L’Espresso
L'Espresso, 14/04/2005
La fiction è finita
In un paese che sembrava lievitare nel mondo dei sogni, il 3 e 4 aprile è venuto giù il fondale, il palco e il sipario dell'operetta. La fiction è finita. L'"irreality show" (definizione di Ilvo Diamanti) ha chiuso bottega, e i partecipanti si guardano intorno smarriti, incolleriti, comunque attoniti come dopo l'arrivo di una grandinata fuori stagione. Sembra che nell'anno di grazia 2005, prendendo a volo l'occasione delle elezioni regionali, la società italiana abbia deciso di comunicare, alle autorità competenti della Casa delle libertà, che dopo avere a lungo creduto al sogno, al presidente operaio, al "meno tasse per tutti", al contratto, alla stilografica, al cerone, al riformismo avventuroso e al miracolismo berlusconiano, era l'ora di tornare alla realtà, cioè alla sostanza vera e irriducibile delle cose. Prima c'era quell'Italia che ammirava la spregiudicatezza mediatica e l'immagine esteriore di Silvio Berlusconi: il lifting "leggero", la bandana, il trapianto così riuscito, «faccio tutto quello che facevo a trent'anni, è concessa anche l'interpretazione maliziosa», e giù risate complici. Adesso la realtà riprende il sopravvento. Altro che populismo elettronico, altro che look, altro che delirio di superficie e di apparenza ideologica. Siamo alla dura realtà fenomenica. Alle cose. Alle azioni politiche. Ai fatti. Alla fatica. Non è chiaro dove e quando sia avvenuta la mutazione climatica. Probabili le ragioni economiche, in primo luogo. Tuttavia ci sono almeno due aspetti immateriali da mettere in luce, perché fanno da sintomo di un cambiamento profondo. Il primo indizio è il risultato di Alessandra Mussolini, che nonostante un'esposizione pubblica fuori misura, con tutto il suo populismo trash ha incassato percentuali che la fissano all'irrilevanza. Non può nemmeno dire di avere determinato la sconfitta di Francesco Storace. Il che significa che la visibilità televisiva e le polemiche tipo «ma tu lo sai quanto costano i pannolini?», o «ahò Vespa, quanto ci costi, eh, quanto ci costi, Vespa?», non si trasformano necessariamente in consenso politico, e questo ha il sapore di un rassicurante ritorno alla razionalità. La seconda sorpresa è stata la sostanziale smentita della tesi sulla disattenzione dell'elettorato in seguito alla saturazione dell'informazione per l'agonia e la morte di papa Wojtyla. Benché le televisioni e i giornali siano stati inflazionati dall'effetto-papa, non c'è stata nessuna diserzione dalle urne. «Un sintomo di salute della nostra democrazia, qualcosa di rassicurante per chi ce l'ha a cuore», ha detto Arturo Parisi nella notte del grande terremoto elettorale. Ciò sembra dire che il risultato delle elezioni regionali, quello stellare 11 a 2 che ha lasciato alla Casa delle libertà soltanto il Lombardo-Veneto, covava da tempo come un fuoco sotto la cenere (o forse come una ruggine sotto la vernice berlusconiana). Fine del sogno. Bentornati fra noi, nella realtà aspra e difficile dell'Italia contemporanea. Oh, intendiamoci, il bagno di realtà è anche un monito secco al centrosinistra: perché si dovrebbe capire che i voti ottenuti, e il sorpasso arrembante sulla Cdl, dissolvono anche tutte le dicerie, le leggende, le mitologie, i pettegolezzi sull'Unione e la sua leadership. La folla dei candidati alternativi al "bollito" Romano Prodi, capeggiata secondo i soliti mondani da Walter Veltroni, da Francesco Rutelli o da chiunque altro, arretra come una folla di vampiri davanti a una fiaccola che anticipa il chiarore dell'alba. Il rientro nel soleggiato mondo diurno fa anche capire che tutte le chiacchiere sulla fisionomia e l'anima del centrosinistra appartengono a un'altra epoca, e probabilmente appartiene al passato anche lo strumento delle primarie, che Prodi ha agitato a lungo per chiarire le posizioni interne e per sconfiggere le ombre mediatiche che a loro volta venivano agitate o si agitavano contro di lui. Dovrebbero tornare alla realtà anche tutti coloro, numerosi soprattutto nell'establishment economico, che hanno sempre mantenuto un'equidistanza altezzosa rispetto allo schema bipolare. È il bipolarismo, darling. Uno schema politico che implica ragionamenti semplici fino alla semplificazione. La Cdl non funziona? E allora si prova l'Unione, non si va alla ricerca di una partita "terzista" o neocentrista giocata con carte immaginarie. Se dopo quattro anni di governo del centrodestra si continua a chiedere, come ha fatto e continua a fare Luca Cordero di Montezemolo, di «mettere finalmente l'industria al centro dell'agenda», vuol dire che finora Berlusconi si è fatto gli affaracci suoi, ha sistemato quasi tutte le pendenze giudiziarie, ha legificato a suo uso e consumo con la legge Gasparri, ma dell'economia reale si è disinteressato largamente. Sarà il caso anche di chiedersi come mai Berlusconi non abbia intuito, o abbia intuito solo in parte, il rovescio che stava per capitargli. Perché abbia tentato, con sempre maggiore fiacchezza, la carta dell'anticomunismo, l'ombra di «terrore, miseria, morte» se vince il Male, con il risultato che in Puglia un comunista gay fa fuori il clone berlusconcino. È vero che alla fine, da Bruno Vespa, aveva quasi ammesso che per la Cdl la prova regionale sarebbe stata difficile, «perché l'economia non va bene». Ma evidentemente anche il premier era prigioniero di Mirabilandia, del mondo fantastico e pieno di balocchi illustrato ogni sera dalle soap opera dei tg di regime. Ottenebrato dalla propria costruzione comunicativa. Incapace di rilevare le sacche di rancore che si sono create in questi anni nel corpo della nostra società, con le rivolte dei pendolari, l'impoverimento del lavoro dipendente, l'insofferenza dei ceti depredati dopo essersi rivolti fiduciosamente a Lui per avere qualche briciola del banchetto. Perché se si accetta la logica di Berlusconi, la sconfitta alle