L’Espresso
L'Espresso, 14/07/2005
Solo all’Auditel non piacciono le quaglie
Sarà che il mondo è guasto, il gusto è corrotto, Dio e Marx sono morti; il fatto è che la puntata in prima serata di "Dove osano le quaglie" (Raitre, giovedì 23 giugno) ha fatto poco più del 6 per cento. Bidonati dunque tutti quelli che pretendono la televisione di qualità, perché Antonello Dose e Marco Presta fanno tv pregiata. Eccoci serviti. Bisognerà ricominciare a distinguere fra intrattenimento di qualità e risultati di nicchia, altrimenti i buoni verranno sempre sconfitti dai cattivi. Comunque, anche se al 93 abbondante per cento dell'Auditel ciò non interessa evidentemente un tubo, la puntata delle "Quaglie" assaggiata nell'occasione era ottima, con punte di eccellenza. Non si può nemmeno attribuire al duo Dose & Presta qualche difetto in più di quelli che hanno: uno dei due pronuncia romanamente "telecàmmera", entrambi fanno le smorfie, sfoggiano antipatia, parlano spessissimo della Rai, con battute su corridoi e dirigenti della Rai (ignari che al resto d'Italia della Rai e dei suoi dirigenti e autori e funzionari e sicofanti non importa niente). Ma intanto hanno presentato un numero di Neri Marcorè da lasciare sbalorditi, tanto l'ex imitatore di Maurizio Gasparri è diventato bravo (il numero era una serie di "entrate" a tema: l'entrata del calciatore nevrotizzato, chewing gum masticato autisticamente e ossessione per i capelli; l'entrata dell'attore dopo un successo straordinario, tutto merito suo; l'entrata dell'attore dopo un flop spaventoso, tutta colpa degli altri, segnalata con occhiate di sbieco che rivelano di chi sia la vera responsabilità...). Imperdibile anche uno sketch fra due carrozzai, interpretati sempre da Dose e Presta, impegnati a martellare opportunamente due sportelli d'auto, che telefonano agli amici per farsi togliere le rispettive multe: uno dei due telefona a un tale Joseph, «vabbé, Benedetto...», per farsi levare la contravvenzione per divieto di sosta in via della Conciliazione. «Ah peccato, per un metro non è in zona tua, ho capito, pazienza, amen». E allora? Allora bisognerà che Dose e Presta si impegnino di più. Restare aggrappati al 6 per cento confermerebbe un fraintendimento. Scendano al 5, al 4, al niente, al sottozero, facciano cultura. Solo allora potremo difenderli. Adesso si limitano a essere divertenti con intelligenza. O eliminano l'intelligenza oppure liquidano il divertimento. Che escano dall'equivoco, finalmente.
L'Espresso, 21/07/2005
Buona domenica per caso
La domenica su Raitre, alle 11.30 (ma poi anche tutti i giorni su Rai Utile e Ray Family), va in onda "Un giorno per caso...", un classico programma di tv positiva. Per tutti noi assuefatti ai reality show, al cinismo quotidiano della televisione pessima, ai freak della normale programmazione per teledementi, è un antidoto, come ha detto il direttore di rete Paolo Ruffini. Un medicinale. Quindi usare con cautela. Se compaiono sintomi, rivolgersi alla dott.ssa De Filippi. Sono infatti storie esemplari, realizzate da Simonetta Tugnoli Frabboni e Claudia Amico: famiglie con decine di ragazzi in affido, come nel caso di Germana e Paolo Brizzolari, che in una casa di Cavriana, vicino a Mantova, hanno messo insieme una famiglia di 36 "figli". E poi vicende di ragazze madri, bambini disabili, preti di strada, carceri minorili. Uno spirito perfidino direbbe che è un programma utile per rovinare agli italiani il pranzo domenicale. Viene da piangere, a vedere queste storie, nel senso che ci si commuove, perché il destino dei cinici è quello di essere vaccinati davanti a ogni cinismo (per cui si riesce serenamente a sopportare una puntata di "Music Farm" o di "Cronache marziane"), ma poi si risulta scoperti non appena appare un bimbo con una gamba amputata o una signora bolognese che dal 1959 accoglie ragazze in difficoltà. Ottima l'idea di fare raccontare ogni puntata a un conduttore "per caso", facendo collidere la vita di un/a ragazzo/a della nostra ordinaria società consumista con la sobrietà durissima della vita di comunità. Nella puntata sui 36 figli della famiglia Brizzolari, la conduttrice per caso era Celeste Breschi, bolognese giovanissima e pienotta, che parlava con il classico accento televisivo delle under 20 di oggi (e quindi anche la conduttrice deteneva un contenuto sociologico rilevabile, nel senso che "allora è vero che i ragazzi parlano proprio così"). Meno buono alla lunga il dibattito finale, molto cattoqualcosa, dove ragazze con il piercing e post-adolescenti con la convenzionale faccia da studenti che non studiano si misuravano con l'incommensurabile della solidarietà. Tutti scossi, ma sotto sotto rassicurati dal fatto che al dibattito equo e solidale si dedica una mezz'ora, e poi si ritorna alla nostra cinica vita comune (perché, al contrario di Karl Marx delle Tesi su Feuerbach, noi vogliamo interpretare il mondo, non cambiarlo, siamo mica matti).
