure sentimentali), e mettersi insieme. Un grande matrimonio di interessi, che meraviglia, un'operazione ipermediatica, metatelevisiva, ultraculturale: e che il mercato, anzi il super-mercato trionfi. Quanto valgono insieme Bonolis e Ventura? Cifre da vertigini: tali da giustificare non soltanto un matrimonio economico ma anche una unione coniugale e possibilmente un figlio o due. I figli della coppia catodica, bambini bionici, capaci di portarsi a casa fin da piccoli le loro paccate di soldi. Salute, e figli maschi. E che vivano felici e contenti, come morale della parabola.
L'Espresso, 24/03/2005
Promossi & bocciati
Nel peggiore dei casi sarà una tonnara. Nel migliore, un duello infinito. "Neverending Duel", una sceneggiatura serratissima alla Ridley Scott. Dodici, tredici, quattordici mesi di botte, parate, risposte, finte, contrattacchi. I leader in prima fila, agitando lo spadone fra urla belluine; i comprimari al fianco e al seguito, tutti pronti a scannarsi. Tourbillon Italia, la grande mischia: in attesa delle elezioni regionali, e del dibattito sui vincitori effettivi. Poi, il via a un anno di puro terrore, con i protagonisti che sono già schierati, con le armi sguainate. Prepararsi allo spettacolo: il libretto è questo qui sotto. Con personaggi, interpreti e comparse. Sempre i soliti. Sempre nuovi. L'aspirante statista S'ode a destra uno squillo, e naturalmente appare Silvio Berlusconi. Sondaggi bruttini, ma proprio bruttini, per Forza Italia: tuttavia il Cavaliere è riuscito nell'acrobazia di fare diventare un quasi successo bipartisan il colossale pasticcio della liberazione di Giuliana Sgrena, che lui ha sempre chiamato «la signora», perché si sa che i giornalisti sono per l'85 per cento comunisti, e quella è comunista sul serio, quindi conveniva ridurre, ridimensionare, minimizzare. Ecco dunque «la signora». L'economia comunque continua ad ansimare, il decreto sulla produttività è un frittino misto senza risorse economiche e con riforme di portata straordinaria buttate lì sulla carta, nella certezza di rivoluzionare l'Italia con un tratto di penna. Ma se era così facile, perché non sono state fatte prima? «Abbiamo mantenuto tutte le promesse», giura il premier. I dati lo smentiscono, e il sociologo Luca Ricolfi ("Dossier Italia. A che punto è il contratto con gli italiani") è piuttosto scettico, ma lui è fiducioso e intanto ha trovato e ha imposto al paese un nuovo fuoriclasse, ovviamente Gianni Letta. Ma si sa come finiscono i fuoriclasse nella Casa delle libertà: basta chiederlo a Giulio Tremonti, che scrive una lettera fluviale al "Sole 24 ore" per rivendicare di avere fatto un lavoro colossale. Forse avrà lavorato troppo. Anche il presidente del Consiglio ha lavorato molto. Rating: basso ma crescerà (o ricrescerà, come i capelli, che in effetti sono ricresciuti benissimo). Voto: 5. Il Professore "avanti miei Prodi" All'attacco, all'attacco. Contro la dittatura della maggioranza nel nome di Hamilton, Madison e Tocqueville, contro la riforma costituzionale di destra, contro la politica economica del governo. E nello stesso tempo lima le previsioni delle regionali, se ne sta quatto (evidentemente, più che ai sondaggi, crede al buon senso prudenziale di Giulio Santagata, il suo braccio destro inventore della "Fabbrica del programma"): non alziamo troppo le aspettative elettorali, altrimenti un risultato solo discreto verrà preso per una sconfitta. Non piace ai moderati, il Professore di lotta e di governo, non piace la sua alleanza con Fausto Bertinotti, non piacciono i suoi