regionali è inconcepibile. Come può maturare una batosta del genere mentre antenne e satelliti dipingono l'Italia come il paese del sogno e la caduta dei consumi viene attribuita al fatto che gli italiani si sono messi a dieta? Com'è possibile che la realtà possa permettersi di smentire l'immaginazione, quando la fantasia fiorisce in un giardino mediatico tenuto sotto ferreo controllo proprietario o politico? Un piccolo ma significativo segnale, a volerlo cogliere, era stato anche il fiasco della manifestazione fiorentina organizzata da Maurizio Scelli, con i presunti giovani del nuovo movimento artificiale Italia di nuovo. Altro segnale di sfasatura, la surreale serata di Berlusconi da Bruno Vespa, il giovedì prima delle elezioni, con le scritte in sopvraimpressione che segnalavano "la trasmissione è registrata": sicché mentre su tutti i teleschermi del mondo cominciava l'agonia del papa, Berlusconi raccontava barzellette, veniva mostrato proprio a Firenze da Scelli mentre parlava sul palco con un trentenne corpulento e calvo, a cui celentaneggiando dava consigli tricologici, alludendo alla buona riuscita del proprio trapianto. Per ora Berlusconi incolpa gli alleati, il "subgoverno", i politicanti Fini e Follini, rifugiandosi nell'amara constatazione che soltanto Umberto Bossi e la Lega si sono dimostrati amici fedeli. Già, ma l'Asse del Nord è un'illusione, fomentata inutilmente da Giulio Tremonti. Tanto più che la prima autentica irruzione di realtà nel paese di Lucignolo fu segnalata proprio dallo schianto con cui cadde il ministro dell'Economia, «il nostro uomo migliore», il centravanti della Tremonti- bis, il capo delle partite Iva, il genio della finanza creativa con cui suppliva alle ripetute disillusioni sulla crescita e alle smentite fattuali dei suoi Dpef. L'illusorietà politica dell'Asse del Nord è certificata dai suoi effetti politici e istituzionali. Per restare sottobraccio con la Lega, Berlusconi ha dovuto farsi in quattro per approvare una riforma costituzionale onirica, che non dispiace soltanto a Giovanni Sartori, a Domenico Fisichella, ai giuristi progressisti dell'associazione Astrid, ai "comunisti", ai dossettiani: dispiace a tutti, compresi i suoi alleati dell'Udc e di An, che finora hanno trangugiato, ma domani, visto il disastro, anzi «l'ecatombe», secondo il commento dell'abbattuto neoandreottiano Storace, decideranno che la riforma va messa nel ripostiglio della Casa delle libertà: anche perché si è visto che nel Centro-sud la devolution è diventata una briscola in mano agli avversari. È stato davvero un referendum: su Berlusconi e sul berlusconismo. Hanno votato "contro" molti di coloro che si erano lasciati prendere dall'euforia economica. E che magari erano stati ampiamente delusi dalla riforma delle aliquote fiscali, cioè dalla grande "ricetta" del capo di Forza Italia, ritrovandosi pochi spiccioli in tasca dopo annunci portentosi e dopo l'incontrollata inflazione post-euro. E che attendono ancora le grandi opere, quelle che secondo Pierluigi Bersani vengono inaugurate anche tre volte di fila, per sfruttarle propagandisticamente. Ecco, ci sarà tempo per analisi più approfondite. Ma intanto è bastata una serata per fare passare il Cavaliere dal miracolo alla piatta realtà, dall'euroscetticismo trionfalistico dello sbrego al Patto di stabilità ai richiami pesantissimi del commissario Joaquín Almunia: insomma, dal sogno al disagio del risveglio, gusto amaro in bocca, irritazione con amici e avversari. C'è da scommettere che Berlusconi tenterà di rialzarsi più allegro e dinamico che pria, e si può giurare che l'Unione, nell'anno che viene, farà di tutto per farsi male. Nel frattempo, però, benvenuti tutti nell'Italia vera.
L'Espresso, 14/04/2005
Sua Tele Santità
Fosse stato soltanto un leader della comunicazione, o un talento creativo capace tecnicamente di esaltare le folle, Giovanni Paolo II non sarebbe stato il genio pubblico che è apparso ai popoli di tutti i continenti. Non era una pop star. Non era nemmeno un'icona serializzata alla Andy Warhol e canonizzata dal culto dei papa-boys. Se nel suo caso si fosse trattato solo di una qualità retorica specifica, cioè di una particolare modalità comunicativa, il papa non sarebbe riuscito a scuotere il mondo. Quindi, per capire come Karol Wojtyla sia riuscito ad agitare la storia, occorre sciogliersi dall'idea postmoderna che la voce del pontefice sapesse diffondersi grazie a un tocco carismatico, che gli permetteva di approfittare di ogni strumento e di ogni piega della mediaticità. Non è così, non è stato esclusivamente questo. A mano a mano che i giorni passano, dopo il triduo lunghissimo dell'agonia, mentre le televisioni di tutto il mondo continuano a rimandare le immagini dei suoi viaggi e della sua traiettoria planetaria, bisognerebbe provare a capire che il ruolo di papa Wojtyla tra il finale del Novecento e l'avvio del nuovo millennio è stato innanzitutto una funzione dettata dalla consapevolezza profondissima della propria cultura. La comunicazione viene dopo. È uno strumento. Prima della comunicazione viene la convinzione, la fede, la certezza irriducibile della propria idea. È quella convinzione profonda che lo induce a mobilitare le coscienze dei polacchi, durante il maestoso viaggio nella sua patria "socialista", dal 2 al 10 giugno del 1979, nei giorni in cui l'intero paese comincia a cambiare volto. Il papa polacco, colui che era stato il ragazzo di Wadowice, il poeta e l'operaio, raccoglie folle acclamanti che dopo trent'anni di regime manifestano con l'entusiasmo e la commozione, con il riso e il pianto, una speranza nuova e radicale. Il simbolo più vistoso è la grande croce che campeggia in piazza della Vittoria a Varsavia, il luogo delle truculente celebrazioni comuniste. Ma è lo slogan di Giovanni Paolo II a suggerire a Lech Walesa e a chi è già pronto a insorgere contro il comunismo che il cambiamento è