L'Espresso, 21/07/2005
Le primarie a doppio taglio
Le elezioni primarie dovevano essere una cerimonia per incoronare un leader, Romano Prodi, che non ha alle spalle una forza politica: il "suo" partito, la Margherita, si è via via caratterizzato come una forza post o neodemocristiana; la lista unitaria è stata abbattuta dagli attacchi di Francesco Rutelli; la pace instauratasi in seguito ha consegnato Prodi a un ruolo di sintesi, lasciandolo tuttavia privo di qualsiasi strumento politico. Anche le primarie, che nessuno voleva tranne i prodiani più integrali, fanno parte dello scambio intervenuto per salvare il salvabile, dopo un conflitto interno che avrebbe anche potuto portare l'Unione alla condizione dell'impresentabilità politica. Si è trattato insomma di una soluzione che ha sostituito un disastro con un problema. Resta però da vedere qual è la posta in gioco l'8 e 9 ottobre prossimi. Si sa che i dubbi sulla leadership del Professore sono largamente accademici, nel senso che malgrado tutte le idee più inventive non si è mai trovato un sostituto in grado di fungere da punto di equilibrio nell'arco del centrosinistra, fra laici e cattolici, riformisti e comunisti, moderati e oltranzisti. Quindi la prova delle primarie non dovrà essere la dimostrazione della forza, dell'autorevolezza e della popolarità di Prodi. Sarà qualcosa di molto più insidioso: vale a dire una specie di giudizio di Dio, o meglio del popolo, sull'esistenza dell'Unione. Scartiamo a priori la possibilità di un fallimento di Prodi. Se "Romano" otterrà un risultato scadente, se Fausto Bertinotti lo insidierà troppo da vicino, non sarà il Professore a cadere. Il senzapartito Prodi al massimo è in grado di spostare correnti di opinione pubblica. Non controlla apparati, non ha dietro di sé truppe cammellate. Di conseguenza nell'ottobre prossimo verrà messa ai voti prima di tutto la consistenza del centrosinistra come entità politica. Saranno capaci i partiti di organizzare una consultazione popolare significativa? Di portare i loro simpatizzanti, militanti e quadri nei seggi elettorali? Di tenere vivo il confronto fra i candidati? Sono domande impegnative, e non ci sono risposte precostituite. In una competizione/consultazione tutta inedita come quella a cui assisteremo, le forze del centrosinistra dovranno impegnarsi nella realtà viva della società italiana per confermare una leadership già scelta. Ora, quando si dà la parola al popolo bisogna farlo seriamente. E prendere sul serio ciò che il popolo dirà. La credibilità dell'Unione verrà misurata anzitutto dalla qualità organizzativa che verrà mostrata nell'occasione. Subito dopo, naturalmente, dal tasso di partecipazione dei cittadini. Infine, dal risultato che Prodi otterrà, e da quello dei suoi competitori. L'incertezza è altissima, e gli oppositori più fondamentalisti delle primarie sono ancora convinti che alla fine non se ne farà nulla, che un incidente provvidenziale toglierà di mezzo questo inciampo bizzarro. Ma se invece, come sembra, le primarie si faranno, occorrerà che il centrosinistra le faccia riuscire. Perché se le primarie riescono vorrà dire finalmente che l'Unione non è soltanto uno stato d'animo, una condizione mentale modellata esclusivamente dall'antiberlusconismo. Significherà insomma, o significherebbe, che una parvenza di realtà c'è ancora, nell'Italia del reality postpolitico. Come si vede, la proposizione è ipotetica. Ed è superfluo specificare che i pericoli sono superiori alla opportunità, dato che da troppo tempo il centrosinistra è occupato in esegesi sofisticate sulla propria esistenza per essere in grado di mettere in moto il proprio elettorato. Mancano meno di tre mesi, ci sono di mezzo le vacanze d'agosto, la macchina organizzativa è allo stato fluido. Eppure a questo punto non è consentito sbagliare le primarie. Con una conseguenza imprevedibile, e per certi versi anche paradossale: se il popolo andrà alle urne, vorrà dire che l'Italia di centrosinistra è non uno soltanto, ma diversi passi avanti rispetto ai partiti. Insomma, partiti e uomini di partito devono impegnarsi per dimostrare di essere rimasti indietro rispetto all'opinione pubblica. Complicato. Ma le alternative potrebbero essere tutte peggiori della complicazione.
L'Espresso, 28/07/2005
tappabuchi MAGAZINE
Dal 18 luglio va in onda alle 13.30 la rubrica quotidiana "Mistrà". Mezz'ora di attualità e intrattenimento dopo il Tg2. E chi se ne frega, diranno le eccellenze vostre. Peggio per voi. Perché è vero che "Mistrà" è il classico programma tappabuchi fatto da una Rai che è una voragine; ma è anche vero che è un programma curato da Michele Bovi. Per i più informati non è necessario aggiungere che Bovi fu il sassofonista delle Pecore nere, storico "complesso" che scalò la top ten della Grecia; ma per tutti gli altri bisogna specificare che è anche il più formidabile archeologo dell'intrattenimento popolare, con master sulla musica leggera e laurea honoris causa in canzoni e cantanti. In più va aggiunto che Bovi è il pifferaio di una moltitudine di figure singolari, a cominciare da Pasquale Panella (che per colti e incolti è l'ultimo autore delle liriche di Lucio Battisti, cioè di quella quarantina di canzoni che non si ascoltano mai e in cui giacciono una quindicina di capolavori colpevolmente ignorati). Grazie alle sue amicizie, al rispetto per vecchie glorie della musica popolare, per un interesse così accanito da risultare sempre rivelatore, Bovi riesce sempre a scovare un inedito, una preziosità, una reliquia. Volete un clone per l'appunto di Battisti? Eccovi servito Roberto Pambianchi, uno che vi farà venire i brividi, e che difatti fa cento serate l'anno con il pubblico che quando lo sente ammutolisce e piange. Volete un bianco e nero dell'annata 1957 con Sergio Endrigo che canta "Come prima" con un gruppo di jazzisti, insieme a Riccardo Rauchi, in una versione piena di ironia e swing? Ma eccolo lì, imperdibile (e Rauchi, quando lo riscopriranno?). Poi metteteci un filmato mai visto con un Claudio Baglioni ganzo, capelluto e naturalmente tutto biancovestito, che canta "Tu come stai" in francese, o Francesco De Gregori impegnato in una canzone scritta per Patty Pravo, Bobby Solo che insegna come si fanno i gargarismi contro il mal di gola, e il programma è fatto. Ci sono le cinque migliori canzoni e i cinque migliori film. C'è Gene Gnocchi che recita i "lanci poetici" dell'ermetico incendiario Panella. In verità ci si chiede a che cosa servano i "servizi". Vabbè che "Mistrà" è un magazine, e dicono che nei magazine un po' di attualità (le liti nel condominio, il sushi) ci vuole. Ma in attesa di Baglioni e di De Gregori il sushi fa venire il flusso: gusti personali, s'intende.
