L’Espresso
L'Espresso, 26/05/2005
Il sogno Berlusconi ha generato un incubo
C'è qualcosa di disperante nella parabola del governo, e non solo per la vicenda personale e politica del suo leader. Per ciò che riguarda il cavalier Silvio Berlusconi non ci sono troppe parole da spendere, tanto è stata rapida e chiara la sua caduta. Potrà forse sorprendere la gioia intima con cui molti fra gli alleati si sono dedicati al tiro al piccione, ma ciò ha messo in chiaro che il ruolo del "conducator", apparentemente indiscusso, era in realtà una finzione accettata formalmente dai soci della Casa delle libertà, che tuttavia si sentivano pronti a stracciarla non appena se ne fosse presentata l'occasione. L'aspetto più preoccupante della crisi deflagrata con le elezioni regionali è tuttavia legata all'economia. Una legislatura cominciata sotto i sorrisi che annunciavano il miracolo si chiude sotto previsioni fosche, con i conti pubblici presumibilmente fuori controllo, e con l'economia reale in recessione. Il sogno ha generato l'incubo. Vale ancora la pena di ripetere che il mandato di Berlusconi era fallito agli inizi del luglio 2004, allorché Fini e Follini ottennero la testa del superministro dell'Economia Giulio Tremonti. Stop, la legislatura finisce lì, con un fallimento accertato e sanzionato politicamente. Il resto sono scampoli. C'è solo da sperare che la violenza della crisi politica ed economica non induca i protagonisti del centrodestra a tentare vie d'uscita avventuristiche. Succede spesso nella storia che uomini che hanno avuto troppo potere, di fronte al proprio fallimento, se la prendano con i propri concittadini. Oppure che cerchino soluzioni disperate, affidandosi agli ultimi lampi di fantasia. Difatti se ne sono sentite tante, negli ultimi tempi. A cominciare dal presidente del Consiglio, che continua a prendersela con l'euro come causa di tutti i mali; per poi individuare una via di rilancio in un gran colpo finale di governo in deficit, lacerando le ultime convenzioni europee. Mentre il ministro per le riforme, Roberto Calderoli, «parlando da leghista e non da ministro», lancia l'idea di uscire dalla moneta unica e del ritorno alla lira. Ai rischi gravi e reali, alle tensioni che hanno investito l'economia del nostro paese, agli shock settoriali che la nostra industria comincia a riscontrare, alla perdita di competitività e alla concorrenza asiatica, si aggiungono quindi i pericoli di un governo che studia strategie economiche da ridotto in Valtellina. Apparentemente disposto, nelle sue frange estreme ed estremiste, anche a tentare colpi suicidi, e a vagheggiare strappi europei che ci ridurrebbero a una condizione sudamericana. Certo, esistono ancora alcune barriere all'estremismo scamiciato di questa destra pronta a giocarsi il paese con le tre tavolette. C'è il Quirinale, con un uomo come Carlo Azeglio Ciampi, "padre" della presenza europea dell'Italia, che non accetterebbe mai sbreghi colossali e bizzarri dettati dalla fantasia politica dei desperados. E sicuramente il ministro Domenico Siniscalco non accetterà di giocarsi il suo prestigio nella comunità degli economisti, e la sua credibilità in Europa, mettendo la firma sulle intimazioni eventuali di Berlusconi. Dopo di che, occorrerà trovare il modo di mettere la parola fine a questa esperienza catastrofica, al governo della Cdl: non perché qualcuno possieda la bacchetta magica per risolvere i problemi d'incanto, ma per cominciare a mettere realisticamente in sesto l'agenda, a guardare in faccia i problemi, a fronteggiare la durezza della realtà. Non si approssimano tempi facili per nessuno. Chiunque riprenderà in mano il governo del paese avrà il compito di dire verità sgradevoli. Ma intanto non è nemmeno il tempo delle polemiche: la verità ormai la si conosce, e il verdetto è già stato emesso. Bisogna esporre all'opinione pubblica un programma semplice, espresso con parole sincere e con sangue freddo. Perché oggi il compito principale consiste nel tornare alla verità, nel tornare alla realtà. Non è un'esperienza politica entusiasmante, ma è l'unica strada da percorrere, e conviene farsela piacere.
L'Espresso, 02/06/2005
Eddy Guerrero spettacolo vero
Contrariamente alle aspettative, il wrestling è un esercizio mentale. Non per chi lo pratica, ma per chi lo guarda. Provateci anche voi: basta non avere un tubo da fare, accendere la tv e cercare qualche combattimento, cronache di Giacomo "Ciccio" Valenti e Christian Recalcati, oppure su Sportitalia, e anche sul satellite, Gxt, canale 702 del bouquet Sky. Dopo di che ci sono alcune possibilità: 1. Siete un intellettuale, o credete di esserlo, e quindi scappate via perché vi fa schifo quell'americanata; 2. Siete una donna, e le donne sono lealmente ancorate al principio di realtà, sicché a loro la lotta finta non piace; 3. Siete un bambino, e allora vi godete lo spettacolo. Noi apparteniamo alla categoria "bambini", e quindi quando incrociamo un match non riusciamo a staccarcene. È tutto falso? Una recita? Un "récit?", un plot, uno script, un film, una sòla? E chi se ne frega. Quando salgono sul ring i fantastici eredi di Mazinga, cioè John Cena, Ray Mysterio o Eddy Guerrero ci sono due possibilità ulteriori. 1. Vi godete il massacro, le botte, i voli d'angelo dalle corde, i tradimenti, gli insulti, le vendette; 2. Chiamate in causa Propp e Barthes. Noi facciamo entrambe le cose. Ma prima di tutto ci incacchiamo con quelli che dicono che è cacca americana: baby, tutto è cacca americana! Non c'è una cacca buona e una cacca cattiva! C'è la cacca bella e la cacca brutta. Quella che ti piace e quella che no. Altrimenti non dovrebbero piacerti neanche le "Desperate Housewives", che piacciono tanto a quelli che se la tirano. Si sa come va il trend: ci sono quelli che sostengono che il capolavoro della stagione è "Con le peggiori intenzioni" (Mondadori) di quel tale Piperno, e quegli altri invece che si appassionano alla biografia di Michael Schumacher di Leo Turrini (Mondadori anche lui), giurando che è il migliore romanzo del semestre, e difficilmente verrà battuto nel semestre successivo anche se sbucassero altri Piperni. Noi stiamo naturalmente con Schumacher, perché ci piace il popolo. Mentre non ci piacciono quelli che dicono che il wrestling è diseducativo: come se i bambini non sapessero la differenza fra realtà e finzione o (più precisamente) fra reality e fiction. Sostiene qualcuno che i bambini sono transitati dai supereroi, cioè dai cartoni animati giapponesi, ai cartoni animati in (molta) carne e (molte) ossa. Mica male, come ipotesi sul wrestling.