un obbligo morale: «Non abbiate paura». Quelle parole che sono la cifra esclusiva di tutto il suo pontificato, diventano in quel momento «non abbiate paura di cambiare la faccia del mondo». Nelle sue parole di allora c'era evidentemente la sensazione che sarebbe bastato poco, un soffio dello Spirito, a disgregare l'ormai esausto totalitarismo comunista, e che quindi in quel momento, e in quel decennio che avrebbe portato allo sbriciolamento del Muro di Berlino, occorresse prefigurare una visione dell'unità spirituale dell'Europa cristiana: l'Europa delle cattedrali, quell'entità sociale, religiosa e umanistica che si sarebbe manifestata felicemente dieci anni dopo, esemplificata dal bellissimo "Te Deum" di ringraziamento nella cattedrale di Praga, dopo la caduta dei regimi comunisti e l'emancipazione dei popoli dell'Europa centro- orientale. La potenza mediatica, così come il carisma personale, nascono quindi proprio dalla saldezza della propria "memoria" e della propria "identità", i due cardini della sua autobiografia. L'impeto comunicativo di un papa che ha operato nell'era della televisione si è visto nei momenti in cui folle sterminate e colorate si stendevano davanti a lui, masse poverissime reclamavano un suo gesto, e Wojtyla poteva offrire soltanto il suo pastorale, il crocifisso a cui restava avvinto, a cui appoggiava la fronte come per ritrovare forza di fronte alle evidenti iniquità del mondo, e la sua parola antica e nuova. La memoria è la consapevolezza storica che induce a grandi gesti, a chiedere perdono per le ingiustizie e le colpe della Chiesa e per le sofferenze inflitte alle minoranze religiose, a pregare davanti al Muro del pianto, a recarsi nella sinagoga di Roma; così come, sempre in quel primo viaggio da papa in Polonia, a celebrare la messa ad Auschwitz, nel «Golgota del mondo contemporaneo», che lo condurrà a una costante riflessione sulla Shoah. Il dono comunicativo di Giovanni Paolo II era in realtà la forza di una volontà e la certezza della propria antropologia. Una visione dell'uomo che si era già formata prima di ascendere al soglio di Pietro e che per diventare una voce universale aveva bisogno soltanto di un ascolto globale. È ancora in quel viaggio in Polonia, nel discorso epocale rivolto agli operai dei cantieri di Nowa Huta, che prelude alla rivolta civile e politica di Solidarnosc, che Wojtyla parla del lavoro dell'uomo, e di come non possa essere trattato come una variabile o una funzione del processo di produzione economica. Joaquín Navarro-Valls, che gli è stato accanto per più di vent'anni, sostiene che il papa aveva maturato la consapevolezza che il cristianesimo, cioè la tradizione, la memoria, doveva affrontare due sfide culturali ingenti: «Il marxismo, ossia una pratica senza più teoria, e lo strutturalismo, una insidiosa teoria senza pratica». Sotto questa luce, la sintesi di Wojtyla è stata originale. «Quello che apparve dopo il conclave del 1978 sulla scena europea e mondiale», ha detto Navarro-Walls, «era un intellettuale molteplice per cultura: polacco nella poesia e nella storia; tedesco in filosofia, conoscitore di Husserl, Scheler, Heidegger, ma anche attento alla Francia, fino all'esistenzialismo di Sartre». Questa è l'identità: un'identità culturale, un'identità filosofica, un "discorso" continuo sulla persona. Qualcosa che consentì a Giovanni Paolo II di parlare delle «stimmate di morte» contenute nel capitalismo; e nello stesso tempo dei «germi di verità» contenuti addirittura nella concezione marxista. Certo, memoria e identità devono incarnarsi in atti concreti, scendere dal trono pontificale e andare negli stadi e nelle spianate, venire a contatto con la fede dei minatori colombiani o dei campesinos messicani, chiamare a sé gli abitanti delle favelas brasiliane, ma anche ammonire Fidel Castro stringendogli la mano, e trattare i potenti della terra come uomini che sbagliano, richiamandoli ai doveri della pace. Tutto questo ha poco in comune, come sottolineò dopo il primo decennio di pontificato un vaticanista come Domenico Del Rio, con il "Wojtyla Superstar" celebrato dall'America hollywoodiana, e nemmeno con il "Goleador de la Iglesia" entusiasticamente popolare nell'America Latina. Il fascino probabilmente irripetibile di Giovanni Paolo II e la fascinazione totale che ha esercitato sul pubblico mondiale sono una successione impressionante di gesti rituali e di parole tradizionali. Come quelle legate alla recita del rosario, alle preghiere e alle giaculatorie di un cattolicesimo del cuore, che danno voce al potente "Sia lodato Gesù Cristo!" con cui appena eletto si rivolse alla gente di Roma. E accanto a quella tradizionale, una gestualità nuova, un'interpretazione soggettiva e talentuosa della retorica richiesta dalle telecamere nell'era della civiltà elettronica. Elicotteri che si sollevano o atterrano con fenomenali effetti scenici, la terra baciata dopo la discesa da qualsiasi aereo, le mani che si tendono per accarezzare e per essere afferrate, le passeggiate, le discese con gli sci, i tuffi in piscina, i bambini sollevati con la forza del prete maschio e atletico, le parole gridate contro l'ingiustizia o la guerra, i cedimenti deliberati e gioiosi al folklore locale, le liturgie interpretate con doti di grande attore e i protocolli infranti con infallibile senso della scena, le costruzioni scenografiche sapientissime; e ovviamente le immersioni drammatiche nella povertà, nell'Africa dell'Aids e della disperazione o nell'India dei morenti di madre Teresa di Calcutta: per esclamare «Cristo stesso diventi africano!», offrendo all'infelicità e alla povertà estreme un cenno di speranza. Tutto questo è stato Karol Wojtyla. Per qualcuno, un'interpretazione geniale del medioevo più la televisione. In modo forse più appropriato, un genio antico, moderno, postmoderno che ha voluto pregare per gli uomini e con gli uomini, in mondovisione.