L'Espresso, 28/07/2005
Il Sudoku di Viale Mazzini
Approvata la legge Gasparri, si era capito subito che le nuove procedure per la nomina del consiglio d'amministrazione della Rai avrebbero determinato dilemmi politicamente insolubili. Con l'obiettivo apparente di garantire la maggioranza politica e di assicurare la rappresentanza dell'opposizione, nonché con la necessità di un accordo trasversale fra i poli per l'elezione del presidente, si erano costituite tutte le condizioni per la paralisi. Che è avvenuta puntualmente, in un modo che supera di gran lunga il grottesco. Ma non basta, perché le premesse dichiarate si sono capovolte in conseguenze catastrofiche: vale a dire che l'intento di dare alla Rai un assetto ispirato all'equilibratura politica è diventato nei risultati una super-politicizzazione dell'emittente pubblica. Un capolavoro a rovescio, insomma. Ai tempi della prima Repubblica, se non altro la lottizzazione implicava il pluralismo. Le spartizioni imposte dalla proporzionale e dai rapporti di forza tra i partiti moltiplicavano posti, direzioni, ruoli, ma producevano di fatto una varietà di posizioni che rendevano la Rai un'immagine speculare esatta del sistema politico. Come disse Bettino Craxi, il centralino della Rai ha il numero 643111 (sei posti ai dc, quattro ai comunisti, tre ai socialisti e uno a testa ai laici minori). Che il sistema fosse distorto è del tutto fuori discussione. Ma il nuovo metodo somma ai guasti della lottizzazione la gabbia ferrea del modello bipolare. Adesso la spartizione avviene due volte, a destra e a sinistra. E alla fine di questo infernale Sudoku si aggiunge il patteggiamento estremo, ossia l'elezione di un presidente che funga da quadratura del cerchio. Il risultato è sotto gli occhi del mondo. C'è una Rai blindata politicamente. Detto senza moralismi antipolitici, il servizio pubblico, fintanto che si accetta questa dizione, dovrebbe avere un consiglio di amministrazione in grado, per prestigio e autorevolezza, di orientare scelte e programmi in modo equilibrato e culturalmente plausibile. Ma sono soltanto parole. Nella realtà dei fatti la Rai è considerata con ogni evidenza lo strumento fondamentale per gestire la campagna elettorale di qui al 2006. Ciò significa che quella che è stata la massima agenzia culturale del paese è diventata zona di occupazione. L'elezione del presidente, una tragicommedia, che ha avvilito figure come quella di Claudio Petruccioli, ha strumentalizzato candidature come quella di Andrea Monorchio e Giulio Malgara, innescando a giorni alterni le dicerie sul consigliere anziano più anziano degli altri, ossia il possibile facente funzione del presidente, al posto del sinistro Sandro Curzi. L'ex presidente della commissione di Vigilanza e oggi ministro delle Comunicazioni, Mario Landolfi, ha ipotizzato modifiche alla legge per evitare impasse di questo tipo. Ma toccare un solo tassello del problema Rai significa interferire con un processo che coinvolge la privatizzazione, l'assetto del duopolio, il mercato pubblicitario, la dosatura dell'informazione, gli interessi politici e clientelari più vari. Si rischia di mettere in discussione tutto. Il centro-sinistra non è esente da responsabilità, nel senso che è sceso malamente sul terreno del negoziato politico; adesso tanto vale aspettare, e pensare a una soluzione decorosa da infilare in un programma di governo.
L'Espresso, 04/08/2005
vasco in molliche
Domenica 17 luglio, alle 22.50, è andato in onda uno "Speciale Tg1" di Vincenzo Mollica, intitolato "Vasco, il provocautore". Mamma, i titoli della Rai, come dice Aldo Grasso. I milioni di fan del Blasco si saranno passati voce. Sarà tale la voglia di Vasco da suscitare amore anche per il Mollicone (quasi tutti pensano che Vincenzone sia il maestro delle interviste al miele e molti non sopportano l'eccesso di zibibbo e giulebbe: in realtà la soavità di Mollica è l'indizio di una cattiveria al cubo, perché con le sue domande da idolatra induce gli intervistati a esporsi in modo pericolosissimo, correndo così rischi mortali. Se fa apposta è talento; se gli viene naturale è una carogna dentro). Comunque, lo speciale era prezioso perché ha permesso di vedere uno dei rari ritratti di Vasco Rossi visibili in tv, e di ascoltare le sue canzoni e la sua filosofia. Da tempo, alcuni gruppi di studio sono al lavoro per cercare di capire le ragioni dello straordinario, forse mostruoso successo del rocker di Zocca: finora non si ha notizia di risultati. Certi critici severissimi di Vasco sostengono che le musiche sono banalotte, e i pezzi migliori tanto per saperlo glieli ha sempre scritti Tullio Ferro, ex chitarrista dei Luti Chroma; quanto alle "lyrics", c'è chi dice sì e c'è chi dice no: i soliti bastardi dicono no. Se poi ci mettiamo anche i video, sempre i carognoni sostengono che l'ultimo video di Vasco, "E..." (in cui un cinquantenne sovrappeso sta sulla spiaggia a contemplare un pulzellina, e nel frattempo scrive su un blocnotes ciò che il cuore gli detta), è una cosa tanto provinciale da fare venire il singulto. Ma ad ascoltarlo quando parla qualcosa si capisce. Vasco è quasi simpatico. Dice frasi un po' disordinate, il cui senso non è sempre chiarissimo, «capìtto?». Sostiene di stare «dalla parte dei vinti, di quelli che hanno avuto una cattiva giornata», cioè degli ultimi, e detto da uno che è sempre primo in classifica fa un certo effetto, come Bruce Springsteen che fa canzoni sugli sfigati d'America, lui trionfatore e star mondiale, per cui i poveri dovrebbero fargli causa per i diritti d'autore. Molto divertente quando parla dei suoi figli (Vasco ha un figlio figlio e due figli naturali, riconosciuti perché sotto sotto è uno che si prende le responsabilità, tanto chi se ne frega). Insomma, Mollica adora, Vasco dice, la musica funziona. Fatecene vedere un altro.