L'Espresso, 09/06/2005
In cucina con donna Rachele
Ancora due parole su "Edda", la fiction in due puntate trasmessa di recente da Raiuno. Dato che non è piaciuta per niente a molti fascistoni e post-fascistoni, e soprattutto non è piaciuta ad Alessandra Mussolini, sarà il caso di anticipare che né la storia né la fiction devono essere lasciate ai parenti. Non appena qualcuno dice "la zia non era così", e "il nonno non era cosà", la risposta è: chi se ne frega. Trattasi di sceneggiati, naturalmente. E soprattutto in questo caso. Perché c'è una linea alla Rai, quella perseguita da Pino Corrias, che privilegia un rapporto quasi febbrile con la storia (vedi "La meglio gioventù" di Giordana e il "De Gasperi" della Cavani), esponendosi a un'analisi filologia e critica; e un'altra linea invece che persegue un tratto "fictional", più fotoromanzato e folk. "Edda" aveva dalla sua una story fantastica, che nessuna sceneggiatura può rovinare. Non è il caso di precisare che un Mussolini quarantacinquenne all'epoca del Concordato dimostrava settant'anni, e che il ferrarese bleso Italo Balbo (memorabile nell'imitazione che ne faceva Montanelli biascicando di traverso la esse) pronunciava romanamente "i diriggenti". Bastava la bellezza di Alessandra Martines a tenere in piedi la storia, con molte sigarette moderniste, accese per sprezzo e spente con rabbia. E si poteva accettare Massimo Ghini nella parte impomatata di Ciano, anche se ogni tanto gli sfuggiva qualche manierismo alla Sordi nella parte del marito adultero che fa le scene madri alla moglie. Ciò che non si riesce a sopportare è quando i protagonisti dicono le frasi storiche. Va bene che le dicano, che so, alla fine della riunione del Gran Consiglio del 25 luglio 1943. In quei casi Mussolini ha detto ai gerarchi: «Signori, voi avete affossato il regime», o giù di lì, e quindi è giusto che lo dica anche la sceneggiatura. Meno ragionevole è che le frasi storiche vengano dette nella cucina di Villa Torlonia, in conversazioni fra il Duce e donna Rachele, con l'intervento geopolitico di Edda Ciano; oppure che il conte Ciano vada a dormire con la moglie sproloquiando della Germania e della Francia. Perché quando la fiction arriva all'alta strategia in salotto,«ci sono un tedesco, un francese e un inglese», ci si plafona al livello delle barzellette, e fa un po' ridere.
L'Espresso, 09/06/2005
Il cerino di Fassino
Quindici giorni di spavento. Due settimane sull'ottovolante. O si chiude con questa tempistica risicata oppure la situazione si complica, e allora può accadere di tutto. Può succedere perfino che un partito dalla buona tenuta psicologica venga preso da una crisi di nervi. Ci si mettono difatti in troppi a complicare la vita ai Ds, non soltanto Rutelli, De Mita e Marini. C'è l'affaire Petruccioli: se la Rai è lo specchio della politica, auguri. Ecco l'intima soddisfazione di Bertinotti per la vittoria del "No" al referendum francese sulla Costituzione europea: «Sono stati sconfitti Amato, Prodi, Fassino e Rutelli». Ci mancava l'intervento del papa "astensionista" a proposito del referendum nostro. Mettiamoci allora anche il risultato del referendum stesso, con i suoi prevedibili strascichi, e gli auguri si fanno ancora più ironici. Ogni giorno ha la sua pena. Candidati e manovre si susseguono. Avanti un altro, Veltroni, Fassino, uno ics due, siamo alle schedine del totocandidato. Ciò che resta del Correntone appoggerebbe Giuliano Amato come candidato premier per bloccare proprio Veltroni, accompagnando persuasivamente Prodi al Quirinale. Che occorra prima vincere le elezioni è un dettaglio. «Il rischio è alto», sospira esausto Pier Luigi Bersani, che non nasconde l'inquietudine; ma dalle parole di molti esponenti della Quercia, non solo di quelli destinati al governo, si ha la sensazione che tutti abbiano una paura fottuta che la situazione collassi, che l'Unione precipiti nella disunione. E che alla fine ci si ritrovi nel mezzo della palude, senza la forza di uscirne: cioè senza una leadership, senza una soluzione, senza niente. Quindi parola d'ordine: Romano è insostituibile. Non ci sono alternative. O meglio, ci sarebbero se fossimo nella normalità. E invece è evidente che la situazione è del tutto anormale. Anche a fare un esercizio "togliattiano" di fredda analisi, esaminate tutte le possibili alternative ci si accorge così con un effetto disarmante che ogni ipotesi diversa da Prodi apre un conflitto nuovo. Sicché per il momento le discussioni sulle alternative vengono bloccate alla stregua di un diversivo irrealistico. Massimo D'Alema ha detto e ripetuto che dopo Prodi c'è Prodi, ma ha aggiunto: se la Margherita non lo vuole più, lo dica. Secondo i boatos, Piero Fassino ha respinto tutti gli ambasciatori che gli promettevano la testa del Professore offrendo la sua sostituzione con un Ds. E anche Veltroni ha fatto il possibile per smorzare i toni, «dobbiamo stringerci intorno a Romano». Tuttavia, nessuno dentro la Quercia rinuncia a sottolineare le condizioni a cui Prodi deve sottostare. Prima condizione: deve stare nel mezzo. Non squilibrare l'alleanza. Anche il richiamo alle primarie sarebbe percepito come un principio di divisione. Se poi fa una lista propria, se i suoi fedeli escono dalla Margherita, il centro-sinistra può esplodere. Già abbiamo visto, si dice al Botteghino, Rutelli colpire la lista unitaria, paradossalmente nel nome di una unità