giudizi catastrofici sul governo, sulla perdita di competitività italiana, sulla crescita mancata; non piace che ritrovi all'improvviso il gusto della battuta (a proposito di grandi opere: «Lunardi inaugura anche i chiodi a cui attacca il cappotto»). E però, quando era più istituzionale e pacioso, lo davano per "bollito", mentre se attacca "non è più lui". Ma a giudicare dall'ira funesta e dalla mobilitazione che suscitano a destra le sue dichiarazioni, viene il sospetto naturale che Prodi sia temuto ancora e sempre, e soprattutto dia fastidio che l'Unione abbia adesso un leader che non agisce soltanto di rimessa ma attacca. Giudizio: ah, che bestia cattiva, vuole mordere l'avversario. Voto: 6 più. Diplomaticus Finissimus Finiti grazie al cielo i tempi in cui sembrava un abusivo, come all'epoca dello Tsunami, quando i reduci dalla tragedia, sbarcati a Fiumicino, non lo degnavano di uno sguardo, e lui stava lì con le mani in mano. Adesso Gianfranco Fini è entrato effettivamente nella parte del ministro degli Esteri: anche se non ha avuto un grande ruolo nel caso Sgrena, e anzi probabilmente ha contribuito ad alimentare il mistero, si è calato negli abiti del gran diplomatico: vesto quindi sono. Ha firmato sulla "Stampa", a quattro mani con il perfido albionico e ministro degli Esteri inglese Jack Straw, un articolo in occasione del viaggio nel Regno Unito del presidente Ciampi, in cui si diceva che Italia e Gran Bretagna cantano all'unisono. In sostanza: "Ambassador" ce la fa. Chi ha sostenuto in passato che tutti hanno avuto in classe un ripetente che parlava come Fini (che diceva «la triplice» per parlare dei sindacati, ad esempio), è servito. Piuttosto, cominciano davvero a essere di peso, o almeno stilisticamente inappropriati, i suoi camerati: a Gasparri servirebbe finalmente almeno un corso di dizione, al maschio Francesco Storace un trattamento di buone maniere (altro che polemiche piazzaiole dopo i sondaggi infausti del "Sole 24 ore", «con quel giornale ci ho incartato le uova», e cadute di gusto machiste su Rosy Bindi). Intanto però Diplomaticus dovrebbe benedire donna Alessandra Mussolini, che gli ha portato via il cognome più imbarazzante aprendo nuove opportunità al partito (perché come scrisse Pietrangelo Buttafuoco ai tempi di Fiuggi: «Benito Mussolini è l'unico socialista che non possiamo riciclare in An»). Valutazione: bene Lui, un velo sugli altri. Voto: 6 meno meno. Baffino l'Europeo e i dolori diessini I diagnosti più sofisticati, a cominciare dai riformisti del "Riformista", si stanno chiedendo che fine ha fatto il network di Massimo D'Alema: cioè quella rete generazionale e politica che per un certo periodo sembrava aver messo le mani sull'Italia, che aveva preso il potere per non lasciarlo mai più. Dove sono i "Lothar" dalemiani, dove sono finiti i banchieri dell'unica merchant bank in cui non si parlava inglese? Lui, il leader, dà l'impressione di essere in una condizione incerta. Un po' qui, un po' là. Un po' a Roma, un po' a Strasburgo. «Il nostro uomo migliore» sembra un fuoriclasse che sta giocando solo delle amichevoli: ogni tanto esibisce una giocata delle sue, ma il risultato è accademico, e i critici arricciano il naso: capaci tutti quando non sono in gioco i tre punti. È la condizione essenziale dei Ds: anche il segretario Piero Fassino, dopo il buon risultato del congresso, deve rimettersi in campo. Nel frattempo però la "linea" la detta Prodi, la sindrome del portatore d'acqua è in agguato. E le regionali non promettono granché: se si vince nelle regioni