L'Espresso, 11/08/2005
Fini inconfessabili
Se si trattasse di una questione di fisica teorica potrebbero chiamarlo il "paradosso Fini", e ci sarebbero equazioni complicate che descriverebbero un fenomeno semplicissimo quanto indecifrabile. Ma poiché invece si tratta di una questione politica, non ci sono spiegazioni attendibili. Non resta che prenderne atto, come si fa davanti ai grandi misteri: il presidente di Alleanza nazionale, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Gianfranco Fini sarà pure chiacchierato, discusso nelle analisi da bar, spettegolato dai suoi numeri due, le sue qualità politiche contestate; eppure la sua popolarità non ne risulta affatto scalfita. Il destino sembra avere una predilezione strana e singolare per il capo di An: Fini può sbagliare qualsiasi mossa, cannare ogni decisione, infilare errori virtualmente catastrofici, eppure c'è qualche divinità politica, un arcano potere come diceva Walter Matthau in "Prima pagina", che gli tiene una mano santa sul capo. Anche gli ultimi sondaggi infatti mostrano che Fini è l'uomo di governo che gode dell'indice di fiducia più alto, superando di dieci punti il cauto ministro degli Interni Beppe Pisanu e di 13 l'avvenente Stefania Prestigiacomo. Mistero misterioso, per l'appunto. Da quando ha sgarrato rispetto al codice culturale, ideologico e politico di An, annunciando i suoi "sì" al referendum sulla fecondazione assistita, è apparso sintomatico che Fini sta perseguendo un disegno tutto suo, che sembra prescindere largamente dal destino politico di Alleanza nazionale. A ricapitolare le mosse del leader, si deve prendere nota di una serie di choc che hanno squassato un partito tradizionalista come il suo. Ad esempio, il riconoscimento del fascismo autore delle leggi razziali come il male assoluto aveva agitato dolorosamente un partito ancora legatissimo alle proprie radici, quali che siano: eppure si è poi visto che tutti coloro che minacciavano sfracelli, a cominciare da Francesco Storace, e avevano promesso tempeste e burrasche, alla fine hanno prodotto brezze e zefiri. Ogni volta che il presidente di An ha alzato la voce, tutti i colonnelli del partito hanno prima annunciato pronunciamenti e "alzamientos" contro una leadership così personalistica da risultare fastidiosa anche per gente che ha il culto dell'autorità. Dopo di che, i presunti "rebeldes" si sono messi in posizione prona ad aspettare la volontà del capo, «fai di noi ciò che vuoi». Anche quando Fini ha offeso sanguinosamente i suoi numeri due, definendo le correnti «una metastasi», dopo la prima immediata e violenta ribellione essi si sono accontentati delle modeste ragioni elencate dal numero uno nella replica, evitando di approfondire un conflitto che sembrava insanabile. Evidentemente ci dev'essere nel partito un riflesso condizionato che viene dal Novecento, secondo cui "il capo ha sempre ragione". Altrimenti non si capisce come mai un esponente di spicco come Maurizio Gasparri, autore di una legge fondamentale sul sistema televisivo (fondamentale per questo governo, naturalmente) sia stato "ritirato" dal governo Berlusconi-bis, dopo una notte di tregenda e di intrighi, e con quale faccia si sia acconciato ad accettare la ghigliottina di Fini, cominciando subito il comizio per annunciare che la propria destituzione significava il rilancio dell'azione politica del partito. Non si comprende neppure come sia stata accettata la nomina di Giulio Tremonti a vicepremier, dopo che un anno fa Fini aveva chiesto e ottenuto la sua testa con l'accusa e arma "fine-di-mondo" di presentare conti truccati. Invece è facilmente comprensibile che il trio caffettiero dei convitati di Piazza di Pietra (Altero Matteoli, Ignazio La Russa, di nuovo Gasparri) si sia lasciato andare a indispettite chiacchiere da caffè sulla solidità fisica, psicologica e politica del loro presidente: è tipico dei regimi assoluti concedere ai subordinati il diritto alla mormorazione. Anche sotto il fascismo vigeva il "ius murmurandi", come succede alle dittature temperate dalle barzellette. L'importante è non farsi individuare da una spia dell'Ovra o, con maggiore senso dell'attualità, da uno stagista del "Tempo". Ciò che è meno comprensibile è la passività con cui i maggiorenti di An hanno accettato la vendetta-tremenda-vendetta di Fini, che li aveva subito minacciati con voce gelida, «vi farò sputare sangue, ve la farò pagare». Detto fatto: vertici di An annichiliti, cariche azzerate, deleghe ritirate con un gesto imperioso anche quando non erano mai state affidate. In qualsiasi altro partito un simile repulisti avrebbe provocato un'insurrezione. Dentro An ha suscitato una diceria di malumori semiclandestini. Qualcuno si è tolto di mezzo, come il "democristiano" Publio Fiori, suscitando commenti quasi togliattiani tipo «Publio se n'è andato e soli ci ha lassato». Il senatore e professore Domenico Fisichella continua nella sua incessante contestazione della linea politico-culturale del partito, che a suo giudizio è uscito dal solco delle ispirazioni originarie (Fisichella non ha mai potuto digerire la corrività politicante con cui la leadership di An ha accettato di sostenere un progetto costituzionale fondato sulla devolution leghista). L'unica spiegazione ragionevole del "paradosso Fini" è che il presidente di An è lanciato ormai in una corsa propria e personale che ha poco che fare con il suo partito. Ha sistemato, dicono, con un corso intensivo i suoi problemi con l'inglese; assapora le soddisfazioni flautate che gli sono state aperte dal legame con i costituenti europei, Valéry Giscard d'Estaing e Giuliano Amato; cura con attenzione pignola l'abbronzatura e l'acconciatura, coprendo con sapienza i diradamenti; al massimo gli sfugge qualche sconvenienza con le sigarette accese nervosamente in luoghi no smoking. Nella lotta per la successione a Silvio Berlusconi, si è posto ai blocchi di partenza di fianco al cattolicissimo Pier Ferdinando Casini, differenziandosi in chiave laica con la posizione inattesa assunta sui referendum. Ma Fini sa benissimo che come capo di An, nonostante tutte le svolte e le virate degli ultimi mesi, ha bassissime possibilità di ambire alla guida della Casa delle libertà ed eventualmente del governo. Come ha segnalato uno dei migliori esperti della destra italiana, il politologo Piero Ignazi, per uscire dal suo paradosso, l'eclettico Gianfranco ha bisogno «di una mossa del cavallo, di una iniziativa che scombussoli il panorama del centro-destra, che gli tolga definitivamente l'etichetta postfascista e postmissina», e quindi una subalternità implicita. Dato che non può cambiare lui, la sua cultura, i libri che ha letto e quelli che ha evitato, gli amici che ha frequentato e quelli che ha smesso di frequentare, la sola possibilità razionale sembra consistere nel cambiare il contenitore. Cioè fare confluire Alleanza nazionale dentro un soggetto nuovo, il partito nazionale dei moderati. Questo significherebbe il definitivo ridimensionamento della classe dirigente di An, che proviene quasi interamente dal Msi. Per preparare la gerarchia del partito al purgatorio futuro, Fini intanto l'ha spedita all'inferno. Dopo i pettegolezzi romani della Caffetteria, Alleanza nazionale assomiglia a un non-partito, con un leader "legibus solutus" e una classe dirigente fatta di carneadi. I nuovi ufficiali che hanno sostituito il "colonnellume" (definizione del ministro delle comunicazioni Mario Landolfi) non sembrano impersonare una struttura di comando plausibile. I muscolari Marco Martinelli e Roberto Menia (nel cui sito Internet figura la confessione: «Amo i gatti e non dimenticherò mai il mio gatto nero, Lucifero, che non c'è più») non sembrano proporsi per un futuro politico importante; i più "politici" Andrea Ronchi e Donato Lamorte sono ottime terze file. Tutti insieme testimoniano di una condizione emergenziale, che a un certo punto dovrà sciogliersi. Perché sciogliendosi il dilemma di An si scioglierà anche il paradosso di Fini. Un leader cinquantenne, che ha davanti a sé un po' di tempo, ma non tantissimo (un giro di giostra, non di più); diverse opportunità, ma molte di queste chiuse da Casini. E sinora Fini ha dimostrato di saper agire con perfetto cinismo politico dentro An; adesso si tratterebbe di vedere se il poliedrico Gianfranco è capace di lavorare "contro" il suo partito: malgrado il suo pragmatismo radicale, non è detto che a cinquantatré anni, per reinventare se stesso, Fini sia capace di buttare a mare la propria storia, il proprio passato, il proprio partito. Certo, se ce la facesse, l'Italia avrebbe inopinatamente guadagnato un leader.