politica superiore; se adesso i prodiani, per una unità ancora più alta e nobile, spaccano il secondo partito della coalizione, «vorrà dire che andiamo a finire direttamente in bocca a Berlusconi», come ammette sconsolato Bersani: perché nessuno riesce a capire quale sia la credibilità di un'alleanza politica che contiene al suo interno la chimica della dissoluzione. E anche altre ipotesi, come la scelta della coalizione dei "willing", la lista unitaria senza la Margherita, sarebbe a questo punto una mossa avventata, destinata a produrre spaccature. «Ai miei occhi, ma anche agli occhi di una parte significativa dell'opinione pubblica», continua Bersani, «Prodi non è soltanto un candidato: è il federatore del centro-sinistra, il portatore e il protagonista di un'idea»; e quindi se si lavora contro questo assunto «si lavora per il re di Prussia». Ma allora perché Rutelli e i vecchi dc hanno affondato la lista unitaria? Questa non l'ha capita nessuno. Un'interpretazione possibile che circola in casa Ds è la seguente: nella Margherita ci sono quelli del "lo spezzo o lo piego". Spiegazione: magari quelli come Marini e De Mita puntavano a indebolire Prodi per piegarlo, cioè per costringerlo a compromessi, a una posizione che non coinvolgesse la Margherita in un processo unitario e spersonalizzante; mentre forse Rutelli ha portato il colpo per spezzarlo, con l'intenzione di liquidare una leadership che si reggeva soltanto sull'assenso, o sull'inerzia, di tutti. Frattanto, la demolizione dell'Ulivo e di Prodi richiama dietrologie irresistibili: «E largamente inutili», si innervosiscono i parlamentari del tradizionale "centro" diessino, che cercano di continuare a ragionare politicamente, all'antica. Il ragionamento si conclude più o meno così: Prodi faccia il piacere di mettersi a fare politica, sul serio, faccia a faccia, piantandola con i diktat. Se ci sono manovre, le affronti a viso aperto. Come sostiene uno dei migliori conoscitori dell'ambiente ds, il politologo Piero Ignazi, «Prodi non deve dare l'impressione che ogni critica o ogni scarto rispetto alle sue posizioni sia un attacco alla sua leadership». Detto in modo ancora più esplicito, nei prossimi giorni il Professore farà bene a non considerare il proprio primato come un'investitura per diritto divino: «Altrimenti prenderà le critiche come un delitto di lesa maestà, e i suoi nemici gliele rivolgeranno con l'intenzione di rivelare che il re è nudo». Finora Prodi e i suoi fedeli si sono difesi ricorrendo a tre argomentazioni generali. In primo luogo facendo riferimento a un consenso ulivista e prodiano che sarebbe ancora diffuso nel paese. In via accessoria, sostenendo che la Margherita non è schierata come un sol uomo sulle posizioni antiunitarie del vertice del partito (secondo questa interpretazione, ci sarebbero due Margherite: una del Nord, riformista e unitaria, e una del Sud, ovvero una specie di grande Udeur, una rete notabilare specializzabile nella pesca dei "transumanti" dalla Casa delle libertà all'Unione). Infine, terzo elemento, Prodi si è detto «sicuro» dell'appoggio dei Ds. «Ma qui bisogna ragionare», dice Elena Montecchi, una delle parlamentari di punta sulle tematiche sociali e femminili (immigrazione, coppie di fatto, divorzio "rapido"): «Perché non è possibile che questa crisi, incomprensibile per l'opinione pubblica e anche per il nostro elettorato, lasci il cerino in mano ai Ds. Oltretutto, Prodi non può pensare di essere il candidato di un solo partito, perché in questo caso fallirebbe il suo progetto». In effetti nella crisi del centro-sinistra i Ds sono sostanzialmente innocenti. Probabilmente «c'è stata una forzatura», riconoscono alcuni, allorché Fassino ha premuto su Rutelli annunciando che la lista unitaria poteva andare avanti anche senza la Margherita. Ma la gravità della crisi induce il partito a riflettere anche sulle questioni di scenario, fuori dal recinto del cortile domestico. «Vogliamo renderci conto che c'è un'élite in crisi nei maggiori paesi dell'Unione, e che qui da noi dovremo combattere per ridare un senso anche alla semplice parola Europa?». Il timore è che da destra muova un attacco populista all'Unione, al Patto di stabilità, all'euro, «ai massoni e ai tecnocrati» di Bruxelles che «hanno fatto l'Europa contro il popolo» (Umberto Bossi), in nome del protezionismo anti-cinese e delle svalutazioni competitive, e che un centro- sinistra disgregato non sappia nemmeno rispondere a questo assalto. Prodi doveva rappresentare proprio la garanzia di una dimensione europea, non meschinamente provinciale e "stracciona". La crisi del socialdemocratico Schröder, il radicalismo giacobino di Zapatero, l'estraneità genetica di Blair rispetto alle identità della sinistra continentale mettono in luce l'assenza di una politica riformista riconoscibile e comune; inoltre il fallimento di Chirac sul referendum francese espone le tensioni drammatiche a cui è soggetto il processo di integrazione. A Prodi spetterebbe il compito duramente impegnativo di costruire qui in Italia questa sinistra europea. Dovrebbe sporcarsi le mani, usare gli strumenti della "petite politique" casalinga, produrre mediazioni in vista di un obiettivo più alto. Ma ne ha ancora voglia? «Deve dirlo lui», è la risposta dei Ds. E deve dirlo presto. Perché due settimane non sono ancora un ultimatum; ma sono un appuntamento per una verifica senza indulgenze.