rosse, che ci voleva? Almeno bisognerebbe che Burlando conquistasse la Liguria, e che in Piemonte la Bresso scippasse il posto a Ghigo. Ma ci sono anche gli strascichi delle baruffe veneziane, il match Cacciari-Casson, ogni giorno ha la sua pena. Voto: D'Alema 6 e mezzo, Fassino rivedibile. Highlander e la capitale morale Gran ritorno di Umberto Bossi, il quale ha fatto capire che la Lega vuole sempre l'indipendenza o giù di lì, ma soprattutto che il Carroccio è una questione di famiglia: ecco la moglie senza la quale la Lega non esisterebbe più, ed ecco il figlioletto riccioletto che si sporge dalla finestra della casa di Carlo Cattaneo esclamando «Padania libera» con il pugno teso. Intanto L'Umberto è orgoglioso in quanto ha bloccato l'operazione «neodemocristiana» di Roberto Formigoni, e Berlusconi gliene è grato perché ha tagliato le unghie a un possibile successore. Tuttavia a Milano, cuore del Nord, le cose vanno male, male, male. La vicenda della Scala è diventata una specie di "Prova d'orchestra" felliniana ambientata nel terzo millennio. Il soprintendente, il direttore generale, il direttore d'orchestra, il sindaco, l'assessore alla Cultura e il suo successore, le maestranze, i "Lavoratori" (come scrive il maestro Muti): se un giorno arriverà l'indipendenza, o almeno la devolution, ci vorrà un altro spartito. Pagella: per adesso è sempre la solita musica, e anche un po' peggio del solito. Voto: non classificato. Follini e i suoi dispersi Ormai si vede poco. Marco Follini è rinchiuso dentro Palazzo Chigi, e riappare solo ogni tanto, con il compito di fare la faccia cattiva contro il cattivo Prodi. Ma tutta l'Udc è seminascosta. Desaparecido Rocco Buttiglione, dopo le diatribe culattoniche in Europa e la polemica sulla pedofilia di Cohn-Bendit. Poco appariscente il vestitissimo Baccini (che ha una sola caratteristica davvero riconoscibile, quella di essere il vero format facciale dei candidati dell'Udc: fateci caso, tutti i cartelloni con i volti di neodemocristiani eleggibili alle regionali recano la foto di gente uguale a Baccini). Semiscomparso anche Bruno Tabacci, che è una persona seria e sembrava un osso duro, ma che dopo l'esito della legge sul risparmio ormai sembra il colonnello Aureliano Buendía di Gabriel García Márquez, quello che «promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte». Vabbè, finché c'è vita c'è speranza. Ma siccome anche Pier Ferdinando Casini di questi tempi non brilla per presenzialismo, l'immagine dell'Udc è opaca. Rating in ribasso, seppure senza crolli. Voto: 5. Rifondare il possibile Fausto Bertinotti sta rifondando non solo Rifondazione ma anche se stesso. La svolta "governista" lascia con il mal di pancia la minoranza del partito, i trotzkisti, i comunisti veri: ma Fausto non è mai stato un comunista autentico, anche se al congresso di Venezia ha esclamato che un giorno vorrà essere ricordato come tale. Bertinotti è un socialista anarchico che sta diventando un socialista umanista. E forse per questo, mentre tutti i moderati guardano con spavento (o piuttosto dicono di guardare con spavento) alla liaison politico- governativa con Prodi, immaginando l'incubo di imposte patrimoniali e l'orario a 35 ore, Bertinotti cita Pietro Nenni e la stanza dei bottoni, ricorda Raniero Panzieri, dedica un pensiero a Riccardo Lombardi, rivelando così la sua vera e inconfessata speranza: nell'impossibilità di rifare il Psi, dato che se l'è preso Gianni De Michelis, si potrebbe provare a rifare il Psiup. Voto: dal 6 al 7, come le percentuali di voto.