L'Espresso, 18/08/2005
Con il caldo c’è Totò
Per capire quando comincia l'estate vacanziera, non servono indagini sofisticate: basta accendere la tv nel pomeriggio, mentre parte l'abbiocco, e verificare se appaiono i titoli di testa del film di Camillo Mastrocinque "La banda degli onesti", con Totò e Peppino. Quest'anno è successo su Raiuno martedì 2 agosto, con otto giorni di anticipo sulle lacrime di San Lorenzo: nelle case i nonni hanno avvertito i bimbi, che hanno chiamato i genitori, che hanno spostato i divani davanti al teleschermo, e dopo qualche minuto tutti facevano i cori insieme al principe De Curtis che storpiava il cognome di Peppino: «Caro Lo Sturzo...». Lo Turco! Appunto. Dio solo sa come avviene la programmazione rituale di questo film. Secondo alcune leggende, pare che un consesso di programmisti Rai controlli il barometro, chieda conferma ai colonnelli delle previsioni, dopo di che un santone, un Meocci, un uomo sapiente viene interpellato e dà il responso. «Il momento è venuto». A quel punto si rivolgono generali ringraziamenti a Manitù (si sa che nello stesso momento nelle sale del "decision making" di Mediaset stanno per rispolverare la preziosa copia di "L'amante indiana", conservata in un sacrario controllato direttamente da Piersilvio). Vecchi film, vecchi doppiaggi, vecchi colori in cinemascope, vecchi bianchi e nero Ferrania. Si possono guardare dieci o 20 minuti e poi addormentarsi placidamente. D'altronde, di che dovremmo occuparci: delle placche in gola di Berlusconi? Del parere pro veritate del professor Malinconico sulla nominabilità di Meocci (Gesummaria, che malinconia)? Dei numeri telefonici della signora Fazio e delle intercettazioni di tutti quei simpaticoni? Della polemica fra Costanzo e Rondolino su "Walter e Giada"? Non scherziamo: accendiamo la tv e guardiamo "Le Olimpiadi dei mariti", con Tognazzi e Vianello, "La cambiale" con Totò e Peppino, "Nel segno di Venere" del maestro Dino Risi; ma anche "Un giorno per caso" con George Clooney e Michelle Pfeiffer. E, se si vuole esagerare, "L'insegnante va in collegio", con Edwige Fenech dell'infallibile Mariano Laurenti, regista di "Quel gran pezzo dell'Ubalda".
L'Espresso, 18/08/2005
Come obbedisce bene: promuoviamolo
A proposito della designazione di Alfredo Meocci alla direzione della Rai, non si è sottolineato bene che il suddetto non ha mai diretto niente. Ora, nominare alla guida della massima agenzia culturale del paese un uomo che ha raggiunto più o meno il ruolo di caposervizio al tg, e che poi ha fatto carriera in organismi pubblici per linee interne, grazie alla sua fede dorotea e alla sua passione per Mariano Rumor, costituisce una delle più cospicue eccentricità del sistema italiano contemporaneo. Questo detto benevolmente. Ancora con benevolenza si aggiunga che c'è una norma per cui chi ha avuto posizioni in un'autorità di controllo, prima di quattro anni non può, dicesi non può, andare a fare il controllato. Se insigni giuristi, come il professor Malinconico di Udine, sostengono che Meocci può, dicesi può, ciò significa una sola cosa: che il prof. Malinconico ignora la differenza fra un caposervizio e un direttore generale. Nessuno eccepirebbe se il giornalista Meocci ritornasse al suo onesto desk al tg. Ciò che non si capisce è per quale ragione la maggioranza abbia voluto imporlo alla direzione della Rai. Su "Avvenire" i titoli hanno fatto balenare l'idea di uno scambio colossale e miserabile: "Alla Rai Petruccioli, a Mediaset la serie A". In questo schema, Meocci sarebbe un comma aggiuntivo: la scelta di una personalità minore dettata dalla certezza della sua malleabilità. Per gli strateghi del centrodestra Meocci è l'immagine del dirigente obbediente: promoveatur. (Come promoveatur "l'ing." Claudio Regis, detto "el Valvola", che ha fatto fuori dall'Enea il premio Nobel Carlo Rubbia, anche se il "Corriere della Sera" non ha capito dove e come si sia laureato, secondo un memorabile articolo di Gian Antonio Stella del 2 agosto). Ora, si sa che esiste la grazia di Stato, e che papi di transizione possono diventare papi d'epoca. Quindi a Meocci non è precluso a priori alcun obiettivo. Ma intanto viene da chiedersi quanto sia autolesionista il paese che ha bisogno di manager finti, che rispondono solo alla ragione politica. Verrebbe voglia di chiederlo ai grandi imprenditori che onorano l'Italia industriale, agli industriali che combattono la dura partita della concorrenza, ai commis che si sbattono nonostante tutto: qualcuno di loro designerebbe come amministratore delegato un impiegato? Montezemolo nominerebbe mai al posto di Jean Todt un giornalista di media qualità, o un consigliere comunale del Ccd? Diego Della Valle metterebbe al vertice delle Tod's un collaboratore del periodico diocesano "Verona fedele"? E il ministro Domenico Siniscalco sistemerebbe alla direzione del Tesoro uno dell'ufficio stampa? A proposito, sempre per toccare temi cari ai piani alti della Confindustria: la pagliacciata dell'asta sul calcio in chiaro, con i cento miserandi euro di offerta, è un successo del mercato o una mosconata della consociazione? E le dichiarazioni secondo cui l'asta è stata un successo perché la Rai ha conquistato la Coppa Italia, come andranno prese, come la certezza che i cittadini sono diventati talmente ottusi che ingoieranno anche questa? Sono naturalmente domande retoriche. Il punto è che quattro anni di Cdl sono stati sufficienti per corrodere il tessuto delle regole, non solo, delle convenzioni, delle formalità, del galateo. Ci sarà un motivo se il governatore della Banca d'Italia e membri della sua famiglia parlano in romanesco, o in ciociaro, con la compagnia del concerto. Ci saranno ragioni essenziali se la Banca centrale è diventata un pertugio in cui si entra "dal retro", con doppi sensi ed effetti comici degni del migliore Totò. Dice Arturo Parisi, suscitando un mezzo scandalo, che sta tornando la questione morale. Chissà. Sta prendendo il sopravvento su un'Italia mitridatizzata, un'Italia totalmente spregiudicata, che ha capito come trattare i veleni, che considera normale l'illegalità e manipolabili le norme secondo interesse. Insomma, una situazione manzoniana, si direbbe, fra gride e Azzeccagarbugli; ma prima di ricorrere ai "Promessi sposi", va messo a fuoco che il pettinatissimo presidente del Consiglio ha accampato una faringite per evitare di prendere una posizione su Fazio, con l'atteggiamento del "troncare e sopire" tipico del conte-zio, e che il vicepremier Tremonti ha salutato la relazione del collega Domenico Siniscalco sulla Banca d'Italia come "il ruggito di don Abbondio". Tanto per restare in ambito manzoniano, non resterebbe che aspettare una bella pioggia, che porti via la peste.