L'Espresso, 16/06/2005
Bandiere rosse per la borghesia
Se uno vuole conoscere la "cool Britannia" di Tony Blair può leggere "The Boy" di Andrea Romano (Mondadori), un'interpretazione molto politica del New Labour, oppure gli articoli e i saggi di Roberto Bertinetti, un'analisi più culturalista. Se si vuole esplorare a caldo il miracolo della Cina, va bene il nuovo libro di Federico Rampini, "Il secolo cinese. Storie di uomini, città e denaro dalla fabbrica del mondo". Ma se invece si vuole vedere la nuova Cina socialcapitalista, ecco la serie in cinque puntate "Buongiorno Cina. Storie del secolo cinese", realizzato per Movie Movie da Francesco Conversano e Nene Grignaffini (il mercoledì sera alle 23.30 su Raitre). Si vede una Pechino ultramoderna, con uno skyline di fantastici grattacieli post-novecenteschi, una metropoli che il grande balzo in avanti lo ha compiuto grazie all'economia di mercato. La puntata del 1° giugno era dedicata ai festeggiamenti dell'ottobre scorso per il cinquantacinquesimo anniversario della nascita della Repubblica popolare. Ciò che colpisce, per chi ha negli occhi la Cina omologata dal maoismo, è la folla che invade la capitale. Una moltitudine non diversa da quella delle grandi città occidentali: yuppies, giovani trendy, tranquilli borghesi, gente che viene dalle campagne. Lo choc aumenta ogni volta che il montaggio alterna scene di vita contemporanea, interviste agli scrittori e gli artisti, con sequenze che riportano al bianco e nero della Rivoluzione culturale. Vedendo il film, sembra di capire qualcosa in più della prodigiosa modernizzazione cinese. Si sente l'orgoglio nazionale e patriottico della gente comune, e perfino il ruolo del Partito comunista non sembra più così anacronistico. Forse per governare i grandi territori ci vogliono invenzioni politiche ad hoc. Il federalismo americano di Madison e Hamilton. O il pragmatismo imperiale di Deng Xiaoping. Ma può essere che i grandi imperi siano refrattari al potere politico; e la bellezza di questi film consiste proprio nel mostrare la braudeliana lentezza con cui si evolvono civiltà e imperi dell'Estremo Oriente, mentre le bandiere rosse sembrano un segnale estetico, più che un vessillo della nuova rivoluzione.
L'Espresso, 16/06/2005
Ma ora trattatelo come un giocatore
Come per "Alex" Del Piero con gli uccellini e la fidanzata Sonia, e come in passato per gli "abatini" Mazzola e Rivera, a Francesco Totti è capitata la disgrazia di diventare un personaggio. Vabbè, disgrazia. Facciamo un problema calcistico. È stato subito il Pupone, essenza anche fisiognomica della romanità, quando ancora giovanissimo sembrava in grado di proporsi come un fuoriclasse assoluto: e lo era, per come verticalizzava a intuito, quasi a occhi chiusi, medianicamente, liberando il compagno al gol; per la forza fisica, il tiro, il dribbling, la classe. Tutte caratteristiche inessenziali nel calcio contemporaneo, che vive soprattutto di espressioni di idolatria mediatica, come quelle che circondano il calciatore "cool" per eccellenza, il galactico David Beckham, che cambia look con facilità maggiore di quella con cui cambia ritmo in partita. Sicché dire che cosa sia oggi Totti è una serie di ipotesi. Il prossimo marito di Ilary Blasi, forse. Ma anche l'atleta innervosito fino al collasso nervoso dalle scorrettezze avversarie e martoriato perciò da squalifiche monstre, e l'atleta immaturo che sputa al danese Poulsen durante i campionati europei in Portogallo, guadagnandosi fior di sms che ironizzano sull'"hijo de sputa". Oppure il bravo ragazzo dotato di consapevolezza sociale che riceve i complimenti e l'amicizia di Walter Veltroni per le non pubblicizzate attività umanitarie svolte insieme. E magari anche il divetto provinciale che accetta di scendere dal piedistallo, o di uscire dal set, firmando quello stravenduto libro di barzellette che lo ha miracolato restituendolo alla stirpe degli individui pensanti, dopo la micidiale epopea popolare del gerundio (quando tutta l'Italia evoluta sghignazzava "'a vendo": la Ferrari gialla, per chi ricorda la barzelletta). Con il risultato che di Totti si parla come immagine di Roma e della Roma, quasi un congiunto della famiglia Sensi, il tutor di Cassano e delle cassanate, l'adultero presunto, ma quasi mai, e non nel campionato appena finito, come trequartista, punta o comunque giocatore di calcio. Per uno che poteva essere Cruijff, o come minimo il più bravo calciatore italiano del decennio, è un destino che suona falso, nell'attesa infinita, sulla soglia dei trent'anni, che il campione si riveli finalmente come campione, senza altre specificazioni. E siccome è sveglio, un po' impicciato nel lessico e nel savoir faire ma intelligente, lui lo ha capito benissimo. Tanto che nel disgraziato torneo 2004-2005 in diverse partite si è visto in campo uno strano giocatore che tentava con sforzi erculei di prendersi sulle spalle la Roma, in difesa, a centrocampo, all'attacco, giocando come giocano i fenomeni negli oratori, con addosso una specie di disperazione: «Totti corre, forca, impicca», avrebbe scritto Gianni Brera. Proprio da quella furia solipsistica si doveva intuire che il giocatore Totti sente su di sé lo scorrere irreparabile del tempo: e a volergli bene, sarebbe ora il caso di trattarlo non come un "fijo de Roma" ma come un fuoriclasse a cui concedere l'occasione vera di rivelarsi. Con un finale di carriera magari accanto a Beckham, oppure nel Milan, alla Juventus, o in qualsiasi grande squadra che lo tratti come un giocatore e non come una bandiera o, peggio, un simbolo.