L'Espresso, 31/03/2005
Nella fattoria degli orrori
La nuova edizione di "Music Farm" non è ancora entrata nel vivo, ma si possono già individuare aspetti interessanti. Certo, la volta scorsa c'era in campo la farfalla impazzita, lo scarto rispetto alla norma, l'eccezione che sconvolge le regole, insomma la Loredana Bertè. Adesso invece manca ancora un eroe. C'è la pupilla di Caterina Caselli, Gerardina Trovato, che sembra reduce da prove esistenzialmente impegnative. Oppure c'è Mietta, quella del trottolino amoroso con Amedeo Minghi, dududù dadadà, che vista in diretta si direbbe molto più spontanea e simpatica del previsto, e quando canticchia si impegna con molta buona volontà. Finora, er mejo è sembrato, musicalmente cantando, Francesco Baccini: look rinnovato, aria di uno a cui sono capitate delle disgrazie e ha deciso di cambiare vita a cominciare dall'acconciatura; eppure basta metterlo davanti a un pianoforte, e lui suona e canta, e "fa" qualsiasi cosa, da Francesco De Gregori a "Guido piano" e "Fiore di maggio" di Fabio Concato. Sulle prime, è sembrato fuori fase Franco Simone, che una volta veniva chiamato "il poeta della canzone", e al momento si esprime in notevoli mutismi mentre gli altri cantano (brava comunque Mietta a cantare Tenco e Ruggeri). E rischiava di essere sfasata anche la potente Iva Zanicchi, che per questioni generazionali e di genere canzonettistico appariva del tutto out. Ma non bisogna mai sottovalutare l'Iva, che com'è noto è un partito, il partito delle partite Iva (testo e musica di Giulio Tremonti). Piano piano, l'Iva ha assunto un ruolo più importante, intrufolandosi da vecchia zia nelle conversazioni, discutendo di gastronomia, moraleggiando biograficamente sul Sanremo vinto con Claudio Villa. Ci si poteva scommettere: l'Iva è un leader. L'Aquila di Ligonchio, l'autrice del classico "Polenta e castagne", la potentissima interprete di "Prendi questa mano... zingara", la signora inappellabile di "Ok il prezzo è giusto", ha un talento formidabile per gestire le situazioni di gruppo. Poi ci si può chiedere se vale la pena di seguire "Music Farm", e la risposta naturalmente è no, siamo mica matti, solo i coatti. Ma siccome è chiaro che ormai la tv si guarda facendo uno zapping incessante sui 3 mila canali del satellite e del digitale, capiterà di fermarsi ogni tanto anche sull'Isola dei Cantanti, contemplando per qualche minuto l'Iva e concludendo: quella sì che è tosta, "boia d'un mond leader".
L'Espresso, 07/04/2005
Ricci e il secolo dei lumini
Ogni volta che parla, che esterna, che esecra condanna sancisce approva, Antonio Ricci è imperdibile. Situazionista, dicono le didascalie, confondendolo magari con Carlo Freccero, e senza avere prima controllato l'appena ripubblicato saggio di Mario Perniola ("I situazionisti", Castelvecchi editore). Con tutto ciò, qualsiasi cosa racconti, Ricci è memorabile, a partire dalla sua celebre (almeno per noi aficionados della lezione sulla società dello spettacolo di Guy Debord) dichiarazione sui rapporti sessuali prima del matrimonio: «Sono contrario perché fanno arrivare tardi alla cerimonia». Il meglio, naturalmente, Ricci lo dà non appena si mette a parlare del suo ammirevole mostro, la sirena dei boschi, l'usignolo Paolo Bonolis. Perché verso super-Bonolis, verso l'uomo che tutto "bonolizza", nel senso del banale, del "Banalis" e della banalisi (scienza speciosamente patafisica), il ligure Ricci si sente in grado di interpretare per una volta la parte dell'Illuminismo contro l'Oscurantismo. Lo spirito dell'Ottantanove parigino verso la superstizione e la demagogia dei secoli bui. Genova per noi, con quella faccia un po' così, contro la Roma "de noantri", la società dei magnaccioni, contro "ma che cce freca, ma che cc'emporta". E noi je dimo, e noi je famo. E ha pure ragione, il Riccissimo, dato che le prestazioni di "Banalis" con medium e veggenti risultano alla memoria seriamente inquietanti, facendo molto più secolo dei lumini che secolo dei lumi. Ma nonostante tutta l'ammirazione per uno che nella sua villa rivierasca ha una collezione di cento chitarre, che compongono un paesaggio che vira con euforica nostalgia al beat, sembra francamente impegnativa la sua concezione di "Striscia la notizia". Vabbè, telegiornale alternativo, agenzia della verità contro la tartuferia generale, luogo del disvelamento mediatico, esorcismo popolare ai danni dell'omologazione. Però che dispiacere, pensare che "Striscia" sia l'informazione alternativa. Come se negli exploit di Ricci, da "Drive In" in poi, contasse soprattutto un'intenzione pedagogica, tipo "istruisce e diverte". Chiaro che noi debordiani non vogliamo essere né istruiti né pedagogizzati. Ci piace il Ricci irresponsabile, non il pedagogo di massa. Lasciatelo divertire, se ancora di diverte. Lasciateci divertire, se ci riusciamo. Sulle intenzioni civili, stendiamo un velo. Oppure una vela. O anche una velina.