L'Espresso, 25/08/2005
Meglio pupi che bonolis
Siccome noi non crediamo nel giornalismo presunto anglosassone, quello dei fischi separati dai fiaschi, mettiamo subito in chiaro il point-of-view. Il punto di vista sarebbe il seguente: noi stiamo con Pupo. Per tanti motivi. Primo: fin dalla prima puntata del programma "Il malloppo", in questa comunità di villeggianti si è scatenato un dibattito intenso: i capelli di Pupo, in arte Enzo Ghinazzi, sono più veri o meno veri di quelli di Silvio Berlusconi? La domanda è rimasta intonsa perché c'è un partito femminile che sostiene la versione toupet. Capelli artificiali, ben realizzati ma falsi. C'è una componente maschile, suggestionata dalla virilità del cantante, che giura invece sulla naturalità: la virilità sarebbe certificata dal fatto che vive da vent'anni con moglie e morosa. Secondo questa corrente d'opinione, la testa di Pupo appare così perché è così: ci mancherebbe anche che fosse calvo, dovremmo aggiornare il catalogo dei nani pelati (anche se notoriamente i nani pelati si sottopongono a sevizie per aumentare il tacco e lo stacco, nonché per infoltire i capelli sul cranio). Secondo motivo dell'"endorsement" a Pupo: ma insomma, sarà poi peggio di Paolo Bonolis? Quello del vecchio conio? Colui il quale esso lui che parla mezzo aulico e mezzo coatto, e per questo piace alle professoresse in pensione, che non capiscono che parla uguale a Renato Zero, il quale a sua volta, ahò, parla uguale a Stefano Ricucci (già, anche il marito di Anna Falchi è una vittima di Ground Zero, nel senso che fa di tutto per assomigliare a Renatino; in certe foto sembra un suo parente stretto, vedi l'effetto infallibile della "cuginanza" di Sergio Romano). No che non è peggio di Bonolis, Pupo. Oltretutto costerà un sessantaquattresimo di Bonolis. Quanto al gioco in sé, "Il malloppo" è una cretinata uguale agli altri giochi di quella fascia, dove invitano i poveri con il miraggio di arricchirli, e quindi facendoli passare per scemi quando si giocano il malloppo, così a casa tutti pensano di essere più intelligenti. Logico che poi "Avvenire" faccia critiche criticone. Ma uno normale guarda il programma solo per controllare la prestazione di Pupo. Perché ricordiamo tutti il momento magico in cui il cinico Gianni Boncompagni lo definì «la risposta italiana a Sting». Lui, Ghinazzi, l'ha ricordato nella prima puntata del gioco: è stato l'unico "sopra le righe" di una performance senza sbreghi.
L'Espresso, 25/08/2005
Taglierò le tasse sul lavoro
I Prodi-boys, anche i più attempati, lavorano tutti, durante questo agosto variabile, clima estivo mutevole, atmosfera politica surriscaldata: si telefonano, si scambiano e-mail sui palmari, discutono, dissentono, convergono. In questi giorni gli uomini della tribù prodiana sono disseminati per l'Italia: il leader "Romano" ha abbandonato l'Appennino reggiano, la banda dei 101 fratelli, parenti, nipoti e pronipoti, e le escursioni sulla mongolfiera più grande d'Italia, per discendere la Penisola sulla sua nuova Croma, con la decalcomania, anzi emilianamente il "patacchino" dell'orgoglio automobilistico nazionale, "Io viaggio italiano": giù con "la Flavia" fino a Castiglione della Pescaia, sotto Punta Ala, dove lo aspetta il soldato Andrea Papini (il milite che ha resistito nella trincea della lista unitaria, fino al sacrificio estremo, alle bordate anti- uliviste di Ciriaco De Mita). All'uscita del casello di Firenze Certosa uno degli addetti lo ha riconosciuto e mentre incassava il pedaggio ha esclamato: «Professore, speriamo di vincere, questa volta!». Prodi lo ha preso come un buon augurio, una specie di indice di popolarità misurato "on the road". Il consigliere più sofisticato, Arturo Parisi, batte invece la costa della Sardegna fra Sassari e Alghero, respingendo a forza di dialettica i siluri dei Ds che l'hanno accusato di avere riesumato in modo pretestuoso la "questione morale". Eppure, commenta lui, se si rilegge la sua intervista al "Corriere della Sera" è piuttosto difficile trovare accuse dirette ai Ds. Si parlava piuttosto di un ambiente generale, in cui interessi molteplici potevano incrociarsi in chiave di scambio trasversale, mischiando le carte del confronto politico. E del rischio di raccogliere «una domanda di alternativa con una risposta di alternanza». Noi al posto degli altri. L'altro factotum di Prodi, Giulio Santagata, è laggiù nelle Puglie, vicino alla dalemiana Gallipoli, a preparare fra un bagno e l'altro schede per il programma, e a pensare al look del Tir giallo in preparazione per la campagna delle primarie. Eppure, solo a nominare il programma, "Romano" si infastidisce: «L'ho già detto e ripetuto, non c'è paese al mondo in cui si presenta un programma di governo dieci mesi prima delle elezioni. La realtà politica, economica, sociale va monitorata continuamente, il messaggio ai cittadini va tenuto ancorato alla realtà dei fatti. Altrimenti si fa della poesia». Ma allora alle primarie di che cosa si parlerà, su quali basi si svolgerà il confronto con gli altri candidati, e in particolare con l'oltranzista Fausto Bertinotti, quello che dice «lo Stato sociale non si tocca»? «Presenteremo le nostre linee guida, le nostre priorità, che saranno messaggi diretti per la società italiana, la sintesi del nostro atteggiamento rispetto ai problemi del Paese, cercando di far capire ai cittadini la nostra linea alternativa rispetto alla Casa delle libertà». Dal suo eremo pugliese, fra mattinate neghittose, pranzi molto lenti a base di fragranti grigliate di pesce, e durante tardi pomeriggi di puro attivismo, Santagata commenta: «Romano è concentratissimo sul problema della crescita, sa benissimo che questo è il primo punto di qualsiasi programma di centro-sinistra, perché siamo keynesiani anche noi, mica solo Siniscalco; in secondo luogo, sappiamo benissimo che oggi ci troviamo di fronte anche a un problema redistributivo rilevante, ossia a uno squilibrio creatosi fra il lavoro e la rendita: una situazione che in questa estate si potrebbe sintetizzare con lo schema "ombrelloni vuoti e posti barca pieni". Se si impoverisce