L'Espresso, 23/06/2005
Italian Pop Graffiti
E allora che cosa accadrà di musicale nell'estate che arriva? "Senti l'estate che torna", cantavano le Orme un millennio fa. L'estate 2005 potrebbe essere pronta a un tormentone di culto, con il "Feel Good Inc." dei Gorillaz. Troppo sofisticato? Volete il divertissement di Simone Cristicchi, quello di "Vorrei cantare come Biagio", nel senso di Antonacci? Oppure il pop ricercato del "Maggese" di Cesare Cremonini? Magari i più viziosi possono anche dedicarsi al vintage di Alberto Fortis, "Fiori sullo schermo futuro", per sentire di nuovo una voce che di tanto in tanto esce ancora dalle radio e dagli anni Ottanta con le vecchie e irresistibili note di "Settembre". Se prima di darsi alle musiche e musichette estive si vuole approfondire la "filosofia" della musica dell'estate, è d'obbligo uno sguardo al libro di Enzo Gentile "Legata a un granello di sabbia", pubblicato in questi giorni dall'editore milanese Melampo (182 pagine, 10 euro). Gentile è un talento eclettico. "hendrixiano militante" per autocertificazione, lo si potrebbe definire un agitatore culturale: perché oltre che giornalista e musicofilo, la sua è una biografia di scrittore, collezionista, curatore di mostre, direttore artistico di rassegne e di eventi come il Mantova Musica Festival, collaboratore della "Repubblica" e altri giornali, radio, iniziative editoriali. Il suo libro porta come sottotitolo "Storie e amori, costume e società nelle canzoni italiane dell'estate", e questo potrebbe assomigliare a una dichiarazione programmatica. Nella sua prefazione, infatti, Gianni Mura scrive: «Cantagiro, Disco per l'Estate, Festivalbar ci dicono che un tempo in Italia c'erano i dischi e c'erano i bar (ci sono anche adesso ma sono diversi). C'era, aggiungerei, una visione della musica (leggera, si capisce, è quella che pesa meno) che portava a un ascolto condiviso. Mangiadischi, juke box, di questo si parla». Ma a dispetto delle apparenze, fortunatamente Gentile non sociologizza, preferisce una ricognizione quasi materiale di quegli oggetti d'epoca chiamati canzoni. Anzi, se si vuole una prima impressione del suo libro, un'idea visiva, conviene aprirlo nella sezione che raccoglie 80 copertine a colori di 45 giri "estatici", alcuni celebri, molti altri ormai dimenticati. Si può trovare un'immagine quasi softcore, dati i tempi, di "Sei diventata nera", uno dei terribili hit di Edoardo Vianello, nell'esecuzione dei Marcellos Ferial, quelli che avevano tradotto anche "Cuando calienta el sol". Geniale la canzone perfettamente estiva "Appuntamento sulla neve" di Piero Focaccia, ambientata su una barca con remo e salvagente. Indimenticabile "Imparerò a nuotare" di Carmen Villani, ma anche i peccati canzonettari della grande Mina, roba tipo "Un buco nella sabbia" o "La ragazza dell'ombrellone". A leggere le storie di Gentile, con le testimonianze di Ricky Gianco e di Shel Shapiro, di Mino Reitano, o dei Dik Dik e dei New Trolls, ci si accorge che la musica di allora qualcosina del clima dell'epoca lo raccoglieva, lo traduceva in consapevolezza di massa. Ma se invece non si vuole nessuna contaminazione sociologica, conviene usare il libro di Gentile come un catalogo, un repertorio (nel senso che è anche un'enciclopedia di reperti, se non di reliquie, da "St. Tropez Twist" fino a "Supercafone"). Con alcune preziosità filologiche come quella che racconta la storia di "Speedy Gonzales", importata da Peppino Di Capri dopo che era stata condotta al successo da Pat Boone: «Costui ha ascoltato quel brano, in cui compare la voce del cartone animato, nel 1961 da un cantante americano, David Dante, che ne ha fatto un hit nelle Filippine. Questo il tortuoso, ma vincente percorso di un'allegra scampagnata in musica...».
L'Espresso, 23/06/2005
Telecamere in camicia nera
È andata in onda di recente sull'ammiraglia Raiuno la quinta edizione del Premio Giorgio Almirante («Istituito dalla fondazione Marzio Tremaglia e promosso dal ministero degli italiani nel mondo», dice il comunicato), svoltasi a Roma «nella suggestiva cornice» del Teatro Valle. Presentavano la serata, patrocinata da donna Assunta Almirante, Fabrizio Gatta e Clarissa Burt, a suo tempo frequentatrice di "Porta a Porta" con annesso burqa, candidata di Alleanza nazionale, americana nazionalizzata o giù di lì. È vero che talvolta le ammiraglie fanno naufragio, ma a dire la verità lo spettacolo non era più orrido di altre manifestazioni di tipo marchettistico o di promozione turistica, con il contributo della pro loco e dell'azienda locale dei materassi. (Chiariamo subito che fin qui sta parlando un losco comunista, puzza sotto il naso, felicissimo di spregiare qualsiasi manifestazione culturale della destra e insensibile al valore essenziale della popolarità e magari anche del popolo). Ma addentriamoci post-ideologicamente nella trasmissione. Regia velocissima, come se si dovesse contenere in tempi ristretti un numero straordinario di ospiti. Per cui, sul palco ecco un asciuttissimo Raimondo D'Inzeo, olimpionico, a cui i conduttori sono riusciti soltanto a far dire che, ancora oggi, monta a cavallo «tutte le mattine». Applausi scroscianti e smammare il D'Inzeo. E poi via con Al Bano, «una leggenda», con Peppino di Capri, «un mito», eccetera. Tutto di corsa, e con una leggera ansia se l'ospite faceva mostra di trattenersi un momento di troppo. Ma ciò che faceva una certa impressione era il clima un po' triste, malgrado la suggestiva cornice, tipo festa di famiglia con i nostri cari, che non sono proprio fenomeni ma si sa che ogni scarrafone ecc. Non per riaprire il tormento della cultura di destra, e dello spettacolo di destra, e dell'intrattenimento di destra, ma la serata del Premio Almirante sembrava esattamente il ritratto di An sotto l'occhio di Gianfranco Fini. Da una parte il leader ipermoderno, subacqueo, estemporaneo, talmente deideologizzato che domani potrebbe annunciare di darsi alle pubbliche relazioni in una multinazionale (o alla strategia della comunicazione, o al marketing virale), e dall'altra il partito, vecchio, prevedibile, stento, con le solite facce. Solita zuppa, solita destra: non la risolleverà Peppino con la sua triste "Panchina", e neanche Al Bààààààno.