L'Espresso, 07/04/2005
I RISCHIATUTTO
La resa dei conti è cominciata, e difficilmente uno dei due potrà sopravvivere politicamente. I duellanti sono Prodi e Berlusconi, impegnati in un lunghissimo faccia a faccia. A urne aperte, la sera del 4 aprile, sarà terminato il primo round: e chi rischia di più, nonostante tutti gli esorcismi, è il Cavaliere. Il secondo appuntamento sarà il referendum sulla fecondazione assistita, dominato dalla figura del cardinale Camillo Ruini, il sostenitore dell'impegno- disimpegno: una prova che invece potrebbe essere molto stressante per il centro-sinistra, e mettere in seria difficoltà l'equilibrio finora ricercato e garantito politicamente da Prodi. Inutile aggiungere che il terzo momento dell'ordalia sarà naturalmente quello delle elezioni politiche del 2006, che appaiono come il momento cruciale dell'era Berlusconi. Vincere, e sanzionare il regime, grazie al patto di ferro con Umberto Bossi, la sua riforma della Costituzione, inefficiente sul piano del sistema politico-istituzionale ma efficientissima come macchina di potere, con tanti ringraziamenti al ruolo garantitogli dall'ultima Rai (cda monocolore e presa sicurissima del direttore generale Flavio Cattaneo, nonché "effetto fiction", ossia la rassicurazione quotidiana sulla qualità del governo offerta dal Tg1 e dal Tg2). Oppure perdere, nonostante le posizioni di clamoroso vantaggio, e imboccare la via dell'uscita dalla politica, con tutti i rischi connessi a questa ipotesi, a cominciare dalla possibile disintegrazione della Casa delle libertà. Dunque, le regionali. A quanto si capisce, le tendenze si possono sintetizzare così: c'è un trend di lungo periodo che deprime le aspettative del centro-destra; l'effetto del secondo modulo della riforma fiscale, con il taglio delle aliquote per i ceti medio-alti, ha portato soltanto a un'increspatura delle preferenze. Il consenso alla destra incorporava già da tempo l'aspettativa della riforma, e quindi l'esito sul profilo degli andamenti elettorale non sembra risultare particolarmente significativo. C'è anche da considerare che le elezioni nelle 14 regioni in cui si vota sembrano rivelarsi una specie di prova generale delle elezioni politiche, e in questo senso la dimensione ideologica prevale sui singoli aspetti della campagna elettorale. Silvio Berlusconi lo ha intuito, e quindi alla fine si è buttato nella campagna, nel tentativo di sostenere Francesco Storace, un candidato simbolo del Polo: il Lazio infatti è una delle tre regioni, con Piemonte e Puglia, che potrebbero risultare decisive nel calcolo della vittoria, e una sconfitta di Storace apparirebbe catastrofica, e in quanto tale destinata ad aprire un regolamento di conti nella Casa delle libertà. Storace è in tensione. Il recupero di Alessandra Mussolini infatti rimette in lizza una formazione adatta a rastrellare quel voto di protesta che risente marcatamente della riconoscibilità dei candidati. È vero che in passato Storace è apparso in grado di presidiare con efficacia il consenso di frontiera, incanalando il voto delle borgate, ma è altrettanto vero che la Mussolini sembra la candidata perfetta per sottrarre preferenze di confine. Nello stesso tempo, la campagna del candidato del centro-sinistra, Piero Marrazzo, è apparsa più efficace del previsto, in grado di convincere alla lunga l'elettorato di riferimento ma anche di insinuarsi polemicamente in alcuni punti deboli dell'attività di governo di Storace. Il quale ha lanciato l'allarme: «Se perdiamo il Lazio, il prossimo premier è Prodi». La partita appare molto aperta, ma lo stesso coinvolgimento del premier, con il faccia a faccia indiretto con