il turismo di massa ed esplode il consumo di élite, ci sarà qualcosa che non va. O no?». L'argomento della crescita si rivela cruciale soprattutto se lo si mette a confronto con l'andamento generale dell'economia: prima la bocciatura dell'agenzia internazionale Standard & Poor's, che vede ombre sull'intera politica italiana, non soltanto sulla destra, poi gli attacchi arcigni dell'"Economist", che liquida senza mercè il governatore Fazio, mette in maschera da Arlecchino l'Italia delle "commedie finanziarie" e infine tratta con freddezza lo stesso Prodi, perché «non è un leader». Senza poi contare il "rimbalzino" del Pil, quello zero virgola 7 per cento di crescita nel secondo trimestre che ha riportato a pelo d'acqua l'economia: secondo Berlusconi «ha smentito le Cassandre della sinistra» e prontamente i telegiornali hanno salutato l'evento statistico con un tipico entusiasmo di regime, parlando dell'Italia come della «locomotiva d'Europa, almeno nel breve periodo». Sugli ultimi dati macroeconomici il Professore non si scompone: «L'avevo detto qualche tempo fa che il fondo era stato toccato. Se c'è un rialzo, è un bene per il Paese, perché non si può stare in apnea troppo a lungo. Adesso si tratta di vedere se siamo capaci di acciuffare la ripresa tedesca: dobbiamo fare tutto il possibile in questa direzione». E il risanamento dei conti pubblici? «Ho sempre sostenuto che i conti dello Stato sono il riflesso di andamenti reali, del funzionamento complessivo di un'economia. Se il debito cresce, se l'avanzo primario cade, non è solo questione di numeri. Per questo ripeto e sottolineo il mio no alla politica dei due tempi. Bonifica dei conti pubblici e rilancio economico devono andare insieme. Questo è il nostro programma. Se qualcuno vorrà dipingerci come quelli che vogliono strangolare il Paese sbaglia indirizzo. Il grande freddo, lo zero virgola zero in crescita lo ha provocato la politica economica del centrodestra». Non sarà facile riprendere alla svelta il sentiero positivo. Anche il ministro dell'economia, Domenico Siniscalco, va dicendo che l'unico rimedio è la crescita. Lo sosteneva Giulio Tremonti. Lo annunciava Berlusconi. Secondo il governatore Fazio il miracolo era «dietro l'angolo». Di fronte alle magie annunciate da destra l'ex presidente della Confindustria Antonio D'Amato aveva esclamato tutto fiducioso «e adesso, turbo». Prodi non vuole fare promesse sensazionali, dato che «i conti vanno fatti prima di tutto con la realtà». Ma nelle sue priorità, quelle su cui si misurerà in settembre con gli altri candidati alle primarie, ce n'è una su cui lo staff sta lavorando da tempo: «L'obiettivo principale è quello che abbiamo segnalato, la riduzione del cuneo fiscale sul reddito da lavoro dipendente. Ciò implica un vantaggio doppio e simmetrico: per le imprese, in termini di costo del lavoro, e quindi di competitività, e per i lavoratori, come recupero di potere d'acquisto. Le modalità di questo taglio le esporremo compiutamente nel programma, ma l'obiettivo è di determinare una riduzione del carico fiscale fra il 5 e il 10 per cento delle retribuzioni lorde». Basterà? «Questo è solo un aspetto, anche se uno dei più immediatamente visibili», aggiunge Santagata: «Sullo sfondo c'è tutto il discorso sulle liberalizzazioni, che il governo di centrodestra ha riposto nello scantinato di Palazzo Chigi, e che investe un ampio versante di posizioni, dalle professioni all'energia. Il tema delle liberalizzazioni può apparire astratto, ma bisogna chiedere agli imprenditori, di qualsiasi settore, se sono contenti di pagare la bolletta elettrica più cara d'Europa, grazie a un settore così gravato da vincoli». «Stiamo lavorando sul programma», aggiunge Prodi, «in modo empirico, pezzo per pezzo, cercando di individuare gli aspetti che investono gli interessi dei cittadini». Qual è allora il punto chiave per rispondere alle esigenze diffuse? «In primo luogo il recupero del potere d'acquisto. Noi abbiamo assistito a una speculazione brutale sull'euro, e adesso bisogna bloccare la tendenza, possibilmente invertirla in certi comparti di spesa. È difficile, lo so, è come rimettere il dentifricio nel tubetto. Ma non possiamo limitarci ad assistere a questo fenomeno patologico. Ci sono settori, come il turismo, in cui si sono raggiunti limiti impressionanti, non europei: dopo tre anni di euro si continua a discutere sul passato, ma senza fare niente sul presente». Questo andamento dell'inflazione ha determinato una sorta di processo all'euro come causa di tutti i mali: il costo della vita, la perdita di competitività, l'impossibilità delle svalutazioni competitive. «Fosse per me», dice Parisi, «visto che la Casa delle libertà farà campagna contro "l'euro di Prodi", sarebbe il caso che Romano si presentasse come il protagonista dell'euro, rovesciando provocatoriamente l'approccio. Dove saremmo senza la moneta unica, con il costo del denaro tre volte più alto, i mutui che sarebbero già diventati insostenibili per le famiglie, e con le conseguenze del discredito provocato dai casi Parmalat e Cirio, con gli attacchi della stampa straniera, con il petrolio a questi livelli? Bisogna presentarsi come gli uomini della stabilità e del governo contro le proposte caotiche dell'avventurismo». Tuttavia, aggiunge Santagata, non si può dimenticare che è improprio parlare genericamente di "ceti medi impoveriti": «L'impoverimento, quando c'è stato, è avvenuto a senso unico, ai danni del lavoro dipendente. Qualcuno si è impoverito e qualcun altro invece si è arricchito. È come se all'elettorato di Forza Italia fosse stato consentito il grande furto con destrezza contro l'elettorato di centro-sinistra, gli impiegati, i lavoratori, i pensionati». Vero, commenta Prodi: «Senza demonizzare nessuno, occorre ricordare che l'inflazione è sempre un tiro alla fune sociale: c'è chi ci perde, e i poveri ci perdono più vistosamente, e chi invece ci guadagna. E pensare che sarebbe stato sufficiente applicare il piano di controllo che il ministro del tesoro Ciampi aveva predisposto, seguendo le raccomandazioni dell'Unione europea, per