L'Espresso, 23/06/2005
Benvenuti nel passato
Quando le cose vanno male, la prima tentazione è quella resa celebre da Bertolt Brecht: se il popolo non condivide la linea del Partito comunista, si chiedono le dimissioni del popolo. Ma dopo la catastrofe del referendum sulla fecondazione assistita, sarebbe vano prendersela con l'Italia eterna e neghittosa, incapace di avvertire il fascino e di rispondere all'appello delle minoranze virtuose. È vero che con il risultato del 12-13 giugno viene seppellito l'istituto del referendum abrogativo, almeno come strumento istituzionale per forzare situazioni politiche altrimenti non scardinabili. Ed è anche vero che ha vinto un'Italia inerziale, da tempo insofferente delle mobilitazioni, indifferente, anche perché fisiologicamente vecchia, ai temi inerenti alla sfera della maternità e delle paternità. Ma questo dovrebbe anche indurre i promotori dei quattro referendum a una seria analisi sulla loro capacità di ascolto della società italiana. Che evidentemente non è composta di avanguardie metropolitane, ma è fatta anche dalla provincia profonda; e che non reagisce con la rapidità un po' nevrotica e la vitalità effervescente degli abitanti delle città. Dunque, anziché gli esorcismi contro gli italiani brutti sporchi e cattivi, o contro i "nuovi indifferenti" che il berlusconismo ha fatto precipitare nel torpore civico, conviene prendere molto sul serio le ragioni di chi si è astenuto, e nello stesso tempo sarebbe utile riflettere anche sugli escamotage propagandistici con cui si è tentato di curvare il referendum in una specie di plebiscito sulla scienza e la modernità. Molti, come chi scrive, hanno votato quattro sì, sulla scia di un ragionamento il più possibile laico e liberale, con l'intenzione di colpire una legge irrigidita nelle proprie procedure, che sul fronte opposto la gerarchia cattolica considera una specie di male minore, una difficoltà in più frapposta ai bambini in provetta, e non il meglio possibile, dal momento che in linea di principio la Chiesa cattolica rifiuta tanto la fecondazione eterologa quanto la fecondazione omologa. Tuttavia c'era da restare infastiditi dalla mondanità con cui le argomentazioni contro la legge 40 sono state presentate pubblicamente, e dalle forzature propagandistiche con cui un voto sulla fecondazione artificiale è stato presentato come un pronunciamento sulla scientificità del mondo contemporaneo e soprattutto sulla prospettiva di aprire vie nuove alla cura delle malattie più temibili dell'età corrente: diabete, Alzheimer, Parkinson (e il cancro, che fine ha fatto? Non è più una malattia "sociale"? Non è curabile con le staminali dell'embrione?). Dopo di che, si tratterà di vedere quali saranno le conseguenze politiche di questo referendum disgraziato. Si dà il caso infatti che il quorum mancato attragga una quantità di vincitori, compreso l'ammiccante Silvio Berlusconi, che si è ben guardato dall'assumere qualsiasi orientamento esplicito e pubblico, ma lasciando capire che non era il caso che i referendari contassero su di lui. Ma il più vincitore di tutti è naturalmente chi ha gettato nell'arena caotica del centrosinistra la propria scelta astensionista. Cioè Francesco Rutelli, che prima ha liquidato la lista unitaria dell'Ulivo, mettendo di fatto in discussione la leadership di Romano Prodi, e poi ha scavato un solco profondo fra la Margherita e il resto dell'Unione. Si è trattato di un colpo doppio che ha spazzato via dall'orizzonte della politica italiana la prospettiva del "partito riformista", nonché la chance della Federazione ulivista come motore dell'Unione. D'ora in avanti sarà difficile anche solo prendere sul serio l'idea di un centrosinistra che prefiguri lo schema americano del partito democratico. Ha vinto l'idea cossighiana dell'alleanza contrattuale fra il centro e la sinistra, fra i cattolici eredi della sinistra Dc e i socialdemocratici eredi del Pci. Addio alle avventure, alle utopie, ai sogni. Manca soltanto che Silvio Berlusconi dichiari chiusa la sua esperienza politica, e che di conseguenza si rimescoli tutto, a destra e a sinistra. Dopo tutto il dibattito sull'embrione, ne avremmo due di embrioni: un embrione di neo-Dc e un embrione di post-Pci. Ottimo risultato: benvenuti a tutti nel realismo; e forse, benvenuti anche nel passato.
L'Espresso, 30/06/2005
Frizzante come una Gigliola
Dopo il successo bipartisan ottenuto da Gigliola Cinquetti a "Pronto Elisir" (Raitre, prima serata la domenica), con la destra e la sinistra solidali nel giudizio favorevole, viene anche da chiedersi per quale motivo l'ex cantante veronese, ottima intrattenitrice, misurata conduttrice, capace di miscelare serietà e spettacolo, fosse più o meno scomparsa dalle tv nazionali. In realtà, i frequentatori del satellite sapevano benissimo che la Cinquetti era rintracciabile in qualche programma di RaiSat Extra, grazie all'intuito giornalistico di Marco Giudici: l'ultimo è "Sliding Doors", uno schema di interviste incrociate che ha ottenuto il premio degli autori televisivi a Saint Vincent (imperdibile la puntata con Ezio Mauro e Ettore Bernabei, passato e presente, laicità moderna e democristianeria vecchio stile). Per dirla tutta, non deve avere giovato alla Cinquetti, in questi tempi di ordinaria ferocia e maleducazione, la sua storica e dichiarata simpatia politica per il centrosinistra e in particolare per la componente prodiana. Bella donna dotata di una cultura non ovvia, oltretutto vicina alle pericolose sinistre, l'evidentemente insidiosa Gigliola nazionale era stata confinata in programmi di nicchia, quelli dove l'alone vagamente "comunista" ed eversivo che ne circonda il profilo non poteva fare troppi danni. Però, che grande Italia, che magnifico regime, che stupefacente sapienza persuasiva e propagandistica: un sistema che apre e chiude la carriera politica a Ombretta Colli (con tutto il rispetto per la cantante della battiatiana "Cocco fresco, cocco bello") e inibisce la carriera televisiva alla Cinquetti (con tutto il rispetto per la virtuale leader ulivista) ha già detto tutto di sé. Dunque il ritorno di Gigliola in una diretta, con il mitologico dottor Carlo Gargiulo, in cui si parla con levità di abbronzature e con decenza di depressione, è da salutare con una percezione straniante di sollievo. Quaranta minuti domenicali di buon senso. E di domande secche, senza chiacchiericcio, premiate da un ottimo livello di ascolti. Con una conduzione "frizzantina", come l'ha definita un ascoltatore: sicché l'eterna ragazza Cinquetti, ottima padrona di casa tv, riesce a invecchiare senza passaggi in barrique, mantenendo il brio di un Cartizze appena stappato, fresco al punto giusto, insomma un elisir che è, per l'appunto tutta salute. Prosit.