L'Espresso, 21/04/2005
Un messaggino per il papino
Tra i fenomeni singolari avvistati durante l'agonia e i funerali del papa, con i dilemmi sul che fare, "the show must go on" come vorrebbero i Queen, oppure ci si mette in lutto?, una delle soluzioni più curiose è stata quella di Mtv. In sintesi: sospensione della programmazione normale, video di canzoni "tristi", e nel sottopancia gli sms del pubblico giovane (100 mila in meno di una settimana). Si sa che viviamo tempi televisivi, al punto che la folla raccolta in San Pietro, all'annuncio della morte di Karol Wojtyla, applaude. Normale, se è vero il giudizio di Bill Clinton sulla presenza scenica del papa: «Una rockstar». Eppure pregano, a loro modo, i ragazzi che mandano i messaggi a Mtv, e li vedono passare in sovraimpressione durante un video di Moby. Ci sono i figli dell'infantilismo, che dicono «Karol, sarai sempre il nostro papino», e ci sono quelli sformati dal gergo giornalistico e tv: «Un pontefice che ha lasciato un'impronta...», «un impatto fortissimo sul mondo globalizzato...», come se avessero sessant'anni e non 20, perché a 20 nessuno dovrebbe usare le parole pontefice e impatto. Comunque, quei messaggi segnalano che tutto è comunicazione, tutto è televisione possibile e praticabile, anche se alla maniera adolescenziale: «Giovanni Paolo sei stato... grande!...", con il normale abuso di puntini, esclamativi e maiuscole che praticano in questi casi gli adolescenti e Vasco Rossi. Comunque, si capisce che è sempre questione di misura. A Roma il troppo volonteroso capo della Protezione civile Bertolaso voleva sospendere il concerto romano dei Queen, vedi caso. Ignaro, il poveretto, che lo show è lo show, and must go on. Difatti i Queen l'hanno mandato a quel paese. La soluzione-Mtv ha salvato capra e cavoli: intanto le canzoni tristi sono generalmente più gradevoli del pum pum normale, dell'hip hop, del fastidio quotidiano del rap. Se non ricordo male, su Mtv passano raggelanti programmi di "istruzioni per l'uso" sessuale. Il che conferma che tutti ammirano il papa e nessuno segue i suoi moniti in materia morale. Ma in fondo si può capire che nella società scristianizzata il mezzo è il messaggino, la preghiera può diventare elettronica, e dunque non ha tutti i torti chi scrive «Veglia su di noi anke da lassù».
L'Espresso, 21/04/2005
Trecento giorni da doroteo
Si erano incrociati facendo anticamera in un ministero. Tempi della profonda prima Repubblica. Silvio Berlusconi si era profuso in un peana per i capi dorotei, per la saggezza con cui amministravano il potere, per il realismo con cui concepivano la politica. Marco Follini, detto allora "il giovane Follini", si era schermito: «Purtroppo, dottore, non ci sono più i dorotei di una volta». Ormai Mariano Rumor, Flaminio Piccoli, Toni Bisaglia appartenevano in effetti al passato della Balena bianca. Ma con uno scatto più che atletico Berlusconi balzò in piedi dalla poltrona in cui era sprofondato, indusse il futuro capo dell'Udc ad alzarsi per imitazione e lo abbracciò mostrando una commozione così sfacciata da sembrare vera: «Ma c'è lei, Follini!». Sono passati alcune epoche politiche, ma l'eco di quella lontana conversazione grava sulla politica italiana. Perché dopo il knock down delle elezioni regionali, Berlusconi non ha molte scelte strategiche davanti a sé. Certo, c'è sempre la "exit strategy" suggeritagli dal realismo nichilista di Giuliano Ferrara, giocarsi la partita delle elezioni politiche nella serena accettazione della probabilità di perderle, e nel frattempo preparare razionalmente la successione. Tuttavia questo implicherebbe una qualità politica, e anche ideologica, che Berlusconi non ha mai mostrato. Il Cavaliere è pragmatismo puro. Intuisce che ripresentare il programma di governo per gli ultimi 300 giorni in una chiave ancora liberista e devoluzionista significherebbe andare a sbattere. Quindi procede a tentoni dentro una strettoia al cui termine ci sono alternative diaboliche. Se sposa fino in fondo l'ideologia supply- sider, il taglio delle tasse, la polemica antistatale, cioè l'Ur-Berlusconi, il "subgoverno" An-Udc si mette di traverso. Se invece si sgancia dal programma dell'Asse del Nord, per mitigare l'insofferenza centromeridionale rispetto alla devolution, Umberto Bossi e tutta la Lega minacciano l'Armageddon. In queste condizioni un uomo bramoso di consenso come Berlusconi può anche avvertire un intimo senso di frustrazione. Sono i supplizi della politica. Inutilmente il Cavaliere ha provato a spiegare agli alleati che nel 2006 si può vincere con operazioncine di "politique politicienne" come il recupero di Marco Pannella e Alessandra Mussolini. Mentre i centristi sentono il gradevolissimo odore di emancipazione dal partito-azienda, i leghisti fanno la faccia feroce come sempre, forti del discreto successo alle regionali. Precipitato in poche ore da deus ex machina a problema politico, Berlusconi può intravedere un barlume in fondo al tunnel soltanto con il troncare e sopire di manzoniana e dorotea memoria. Un contentino alla Lega, almeno a parole, una revisione al ribasso del Contratto con gli italiani, un programma dei 300 giorni all'antica, di stampo moderato e democristiano: famiglia, impresa, Mezzogiorno. Trecento giorni di un Cavaliere forlanizzato. Rassicurante, dimesso, quasi pentito anche se il pentimento non è fra le sue propensioni innate. E sempre con il retropensiero, purtroppo per lui, che a fare i dorotei sono più bravi quegli altri, quelli che sono stati battezzati a Santa Dorotea. Sicché quella vecchia esclamazione, «ma c'è lei, Follini!», potrebbe anche diventare l'epitaffio paradossale sulla politica del Cavaliere.