Prodi, segnala che il risultato nel Lazio è un elemento altamente critico, condizionato dagli eventi dell'ultima ora (è ancora da valutare se l'infortunio dell'"Unità" a proposito del padre di Storace, fortissimamente drammatizzato dal centro-destra, possa avere avuto l'effetto di un involontario soccorso rosso al governatore). L'altra regione che fa da test politico rilevante è il Piemonte. Perché mette in gioco una figura, quella del "forzista di buonsenso" Enzo Ghigo, gradita agli establishment e accettata da una larga generalità di elettorato. Eppure l'aspetto confortevolmente moderato di Ghigo è stato via via sgretolato dal forcing della candidata dell'Unione, Mercedes Bresso. Che ha risalito lentamente le posizioni, guadagnandosi la fama di combattente irriducibile, e che ha compiuto uno sforzo straordinario di convincimento negli ambienti del potere subalpino: fra circoli di professionisti e associazioni di settore, nessuna lobby, nessun gruppo d'interesse e nessun aggregato di potere locale è stato trascurato dalla poderosa Mercedes. Le conseguenze possibili inquietano Berlusconi e la Cdl. Perché perdere un paio di regioni minori è politicamente tollerabile. Ma perdere una grande regione del Nord, no. Al punto che per sostenere Ghigo è sceso in campo addirittura il ministro dell'economia, Domenico Siniscalco, che il martedì dopo Pasquetta si è presentato al Centro Congressi dell'Unione Industriale, classico luogo di ritrovo della borghesia torinese, per offrire il suo appoggio al governatore uscente, sotto la regia del coordinatore locale di Forza Italia, Guido Crosetto: «Ghigo ha governato bene, il Piemonte è un modello». Ora, che un uomo duttile come Siniscalco, sempre attentissimo a sottolineare la sua funzione di tecnico non-partisan, abbia accettato di manifestare il suo "endorsement" per Ghigo, la dice lunga sull'entità della posta in gioco. L'altro aspetto da valutare, ai fini del giudizio degli elettori, concerne la puntata elevatissima, giocata dal governo e dalla maggioranza, sulla riforma costituzionale, con il via libera in prima lettura alla devolution e al premierato. Ma non è detto che ciò possa dare risultati diretti. Le regioni più sensibili al tema devolutivo, vale a dire Lombardia e Veneto, non sembrano a priori contendibili dal centro-sinistra. Il successo ottenuto da Umberto Bossi (e da Giulio Tremonti come coautore dell'Asse del Nord) non sposta significativamente il rapporto di forza, particolarmente sfavorevole al centro-sinistra, nonostante il recente appannamento di Roberto Formigoni e di Giancarlo Galan. Su un piano più generale, c'è da valutare, semmai, il possibile effetto negativo della riforma costituzionale, enfatizzato ad esempio dal durissimo intervento di un commentatore come Ernesto Galli della Loggia, che sul "Corriere della sera", ha parlato di «patria perduta». Il diffondersi di una valutazione estremamente critica sul progetto costituzionale della Cdl (una sorta di inatteso effetto "il re è nudo") è una novità spiacevole per il centro-destra. Quanto alla terza regione in bilico, la Puglia, è un esperimento che metterà a dura prova gli analisti e i leader politici. Soprattutto Prodi qui potrebbe pescare una carta difficile. Fino a questo momento, mentre la tendenza sembra essere incertissima, la performance di Nichi Vendola, «estremista» per autodefinizione, sembra premiare chi sostiene che il centro-sinistra non deve puntare al recupero del voto moderato, bensì alla qualificazione di un profilo forte e riconoscibile. Finora insomma trova soddisfazioni lo schema di Fausto Bertinotti, che ha spostato Rifondazione comunista nell'ambito governativo, ma che