L'Espresso, 30/06/2005
Romano si è fermato a Bruxelles
Quante divisioni ha Prodi? La vecchia e irridente boutade di Stalin sul papa circola con insistenza dentro la Margherita. Perché è vero che Francesco Rutelli è risultato il vincitore quasi totale dell'ultima ordalia dentro il centro-sinistra. Ma si può lasciare incompiuto il lavoro? Rutelli aveva due obiettivi: primo, bloccare il processo di integrazione riformista, la lista unitaria, la Federazione, e mantenere in vita il suo partito come un'entità autonoma e distinta; secondo, silurare la linea politica di Prodi. Se occorreva, se le circostanze lo richiedevano, se c'era l'opportunità, affondare lo stesso Prodi. Non per cattiveria. Semplicemente per convenienza politica. Per un interesse di parte. Se Prodi è la lista unitaria, per la Margherita rutelliana Prodi è il nemico. Sta di fatto che l'assemblea della Margherita in cui era avvenuto il regicidio era stata un colpo di alta teatralità. La cicoria di Rutelli. Un'istrionica performance di Franco Marini, grande attore marsicano. Le strategie di De Mita anagrammi inclusi, "si scrive Ciriaco e si legge Cicoria". La sapienza neodemocristiana dei dirigenti della Margherita si era manifestata con abilità spettacolare nella capacità di affondare la linea politica di Prodi mentre si spergiurava sulla sua leadership. La lista unitaria? Una fissazione, un dettaglio da liquidare. Romano? Diamine, il nostro leader, che nessuno discute. Subito dopo, le convinzioni dei prodiani, da Arturo Parisi a Willer Bordon, da Giulio Santagata al povero Papini maltrattato da De Mita come esempio di prodismo inconsistente, erano state ridotte al rango di ubbie fastidiose. Nel giro di poche ore la stupefacente vittoria alle elezioni regionali era stata sacrificata sull'altare del sacro egoismo di partito. Sublime esempio di autolesionismo? Oppure calcolo cinico da portare in perfetta consapevolezza alle conseguenze estreme, cioè alla liquidazione in saldo della leadership prodiana? Impossibile certificarlo. Di certo, se un partito come la Margherita si incarica del tiro al listone, cioè del maggiore investimento politico di Prodi e dei prodiani, vuol dire che il partito di Rutelli è disposto anche a un sacrificio del re, indifferente all'idea che ciò possa provocare il rovesciamento della scacchiera. Ancora il 26 maggio, all'uscita dall'assemblea generale della Confindustria, Prodi era convinto che i giochi fossero ancora tutti aperti, e soprattutto che Piero Fassino e i Ds lo avrebbero seguito senza esitazioni. Soprattutto che fosse ancora praticabile la strada della "coalizione dei volonterosi", un listino, un Ulivetto, un residuo sufficiente a tenere in vita la prospettiva unitaria e ad assicurargli una base politica. Un passo indietro: Prodi era tornato da Bruxelles atteso come il patrono tutelare del centrosinistra. Aveva dissolto manovre e manovrine, ombre e spettri partitici o neocentristi agitando lo strumento delle primarie. Il successo delle elezioni regionali lo aveva indotto a considerare compiuta la prima fase del lavoro e a rinunciare all'idea dell'investitura dal basso. Ritrovarsi poche settimane dopo nella condizione di problema politico del centrosinistra risultava sbalorditivo, addirittura straniante. Forse in quel momento sfuggiva a Prodi che il colpo di Rutelli, bissato in un secondo tempo con le dichiarazioni finali per l'astensione al referendum sulla fecondazione assistita, costituiva un uppercut micidiale per la sua posizione. Il Professore era tornato in Italia dopo gli anni alla Commissione europea sulla scia di un "heri dicebamus", cioè per riprendere il filo, spezzatosi nella crisi dell'ottobre 1998, di una iniziativa politica sintetizzabile in tre punti: completare razionalmente lo schema bipolare; sviluppare un'esperienza riformista capace di integrare laici e cattolici, superando steccati storici; predisporre le condizioni di un'esperienza di governo esente dai ricatti e dalle defezioni dei partiti dell'alleanza. Tutto questo si è dissolto come una bolla di sapone. Non appena la prospettiva unitaria è stata abbattuta dal fuoco amico, si è capito che la parola tornava ai partiti. Ossia che il centrosinistra esiste nella realtà dei fatti soltanto in quanto alleanza negoziale tra le numerose forze e debolezze politiche della cosiddetta Unione. E che il progetto riformista diventa un'ipotesi esclusivamente teorica e proiettata in un futuro indecifrabile. Di fronte a questa situazione, Prodi aveva alcune soluzioni disponibili. Bombardare il quartier generale, cioè esercitare il ruolo del capo rivoluzionario, che non cede ai compromessi e accetta l'azzardo di sconvolgere il proprio campo. In pratica, assecondare la rottura all'interno della Margherita, "firmare" la scissione dei prodiani, sfidare la certezza della propria caduta in quanto leader dell'Unione e contemplare sovranamente le rovine. Bagno di sangue e attesa della catarsi. In alternativa, il Professore poteva cercare una nuova dura trattativa, trovare una difficile mediazione, in ogni caso fare tutto il possibile, e anche oltre il possibile, per tenere in vita il progetto ulivista: continuare quindi a interpretare se stesso come il portatore di una iniziativa politica unitaria individuando un punto di equilibrio fra Ds e Margherita, fra Rutelli e Fassino. L'esito è stato completamente diverso, al punto da lasciare interdetti anche