mitigare in ogni caso gli effetti del cambio di unità monetaria. Niente, non è stato fatto niente, non si è controllato nulla, non è stato fatto ciò che hanno fatto gli altri paesi, ispezioni, verifica sui mercati. Non lo dico perché sia malato di dirigismo, lo so benissimo che non siamo negli anni Settanta, il mercato va per i fatti suoi e non si possono reintrodurre pratiche come il paniere dei prezzi amministrati: si trattava di praticare forme di persuasione, esercitando una pressione intelligente sui comportamenti. Com'è che in Austria queste misure di semplice buon senso hanno funzionato e qui le abbiamo lasciate inutilizzate?». Ma il conflitto politico non sarà soltanto sull'economia. Anche se in questo momento il dibattito è silente, la riforma costituzionale della Cdl determinerà una guerra politica. Prodi su questo è categorico: «Come ha detto spesso nei nostri incontri un giurista del valore di Franco Pizzetti, noi non possiamo rinunciare al nostro impulso riformatore: questo vuol dire che siamo intransigenti nella difesa dei principi fondamentali della Costituzione del '48, ma anche contrari a un principio di immutabilità sacra degli strumenti applicativi della Carta. Detto questo, non perderemo nessuna opportunità per manifestare la nostra opposizione sia alla devolution sia al disequilibrio fra i poteri fondamentali. Ma soprattutto manifesteremo la nostra contrarietà a un sistema complessivo, con un bicameralismo contraddittorio, che sembra una bicicletta con una ruota rotonda e una ruota quadrata». Nel frattempo stiamo osservando una formidabile lotta di potere, che si gioca sul terreno della finanza, con intrecci talvolta imbarazzanti. Per dissolvere gli equivoci, Parisi invita a rileggere la sua ormai celebre intervista sulla questione morale: «Ho messo in rilievo che di fronte alle intese trasversali fra soggetti economici e politici, ci può essere una ripercussione pesante nell'opinione pubblica: cioè un contraccolpo che può manifestarsi come revival giustizialista, oppure come un'ondata di cinismo di massa, all'insegna della conclusione secondo cui tutti sono uguali». Santagata ridimensiona: di fronte alle richieste di adottare un codice etico, come richiedono Paolo Sylos Labini e altri esponenti della società civile, richiama il criterio per cui l'etica è una precondizione, uno sfondo: «Di solito si mettono nelle cartelle per la stampa i codici etici quando l'azienda è sull'orlo del fallimento oppure quando l'etica è svaporata...». Tuttavia non sfuggirà al Professore che è in corso una partita importante: Antonveneta, Bnl, "Corriere della Sera", e chissà che cos'altro. «È una partita grossa, che rivela la rottura di regole, convenzioni, abitudini consolidate...». Ma che cosa c'è in ballo, un establishment che cerca di scalzarne un altro? «Intanto c'è gente che ci mette un sacco di soldi, e io sono sempre stato colpito da quel che mi diceva Helmut Kohl». E che cosa diceva il Cancelliere? «Che non si può essere ricchi e fare politica». E allora, di fronte a queste ricchezze che passano di mano, alle mosconate in Borsa, al contesto in cui politica e affari si incrociano, che cosa occorre fare? «Intanto abbiamo messo a punto un programma di razionalizzazione delle authority, molto importante come segmento del futuro programma: si tratta di un segno forte di riorganizzazione dello Stato e delle garanzie di equilibrio fra soggetti e poteri: nel bipolarismo le autorità neutrali diventano essenziali. Se abbiamo in mente uno Stato moderno, efficace, non possiamo rinunciare a metterci le mani, a farlo funzionare meglio. Anche questo, se permettete, è riformismo».
L'Espresso, 01/09/2005
Era davvero il massimo
In una placida nottata d'agosto, mentre splende la luna e si riesce perfino a vedere quel minestrone di stelle che è la via Lattea, uno si chiede: com'è che non fanno uno speciale su Massimo Troisi? Puntuale a smentire l'incredulità dei più, mercoledì 17 agosto su Raitre è arrivata un'edizione di "Off Hollywood 2005" dedicata per l'appunto a isso. Vabbè, era l'una di notte, e quindi dal punto di vista cronologico era già giovedì 18. Ma insomma, ci siamo capiti. Il programma comprendeva uno speciale di "Mixer" del '96, e l'occasione era offerta dal decennale del "Postino", l'ultimo film dell'attore napoletano. Confessiamo che quel film ci riporta a sentimenti contrastanti, perché Troisi vi appariva già malato, pallidissimo, scavato, mamma mia che impressione. Eppure, a rivederlo, se si supera l'emozione di vedere un ragazzo non meridionale, bensì meridiano, evidentemente caro agli dei, e quindi sottratto anzitempo agli umani complice un cuore fallace, si ha di nuovo la sensazione che il Massino napoletano fosse un attore straordinario, capace di estrarre comicità da spunti modestissimi, da giochi di linguaggio e di lessico culturale assolutamente ordinari: come quando in un certo filmetto con Benigni, che forse poteva chiamarsi "Non ci resta che piangere", si avvicina alla desiata Amanda Sandrelli fingendosi autore di canzoni e madrigali, e improvvisa "Yesterday" spacciandola per una sua creazione estemporanea. E canticchia «Yesterday, na na», sottolineando alla pulzella l'importanza di quei due accordi, "na na", o "la la", di Paul McCartney, ricevendone un apprezzamento incondizionato (qui si cita a memoria, quindi non sono gradite precisazioni). Oppure si può ricordare Troisi nella veste di telefonatore misterioso nel secondo programma televisivo cult di Renzo Arbore, "Indietro tutta". Insomma, ricordiamoci quello che vogliamo, a scelta: resta il fatto che a distanza di anni, nonostante il sopravvalutato "Ricomincio da tre", si potrebbe anche sostenere che il partenopeo e il partenapoletano era il meglio di tutti, e se allora non ci piaceva ci piace adesso, perché siamo fatti così. Ossia, quando appare una stella, diciamo che il presepio non ci piace. Ma poi, quando la stella cade, e si vede il firmamento residuo, si recupera la razionalità di giudizio, e si conviene per l'appunto che Troisi era eccetera. Programma condotto da Pascal Vicedomini, che in certe occasioni non disturba.