L’Espresso
L'Espresso, 01/09/2005
Tutti i gol dalla A alla Z
Comincia il campionato. Ecco una guida alfabetica, inattendibile ma attesissima: una serie di tiri mancini per orientarsi nei meandri del campionato più demenziale del mondo. ABBIATI Riassunto delle puntate precedenti: in precampionato il milanista Kakà svelle un braccio e scardina una spalla al nazionale juventino Gigi Buffon, sicché il generoso patron del Milan (vedi alla lettera B) concede in prestito la brava riserva di Dida che fra i rossoneri non gioca mai e si deprime. Quasi tutti dicono, ah che generoso, che sportivo il Cavalier B, che risarcisce la società avversaria. Gli irriducibili antiberlusconiani, cioè gli ultras di sinistra, comunisti, livornesi, guevaristi, eccetera, toghe rosse comprese, sogghignano e insinuano che il Milan si è liberato di uno stipendio. Ultrasinistri ancora più maligni si augurano che nel prossimo scontro al vertice in campionato Ibrahimovic o chi per lui stronchi una caviglia a Dida: dopodiché al Cavaliere gli diamo uno a scelta, magari Del Piero. BERLUSCONI Non è che il suo allenatore Ancelotti sia un estremista di sinistra come il povero Zaccheroni (vedi alla Z), e anzi ci sembra di ricordare che in famiglia oscillino verso Forza Italia, soprattutto la moglie (se non è vero, signora, ci perdoni: non volevamo offenderla). Ma il Cavaliere non gliene lascia passare una: e una volta lo critica perché gioca con una punta sola, «mentre il Milan deve giocare sempre con due punte», come faceva lui, il Grande Silvio, quando allenava l'Edilnord; e adesso lo pungola, lo critica, lo intimidisce, gli rompe i santissimi perché non valorizza appieno un grande organico: «Un sarto distratto a volte può rovinare anche la stoffa migliore». Il povero Ancelotti, che già a Torino ebbe le sue grane («Un maiale non può allenare», lo insultarono gli ultras juventini), raccoglie le confidenze dei senatori, quelli dello spogliatoio, non quelli di Pera, che gli consigliano amichevolmente di andarsene. Ma lui resiste. Consigli alla consorte: signora, ci metta una buona parola lei. COLLINA L'arbitro più bravo del mondo, uno che non penserebbe mai di trapiantarsi un ciuffo sulla pelata, si è fatto sponsorizzare dalla General Motors, che con il marchio Opel da 12 anni è lo sponsor del Milan. E poi dicono il conflitto di interessi: storie, gli interessi qui convergono sempre con precisione inesorabile. Come finirà nessuno lo sa, perché sembra chiaro che a Collina avevano dato il via libera ai piani alti della Federazione, tanto chissenefrega, due lire. Ma nessuno tocchi Collina, perché la situazione arbitrale è un pasticcio, e quella dei guardalinee è peggio: ogni volta annullano gol validi perché non sanno giudicare il fuorigioco. E poi, cari tutti, abbiamo sopportato Tremonti, ci stiamo abituando a Monti, volete che non tolleriamo Collina? DEL PIERO Ah che piacere, che gusto, che soddisfaziòn! È ricominciato il tormentone. La bandiera della Juve che fa la riserva, che si avvilisce in panchina. Il mascellone Capello che lo umilia, lo tratta come uno scartino. Lui, l'abilissimo Alex, non dice una parola, resiste muto anche alla concorrenza di Mutu. Si sa come andrà a finire: andrà in campo a spizzichi, ma poiché è fortunato e ha mestiere, infilerà qualche golletto, farà mezzo dribbling, un tiro a rientrare che colpirà il palo, un rigore piazzato con destrezza, e tutti diranno che è risorto. Appunto: se è risorto mandiamolo in cielo, nell'azzurrità, rifiliamolo al Cavaliere, che così imporrà ad Ancelotti di giocare con quattro o cinque punte. Ma ci sono i fondamentalisti, quelli che dicono che non si cedono le bandiere, i fanatici di Alex, coloro che hanno apprezzato anche la telenovela pubblicitaria dell'uccellino. E allora, consiglio a Moggi (vedi alla lettera L): fategli un