i più fedeli seguaci di "Romano". Si può rinunciare improvvisamente a una linea politica dopo avere minacciato la guerra, su quella linea? Che cosa ne sarà, dei prodiani? E che cosa rischia, Prodi stesso? Certo, sul momento né la Margherita né i Ds potevano permettersi il lusso di rinunciare a lui e al suo ruolo di sintesi fra culture politiche separate. Così è stato steso un complesso concordato, fondato su uno scambio molto ineguale. Le primarie a Prodi, come momento di reinvestitura politica. L'Ulivo, nello sgabuzzino. E il potere, naturalmente, ai partiti. Il tutto tenuto insieme con un patto di legislatura sul candidato premier che uscirà dalle primarie. Sempre che alle primarie fissate per ottobre si arrivi davvero, dato che non sfugge a nessuno il carattere esclusivamente simbolico di questa soluzione: un confronto fra il Professore e antagonisti come Bertinotti, Pecoraro Scanio, Di Pietro, eventualmente Mastella, forse addirittura il Pannella schifato dal centrodestra astensionista, senza un confronto fra programmi di governo alternativi, assomiglia più a un espediente che a una battaglia vera e legittimante. Chissà, è un espediente che può anche funzionare. Ma in questa vicenda Prodi ha perso metà della propria dote politica. Nel senso che gli è stata sottratta, con studiato e lieve cinismo, la leadership della coalizione. Gli è rimasta la candidatura a premier, in quanto figura di fatto extrapolitica indicata da alcuni partiti dell'Unione. Ci vuole molto a capire che si tratta di una condizione debole? Di qui a ottobre ogni giorno può portare una tensione, un contraccolpo, una crisi. Incombe sul paese il rischio del grippaggio dei conti pubblici, con la necessità di una finanziaria monstre e di conseguenza la tentazione di un governo di garanzia nazionale, prospettiva che scompaginerebbe tutti i giochi. E non è finita: non appena Prodi «dominerà» le primarie, come ha predetto Fassino, nella Casa delle libertà si aprirà la discussione sul candidato da opporgli. Con la tentazione di sostituire il cavallo azzoppato Berlusconi operando un salto generazionale e politico, privando così il centro- sinistra della sua arma più potente, l'antiberlusconismo. Di fronte a questo percorso a ostacoli, a Prodi rimangono soltanto le sue qualità personali e quelle guadagnate sul campo: il prestigio ancora vivo in quei settori dell'opinione pubblica che rimpiangono la carica politica dell'Ulivo, il simbolo della vittoria del 1996; il consenso di pezzi di establishment che hanno sempre apprezzato il Prodi uomo di governo, mentre guardavano con insofferenza crescente l'uomo delle lambiccate strategie pensate con l'ideologo ulivista Parisi. E infine la sua cocciutaggine, la capacità di incassare la testa nelle spalle e di tirare avanti. Sempre che la fatica improba di costruire un centro-sinistra che non si lascia costruire non stanchi alla fine anche il candidato Prodi.
L'Espresso, 07/07/2005
Che strambate con il Timoniere Massimo
Non c'è dubbio che imbarcando il barcaiolo Massimo D'Alema a commentare le regate preparatorie della Coppa America a Valencia, La7 ha fatto un colpo mediatico di classe. Figurarsi, il presidente dei Democratici di sinistra, non un politico qualunque. E poi un velista di quelli formidabili: quando il compagno Massimo torna dalle vacanze estive e batte le feste dell'Unità, espone un'abbronzatura di quelle da vero lupo di mare. Sole, salsedine, acqua, vento, un volto invidiabilmente marinaro conciato dagli elementi. Quindi c'era una certa attesa di vederlo insieme con Paolo Cecinelli e lo specialista di vela Luca Bontempelli. Non tanto perché importi niente a nessuno della vela guardata in televisione, delle strambate, del boma, del tangone, dello spinnaker e compagnia bella (ciò che gli italiani medi sanno della vela lo hanno imparato soprattutto da Teo Teocoli nella storica imitazione di Cino Ricci). La curiosità principale riguardava invece proprio l'homo televisivus D'Alema e la sua qualità di commentatore. Con un retropensiero un tantino preoccupato, perché l'eventuale successo di D'Alema poteva essere l'avvio di un'invasione politica nelle cronache sportive. Immaginare Gianfranco Fini che commenta un derby all'Olimpico per Sky, o Walter Veltroni che annota tecnicamente un match della Juventus è a priori inquietante. Noi siamo di quelli che prediligono la tecnica: lo sport è una disciplina fatta di regole, abilità, competenze, gesti specialistici, doti peculiari. Ogni volta che i cronisti di calcio esclamano "incredibile!", e succede ogni tre minuti, ci viene voglia di fracassare il televisore, perché nulla è incredibile, tutto è capacità tecniche, anche quando sembrano o sono invenzioni. Detto questo, D'Alema se l'è cavata. «Al netto», come direbbe lui del solito sussiego, e della tentazione sempre visibile di spiegare a uno skipper come si fa lo skipper, l'uomo di mare Massimo ha dato un contributo qualificato. Però, amici della Sette, non inflazionate. Non inflazionate D'Alema e non inflazionate i politici nello sport e in altri settori dell'intrattenimento. Una buona idea è buona finché non viene logorata dalla ripetizione. Prossimamente il lupo di mare D'Alema dovrà affrontare mari e marosi pericolosi. Lasciamolo quindi alla politica: perché può darsi che alla fine di molte strambate si arrivi davvero all'ultima spiaggia, e ci vogliono skipper con il tangone in regola.