L'Espresso, 28/04/2005
Quel Porrà è un bomber di razza
Vista una puntata clamorosa del programma cult di Giorgio Porrà "Lo sciagurato Egidio" (Sky, 8 aprile), dedicata più o meno alle relazioni proprie e improprie fra canzoni popolari e calcio. Dopo un avvio di maniera, con l'Antonello Venditti di "Grazie Roma" e il fisiologico De Gregori sulla paura di tirare il calcio di rigore e teoria metafisica soprastante (non è da queste cose che si giudica un giocatore, continua a dire lui, ma il dubbio rimane), ecco 40 minuti di grande tv documentaria, a partire da un libro, "Un'estate con Chet", di Massimo Basile e Gianluca Monastra: con recensione strepitosa recitata dall'ex centravanti Gianluca Vialli, che esordiva con la confessione straniante «La musica di Chet Baker mi ha sempre dato emozioni violentissime». Sullo sfondo, all'epoca dell'arresto del jazzista in Versilia, immagini della Fiorentina scudettata. E soprattutto sequenze indimenticabili di Baker che accenna con la voce "Almost Blue". Dopo di che, intermezzi pop e momenti di sobria nostalgia, inframezzati da Paolo Conte che allude alla «genialità di uno Schiaffino», e un'intervista a Franco Battiato memore di quando gli toccò di marcare Pietro Anastasi, mentre scorre il bianco e nero della girata brasiliana (che Gianni Brera paragonò allo stile del grandissimo Leonidas del 1938), con cui nell'anno 1968, proprio quello della leva calcistica di De Gregori, il sicilianuzzo fissa il due a zero nella finale contro la Jugoslavia ipotecando il campionato europeo. Mettiamoci ancora Dario Fo e Paolo Rossi, e poi Rita Pavone a ricordare i tempi di Charles e Sivori (con filmati che mostravano come il gallese fosse anche capace nel tocco), quando lei cantava "La partita di pallone" di Rossi-Vianello, perché-perché-la-domenica-mi-lasci-sempre-sola; per finire con il Quartetto Cetra, "Che centrattacco!". Applausi. Un programma di velocità, di allusioni, di documenti, di misura, con una ricerca sofisticata sul corredo musicologico, citando perfino il Battisti semisconosciuto di "Un anno di più" («Io giocavo al pallone, sono il solito scarpone»); gestito al meglio da un Porrà che non legge il gobbo, improvvisa o si è preparato benissmo, sociologizza il giusto, allude un po', spiega ma non rompe, sicché uno dice: ma perché c'è solo "Lo sciagurato Egidio", a fare queste cose?
L'Espresso, 28/04/2005
Sì, Follini fa rima con Casini
Sono due anni che gli ortodossi berlusconiani del centrodestra si chiedono «ma che vuole Follini?». Per gli idolatri di Berlusconi, la presunta irriconoscenza dei neodemocristiani, con l'autentica "ingratitudine" di Marco Follini, è perfettamente incomprensibile. I centristi cattolici dovrebbero limitarsi a manifestare il loro eterno ringraziamento a Silvio Berlusconi, che ha offerto loro riparo, rappresentatività, potere e consenso, e anzi di più, la stessa possibilità di esistere in quanto forza politica. Ma proprio la politica ha ragioni che il cuore non conosce e il mistero doloroso del leader dell'Udc si può spiegare proprio esaminando gli obiettivi politici delle sue scelte. Di obiettivi se ne possono infatti individuare almeno tre: il primo di essi, per usare le parole della retorica berlusconiana, è "alto e nobile"; gli altri due sono bassi e spregevoli, almeno secondo i berluscones più devoti, anche se comprensibili e spiegabilissimi in chiave strategica. La prima finalità Follini l'ha espressa un'infinità di volte: non è possibile che il baricentro della Casa delle libertà oscilli sempre più pericolosamente dalla parte della Lega. Ci vuole un riequilibrio, altrimenti il centrodestra cambia la sua natura, non è più la casa dei moderati ma la casa degli estremisti. Un cattolico come Follini (ma anche come il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini) non può accettare facilmente che la coalizione cui appartiene scivoli via via a destra con una deriva liberista e devolutiva che non appartiene alla cultura della mediazione che da sempre caratterizza la democristianità. Il fatto è che Berlusconi da questo orecchio non ci sente. Il suo disinteresse pratico per le disquisizioni politico-culturali è tale da non capire nemmeno le obiezioni di Follini. Ha gestito a lungo il rapporto con Umberto Bossi con le cene del lunedì sera ad Arcore, «concedendogli tutto ogni volta», come confessò in diverse occasioni Follini, perché concedergli tutto era l'unico modo per evitare il fastidio delle richieste politiche di Bossi e delle sue affabulazioni mitico-magiche. Quindi ha sempre considerato le argomentazioni di Follini come elucubrazioni incomprensibili, fumisterie provenienti dagli ultimi fuochi della prima Repubblica. Naturalmente le considerazioni di Follini erano invece il punto qualificante della polemica interna alla Cdl, soprattutto per i riflessi che la deriva nordista aveva in tema di riforme costituzionali (ma senza trascurare le ripercussioni che ha avuto sulla politica economica del governo, e i contraccolpi che ha avuto nel Centro-sud). Di questo si tratta dunque secondo Follini: di trovare all'interno della Cdl una composizione che sintetizzi le posizioni federal-liberiste e nazional-centraliste presenti nel centrodestra. Per l'empirismo assoluto di Berlusconi, una sofisticheria incomprensibile. Ed è anche per questa incomunicabilità che vengono in luce le altre due finalità di Follini (e Casini), i due obiettivi un po' meno alti e un po' meno nobili, ma politicamente rilevanti. Il primo obiettivo consiste naturalmente nel tenere alta la tensione e quindi intensificare il ruolo politico e la visibilità del suo partito, che non a caso appare in netta crescita nei sondaggi dopo lo scatenamento della crisi di governo. D'altronde, la minaccia berlusconiana di arrivare al voto "espellendo" il partito di Follini sembra un'arma spuntata, dal momento che in termini di potenziale di coalizione nei collegi l'Udc vale quanto la Lega (ossia senza i voti neodemocristiani la Cdl perderebbe le elezioni senza scampo). Ovviamente il capo di Forza Italia minaccia l'Udc di portare via tutti i suoi voti, ma non è detto che si tratti di un'operazione scontata: il Berlusconi del 2005 non è più il Berlusconi del 2001, non è il vincitore per diritto divino. Quindi non è affatto detto che le sue minacce si avverino meccanicamente. Infine, proprio per queste ragioni, l'ultimo obiettivo di Follini & C. è il più rischioso. Consiste nel ridimensionare Berlusconi. Logorarlo. Relativizzarlo. Fare diventare Re Silvio una fra le ipotesi di leadership del centrodestra. Questa per i berlusconiani puri è la finalità più ignobile. Ma la politica è politica, e non prevede la gratitudine come modello comportamentale obbligato. Anzi, dopo le regionali, il risultato più vero è che Berlusconi è sceso dal trono: e Follini, con i suoi ingrati, vede complicarsi il futuro in modo promettente.