sostiene che l'alternativa alla Cdl va portata esplicitamente da sinistra. È un tema, questo, che un'eventuale vittoria di Vendola, con la sua capacità di mobilitare il voto popolare, di immergersi nelle piazze e nelle periferie, porterebbe a una temperatura rovente. Perché finora Prodi ha condotto tutto il suo sforzo per integrare Bertinotti nel perimetro dell'Unione. Ma il leader del centro-sinistra sa benissimo che in diversi ambienti (nell'elettorato delle categorie economiche, in particolare, fra artigiani, commercianti, gruppi professionali) in questo momento l'Unione viene considerata politicamente squilibrata. La Puglia quindi diventa un esame complicato: per i suoi riflessi sulle primarie e sul baricentro dell'alleanza. Anche Prodi si gioca molto. Perché a sinistra c'è l'aspettativa di un successo. E un successo solo parziale verrebbe considerato come una mezza sconfitta. Ma non solo, forse neppure vincere le regionali basterà: occorrerà anche gestire l'eventuale successo, e capire se in proiezione 2006 sarà decisivo accentuare la linea moderata, oppure spingere su una Unione radicalmente alternativa. Un tema su cui Prodi ha messo in gioco la propria immagine politica.
L'Espresso, 14/04/2005
Revisionismo da telenovela
La fiction televisiva serve per fare ascolti, per creare eventi, per uscire dal circuito malefico dei reality show, per smuovere l'etere. Fosse tutto qui, benissimo. Ma da qualche tempo gli sceneggiati, genere in cui svetta Raiuno, sono anche altro. Qualcosa di culturalmente rilevante, e non per la qualità televisiva o narrativa. La qualità è come il coraggio per don Abbondio: che ci sia o non ci sia dipende da fattori imponderabili; chi ce l'ha se la tiene, e chi non ce l'ha non se la può dare. Eppure vorrà dire qualcosa se la Rai ha prodotto, con precisione e puntualità chirurgica, una fiction come "Il cuore nel pozzo", dedicata alle foibe: vuol dire che la televisione di intrattenimento provvede a sottolineare un mutamento nella percezione della storia. Ricostruisce la memoria, asseconda una revisione. Se vogliamo dirlo con una formula, da qualche tempo stiamo assistendo a un processo che prende le mosse da Renzo De Felice (o meglio, il De Felice della nuova vulgata, usato politicamente in chiave "anti-antifascista") e si stende sui programmi di intrattenimento popolare. Non solo. Oltre ai padre Pio che evocavano l'idea di un paese arcaico e miracolistico, e al dignitoso Giovanni XXIII che massimizzava comunque la figura popolare del "papa buono", si sono visti sceneggiati con il repubblichino buono e il partigiano mutrioso, più o meno alla pari nelle ragioni e nei torti, traducendo così per l'auditel il revisionismo corrivo delle ultime stagioni. Dopo di che c'è stato il Meucci, storia da sussidiario, ma capace di trasmettere un'italianità ferita, funzionale all'idea nazionalpopolare che l'Italia deve contare di più. Vedremo la fiction su Cefalonia con Zingaretti, augurandoci che il patriottismo non diventi giulebbe. Assisteremo al prossimo De Gasperi di Raiuno con curiosita ma anche con timore, non tanto dell'interpretazione di Liliana Cavani, ma dei prevedibili tentativi di appropriazione di De Gasperi stesso. Tempo fa, la storia veniva riscritta con lentezza, attraverso lo stratificarsi delle interpretazioni (ne è un esempio il saggio di uno storico di valore, Agostino Giovagnoli, con il suo ultimo lavoro, "Il caso Moro. Una tragedia repubblicana"). Se ora invece la storia la fa la tv, non c'è poi da stupirsi quando qualcuno, fra revisionismo e televisionismo, sostiene pubblicamente la tesi molto "fictional" della lunga dittatura comunista sull'Italia repubblicana.