L'Espresso, 05/05/2005
I miracoli del Mago Forest
Ogni anno la critica si chiede se la Gialappa's Band ha chiuso bottega, ossia se il trio è definitivamente sbollito, e se la loro tv è da consegnare agli archivi (o da buttare nel cesso). È un bel dibattito. Questi sono temi, altroché. Vista l'ultima edizione di "Mai dire lunedì" (Italia 1, otto puntate il lunedì in prima serata) viene da pensare che il funerale mediatico di Giorgio Gherarducci, Marco Santin e Carlo Taranto sia da rinviare, almeno per quest'anno. Perché nel deserto dell'intrattenimento tv la creatività del trio è ancora diversi gradini superiore alla media (anzi, "Mai dire lunedì" è una delle poche trasmissioni che si può decidere di vedere, nella tv generalista). Segreti del programma. Da tempo i Gialappa's sfruttano la bravura di Michele Foresta, il Mago Forest, comicità moderna e non ancora del tutto riconosciuta. Cinico, cialtrone, infingardo, autentico "bagalun d'l luster" nell'accezione del professor Franco Cordero, ma fortunatamente superficiale, il Mago Forest impersona alla perfezione lo stile dell'Italia contemporanea, dove i fedeli (di qualsiasi fede) fingono di credere a quasiasi cosa, compresa la politica economica di Berlusconi, nella più completa malafede. Il secondo segreto è Fabio De Luigi, attore, cantante, imitatore, "fantasista". E il segreto definitivo è che "Mai dire lunedì" è un programma molto scritto, con le battute e gli sketch preparati da numerosi bravi autori fra cui spicca il talento ormai classico di Walter Fontana. Poi ce n'è anche un altro, di segreti. Cioè che il programma drena la superficie della tv, ne individua la demenza intrinseca, ci gioca sopra, ma mette sempre a confronto la cacca tv normale con la normale realtà che incombe su di noi. Quando i tre della Gialappa's sfottono il ministro Calderoli, si avverte la sensazione che in quel programma c'è qualcuno che non ignora l'idea che in Italia sono avvenute alcune tragedie: ci si può scherzare sopra, ma pur sempre di tragedie si tratta. Come quando Natalino Balasso, nella parte del ricercatore professor Nerpiolini, con l'espressione scientificamente ineccepibile, autentico morattian-style, dice: «Perché è chiaro che senza risorse la ricerca...», pausa, «va a puttane». Dietro "Mai dire lunedì" c'è la tesi che il paese è andato effettivamente a mignotte, e ci vorrebbe un cuore di pietra per non scoppiare a sghignazzare, anche se sotto sotto fa male.
L'Espresso, 05/05/2005
Quante trappole per il nuovo governo
Il Berlusconi 3 si trova con la pesante eredità lasciata dal Berlusconi 2. La riforma costituzionale voluta dalla Lega, prima di tutto. E poi la riforma della giustizia, il decreto sulla competitività, il Dpef (Documento di programmazione economica e finanziaria), la legge Finanziaria 2006. Un percorso di guerra, pieno di trappole per il nuovo governo. Vediamo. Riforma costituzionale Dopo il via libera del Senato la devolution torna alla Camera per la seconda lettura (che deve essere identica alla prima). Si voterà in autunno: buona parte della Cdl punta a tenere il referendum confermativo dopo le politiche del 2006. Un gruppo di deputati An, in dissenso da Gianfranco Fini, ha chiesto che il referendum si faccia prima del voto. L'udc Bruno Tabacci ha annunciato che metterà in piedi un comitato del No alla riforma Bossi-Calderoli. Riforma della giustizia Dopo il rinvio alle Camere da parte del presidente Carlo Azeglio Ciampi, la riforma Castelli è al Senato, procede in modo accidentato, tra strappi e polemiche. Legge Cirielli Meglio conosciuta come salva-Previti, la legge che dimezza i tempi di prescrizione dei reati è ferma al Senato. Michele Vietti, sottosegretario alla Giustizia uscente dell'Udc, ha consigliato di metterla da parte. Risposta dura di un altro sottosegretario, il previtiano Luigi Vitali: «Ma Vietti dov'è stato finora?». Dpef e legge Finanziaria Il Documento di programmazione dovrà essere presentato dal governo entro giugno e poi approvato dal Parlamento. La Finanziaria andrà alle Camere entro il 20 settembre. Scontro nella maggioranza su Sud, abolizione dell'Irap, riduzione fiscale. Legge elettorale La proposta di Vincenzo Nespoli (An), il "Nespolum", è depositata alla Camera. Forza Italia aveva chiesto la procedura d'urgenza. Dopo le regionali, però, si è tutto bloccato. Giudici Consulta Il Parlamento deve eleggere due giudici al posto di Carlo Mezzanotte e Valerio Onida. Già sette votazioni delle Camere riunite in seduta comune sono andate a vuoto. Competitività Il decreto è al Senato. Il governo ha presentato 40 emendamenti che cambiano radicalmente il testo. Risparmio Il disegno di legge è all'esame del Senato. La Camera l'ha approvato eliminando il mandato a termine del governatore della Banca d'Italia e mantenendo a Palazzo Koch la vigilanza sulla concorrenza bancaria. Ma ora sono nel governo Giorgio La Malfa e soprattutto Giulio Tremonti: avversari di Antonio Fazio. Libertà religiosa Apre la strada al riconoscimento giuridico dell'Islam. La Lega farà le barricate: già presentati emendamenti soppressivi a ogni articolo. Rai La commissione parlamentare di vigilanza deve eleggere sette consiglieri di amministrazione e votare sul nome del presidente di viale Mazzini, che passa se ottiene i due terzi dei commissari, con un accordo tra maggioranza e opposizione. Previsti tempi lunghi. E grande travaglio.
L'Espresso, 12/05/2005
C’è un’altra Chicago
Fra le programmazioni più sofisticate, merita uno sguardo il ciclo di Cultnetwork "Chicago, il seme dell'impero", otto puntate il lunedì alle 22 (canale 142 del bouquet Sky). È un'indagine sull'America condotta da Francesco Bonami, ex direttore della Biennale di Venezia (ora al Museo d'arte contemporanea di Chicago), ideata e realizzata dallo stesso Bonami con Stefano Pistolini. È un'America tutt'altro che ovvia, quella che viene fuori dalle interviste e dagli incontri. Nella puntata del 25 aprile, il corpo fondamentale del programma era costituito da un ritratto di Barack Obama, la stella nera democratica, l'unico senatore afroamericano, «un Denzel Washington con la determinazione di Martin Luther King» secondo la definizione di Bonami. In poche battute veniva fuori un "carattere" politico: un tanto di populismo, qualche residuo di pulsione utopica, il realismo a cui la politica costringe i leader, nonché una fisicità controllatissima e già "presidential". A fare da contraltare a Obama c'era poi, oltre al più noto scrittore di legal thriller, Scott Turow, anche una brillante mini-indagine nel mondo accademico, dedicata agli influssi di Leo Strauss, il filosofo eletto a paradigma dai neoconservatori. La qualità degli autori è visibile nel loro modo di far parlare quell'America che non è soltanto New York o Los Angeles, e neppure le autostrade e le praterie, lasciando spazio all'argomentazione, cioè senza comprimerla nei tempi sincopati della tv. Con il risultato di comunicare un senso di ricchezza e di complessità, perfino quando si incontra un docente di storia delle religioni che sembra catapultato nell'età contemporanea dall'epoca del "flower power". Mentre le puntate successive si annunciano dedicate al tentativo di intercettare indizi culturali, storie, parole, fisionomie antropiche, sembra promettente l'intenzione di "scrivere" un saggio televisivo sugli Stati Uniti, sulle loro società, sulle loro culture. Un saggio al plurale concentrato in una sola città. Utile quindi la passione di Pistolini per i dettagli narrativi, e la capacità di Bonami di individuare nelle "stories" urbane un senso coerente, facendo parlare le persone, gli oggetti e i ritmi stessi di una città, esercizio di sintesi di due fra le molte Americhe d'oggi.
L'Espresso, 12/05/2005
Non possiamo non dirci casinisti
Se il centrodestra del futuro è un puzzle, bisognerà vedere se il tassello più piccolo riuscirà a completare l'immagine. Cioè se Pier Ferdinando Casini diventerà il leader della Casa o dell'Alleanza delle libertà. Prima risposta: se non lui, chi? Se Silvio Berlusconi, sulla soglia dei settant'anni, dovesse effettivamente cedere il comando, c'è qualcun altro che potrebbe contendergli la candidatura a premier? I pretendenti non sono troppi, e nemmeno troppo qualificati. A parte il fatto di essere collocato nominalmente all'estremità della coalizione, Gianfranco Fini ha lo svantaggio di avere sbagliato finora tutte le mosse decisive: ogni volta, nelle crisi e nelle soluzioni delle crisi, il presidente di An si ritrova nella condizione dell'uomo che non deve chiedere mai, altrimenti gli dicono di no. Tant'è vero che nel Berlusconi bis si è ritrovato al proprio fianco come vicepremier Giulio Tremonti, ossia l'uomo di cui aveva chiesto e ottenuto la testa meno di un anno fa. Lo stesso Tremonti, allora? Ma Tremonti è un atipico, il creatore del forzaleghismo, l'uomo delle soluzioni troppo creative (altro che Berlusconi bis, ha scritto il "Financial Times", si tratta del "Tremonti beach", proprio nel senso delle spiagge). Un concorrente autorevole sarebbe Beppe Pisanu, ex sinistra dc, uno della "banda dei quattro" di zaccagniniana memoria: ma il ministro degli Interni non ha appeal fisico né carisma personale, mentre Pier Ferdinando, allievo dei dorotei Toni Bisaglia e Arnaldo Forlani, ha un look giovanilistico ma persuasivo, molto più adatto agli stilemi della seconda Repubblica. Al di là delle questioni di immagine, il punto centrale è che Casini sembra il leader appropriato per la ricostruzione politica e culturale del centrodestra. Ha una vocazione schiettamente bipolare, fin da quando, nel 1994, scelse di schierare la piccola vela del Ccd sotto il vento di Forza Italia. Anche allora manifestava una chiara impronta europeista, risalente alla sua tradizione, talvolta scontrandosi con l'ala euroscettica del Polo e della Lega. E ha anche la credibilità istituzionale assicuratagli da un'interpretazione morbida della presidenza di Montecitorio. Le ragioni politiche della "soluzione Casini" non finiscono qui. La legislatura attuale infatti ha mostrato il fallimento delle velleità berlusconiane di schierare il centrodestra in chiave liberista, dal momento che anche le timide realizzazioni "supply side" di Berlusconi, come il taglio delle tasse, si sono rivelate politicamente irrisorie. Dunque, se è fallito il tentativo di rifare una destra in formato simil-thatcheriano, ci devono essere motivi precisi e un'alternativa praticabile. I motivi sono che la Casa delle libertà non ha risolto la propria contraddizione interna (quella che risale al 1994, la contraddizione fra il Polo delle libertà e il Polo del buongoverno, cioè fra la componente federal-liberista e quella nazional-centralista, fra l'asse del Nord e il partito del Sud). Quanto all'alternativa occorrerà trovare un impasto politico-culturale diverso, più consono alla tradizione italiana. L'accento si sposta presumibilmente verso una coalizione popolar-conservatrice, non stressata ideologicamente e non ostile ai processi di modernizzazione: un'alleanza "cugina" della Cdu-Csu tedesca, saldamente radicata nel solco della politica nazionale e di un sostanziale interclassismo. Berlusconi era lo choc, Casini è la rassicurazione. A dispetto di altre velleità presenti nel centrodestra, il presidente della Camera non sembra avere rivali molto plausibili. Grazie alla sua funzione istituzionale è riuscito a mantenere un'immagine non faziosa (che a Bologna ha dato luogo a quell'area politico-economica che viene detta ironicamente "Prodi-Casini"). Se gli toccherà davvero ridare un'identità alla Casa delle libertà, Casini ha tutte le caratteristiche per configurare una coalizione che non punta esplicitamente sul conflitto, e che piuttosto modera i termini della competizione politica. Tutt'al più, si dovrà verificare se la prospettiva moderata sarà accettabile per gli estremisti del moderatismo che abitano la Casa.
L'Espresso, 26/05/2005
Invasioni poco barbariche
Se uno fa un programma che si chiama "Le invasioni barbariche", vuole dire che da qualche parte ci dovrà essere l'Impero. Sarà il duopolio, questo Impero? Sarà "Porta a Porta"? Ci sarà qualcuno, nella gibboniana Rai, "decline and fall of", ovvero nella potente Mediaset, che avrà nominato conduttore un cavallo? Comunque del programma di Daria Bignardi hanno parlato male praticamente tutti, sicché la tentazione di uscire dal coretto è inevitabile. A tutto sappiamo resistere, fuorché alle "Invasioni". Primo perché essa Bignardi è cambiata: chi guarda la sua trasmissione su La7 per ritrovare la conduttrice del "Grande Fratello" rimane ovviamente deluso, almeno se sperava di trovare la sorellastra cattiva, o la precettrice da beati anni del castigo, da immaginare in clamorose tenute bdsm. Macché, queste sono fantasie impraticabili, perché il nuovo programma è decente. Cose più, cose meno. Funzionano meno le interviste tipo roba da Mtv, come una fiacca e pretenziosa conversazione continuamente interrotta con il cantante Biagio Antonacci (figurarsi, uno che rompe la coppia che componeva con figlia di noto eterno ragazzo e intanto pubblica un disco intitolato: "Convivendo"). Ma ciò che invece funziona di più, nelle "Invasioni", è il tono. L'idea è naturalmente quella di tutti i facitori di programmi e di giornali, l'alto mischiato con il basso e il crudo con il cotto, secondo le migliori ricette degli antropologi, ma nel programma della Bignardi, l'asset è la Bignardi. Gli altri altobassisti non ce l'hanno una conduttrice capace di mettere insieme oggi un'intervista alla zia Rosy Bindi e domani un incontro con Alessandro Piperno, quello delle "Peggiori intenzioni" (che oltretutto si rivela subito di impressionante simpatia, o capacità mediatica, fate voi). Oppure, oppure, la migliore intervista che sia capitato di vedere negli ultimi tempi, quella a Laura Dolci, vedova del funzionario dell'Onu Jean Selim Kanaan, morto in un attentato a Baghdad, e capace di produrre una rara prestazione di ragione umana e consapevolezza civile e culturale. Mitigato il look, la Bignardi tiene la misura, non invade, non eccede, non straripa. Sembra sempre sul punto di dire qualcosa di tremendo e invece poi "rientra", non derapa: alla fine, lei e il programma hanno una buona tenuta.
L'Espresso, 26/05/2005
La sposa del ’43
Talvolta si ha l'impressione che un libro si possa riassumere in una frase. Basta pensarci un momento: «Jolanda compì ventun anni il 14 dicembre 1941, tre giorni dopo che Mussolini, affacciato al solito balcone di Piazza Venezia, aveva annunciato la guerra all'America». Jolanda è la giovane madre di Adele Grisendi, che ha appena pubblicato con Sperling & Kupfer un nuovo libro ancora una volta molto padano, "Baciami piccina" (272 pagine, 15 euro). La storia è quella di due famiglie contadine nel profondo della provincia di Reggio Emilia: «La piccola patria di tutta questa gente era Montecchio, un paese cresciuto sulla sponda reggiana dell'Enza, il torrente che segna il confine a ovest tra le province di Reggio e di Parma...». Ma la suggestione del libro nasce proprio dalla collisione fra le piccole storie famigliari e la grande storia del mondo. Che cosa succede quando il "mondo piccolo", che nella memoria siamo abituati ad associare al presepio emiliano di Giovanni Guareschi, ma che in questo caso è fatto dalla miseria di «sei biolche di terra, quattro vacche da latte e due manze», viene investito dalla furia della guerra, dell'occupazione, della paura? Per capirlo bisogna pensare alla vita in quel modesto paese, alla fatica, alle vicende delle famiglie in quel paio di decenni in cui la storia d'Italia sembra quasi immutabile, comunque sospesa. In cui i mezzadri conducevano la loro vita aspra, i rapporti fra i mariti e le spose, fra gli uomini e le donne erano di una durezza oggi inconcepibile, anche se non di rado temperati da un affetto trattenuto e silenzioso. Si risentono, in questo libro, i sapori, gli odori e i ricordi di "Bellezze in bicicletta", il libro in cui l'autrice aveva raccontato le quattro stagioni della campagna emiliana. Ci sono le serate nella stalla, nel calore umoroso delle mucche di razza "reggiana frumentina", con le donne che chiacchierano e gli uomini che giocano a carte. C'è anche, ed è naturale, quella vita così pesante, quel lavoro talmente duro, a cui allora soggiacevano uomini e donne, che oggi risulta quasi inconcepibile. E anche i rari momenti di riposo e di felicità, la messa la domenica, il fidanzamento, una gita a Bologna a raggiungere lo sposo giovane, lei "sposa del '43", qualche casto bacio a spasso per via Indipendenza, un gelato sui gradini di San Petronio: «Immancabilmente, dai caffè affacciati sulla piazza li raggiungeva la musica trasmessa da qualche apparecchio radio. Jolanda ascoltava in silenzio, invece il marito fischiettava. A piacergli più di tutti era Alberto Rabagliati, quando cantava "Baciami piccina"». Ciò che rende incantevole il libro di Adele Grisendi è il modo esplicito e insieme pieno di pudore in cui racconta la storia della sua famiglia e di sua madre. Lei lo dichiara nella prima pagina di questo suo lessico famigliare: ripensando ai suoi genitori, si pente di avere ascoltato spesso di?strattamente i loro racconti, e dunque di avere dissipato memoria, smarrito ricordi. Così, non c'è concessione all'elegia, lo stile è sempre trattenuto sulla soglia della commozione perfino quando viene ricordato l'abito da sposa della madre, oppure quando in quella famiglia così "antica" entra, dopo la nascita di una figlia «bella come una mela», una malattia così moderna e disperata come la depressione. Il libro si apre e si chiude con due incontri, in cui durante o dopo la malattia la madre ritrova la figlia. Ma già le prime parole del primo capitolo sembrano dette apposta per raccontare in modo quasi epico, come in una favola ambientata in Emilia, una storia vissuta con una scansione ineluttabile: «Da due giorni e due notti Jolanda parlava ininterrottamente. Senza avvertire la sete, parlava, parlava, parlava». In questa cornice narrativa, avviene una storia italiana raccontata con schiettezza: senza enfasi, senza indulgere al colore, con uno stile semplice. Perché in quel piccolo pezzo di Emilia, in «quell'ultimo centro della pianura che lascia il posto alle prime colline e poi all'Appennino», c'è posto per i ricordi e per la sincerità della memoria, non per la retorica.