contratto da dirigente, e la formazione fatela decidere a lui. ESTERO SU ESTERO Piccola domanda perfida a quelli che credono che il campionato italiano di serie A sia il più bello o il più difficile del mondo: ma com'è che tutti i giocatori italiani che vanno all'estero rimediano figure generalmente barbine (eccetto Zola, s'intende: ma Zola non è semplicemente italiano, Zola è sardo)? Attaccanti celebrati come Di Vaio o Corradi, centrocampisti come Fiore, promesse come Maccarone, vanno tutti via lanciando proclami, conquisterò l'Europa o roba simile, e scompaiono miseramente, oppure tornano con le pive nel sacco. Se la cavano i portieri, come Cudicini e Roma; ma per gli altri l'Europa è un purgatorio, e anche il ct della Nazionale Lippi se li dimentica subito, appena varcati i confini. Il fatto è che qui si è profeti solo in patria. FIGO Il calcio estivo è divertente perché è tutto "palabratico", come diceva Gianni Brera (dallo spagnolo "palabras", parole). Quindi nell'estate parolaia "ci sta", come invece dicono i telecronisti euforizzati alla Piccinini, che un'ala destra vecchiotta e dribblomane come il portoghese Figo venga presentata come un grande colpo di mercato dell'Inter. Storie: il pettinatissimo e mesciato Mancini consentirà a Figo qualche apparizione precaria e inutile, e al decimo dribbling fallito allargherà le braccia, si rivolgerà sconsolato alla tribuna e farà capire ciò che tutti avevano capito da soli: ovvero che la prerogativa migliore del vissutissimo Figo è la famiglia, moglie scandinava e top model (faccela vedè, faccela toccà, cantano già gli estremisti di pallone & sesso, quelli delle brigate "kamasultras"), nonché bambini da spot pubblicitario. Ma se questo è lo schema, se deve vincere il glamour, wow!, l'anno prossimo Moratti (vedi alla M) metterà sotto contratto Beckham e la Spice Victoria. GILARDINO Siamo tutti qui che facciamo gli scongiuri, perché il nuovo Paolo Rossi, il formidabile goleador giovane, l'attaccante che mancava alla Nazionale, quello che segna anche solo a prendere il pallone a sputi, è stato ingaggiato dal Milan "all star". E allora il rischio è il solito: che il giovane gioca sì e gioca no, gioca un po', non ha mai occasione di far vedere le doti, e dopo un anno tutti dicono che non ha mantenuto le promesse. Gilardino non è Cassano (vedi alla lettera Q), anche se ultimamente deve avere ceduto anche lui al trend mesciato, perché un campione deve piacere innanzitutto alle parrucchiere: è affidabile e ha carattere. Ma se diventerà uno fra le decine di attaccanti rossoneri, nonostante gli imperativi berlusconiani sul gioco a due punte, si rischia di non dargli continuità: un centravanti deve poter segnare al primo minuto, ma anche all'ottantanovesimo. Se non lo si fa entrare, o lo si toglie a metà partita, salvate il soldato Gilardino. HOTEL QUARK In questo albergo milanese si accendono gli ultimi fuochi di campagna acquisti dal 29 al 31 agosto. Lontani i tempi del Gallia, allorché i "ricchi scemi" si scambiavano patacche a suon di milioni se non miliardi, e i meno fessi accendevano il mercato ed entusiasmavano gli ultras vendendo un cane da dieci miliardi per due gatti da cinque. Adesso tutti aspettano il botto, il colpo conclusivo, un'invenzione di Berlusconi e Galliani. Ma non dimentichiamo l'immortale motto di Schopenhauer, filosofo del pessimismo: «Solo gli stupidi aspettano da un momento all'altro la notizia decisiva» (noi siamo ancora peggio: aspettiamo il commento). Comunque, se vendono Del Piero, Cassano, o anche Miccoli, fateci un fischio, magari filosofico. IBRAHIMOVIC Sono passati i tempi in cui era il ragazzo terribile dell'Aiax, quello che entrò nello spogliatoio, guardò con insolenza i senatori (non quelli di Pera, dobbiamo ripeterlo?) e disse: «Salve, io Sono Zlatan. E voi chi cazzo siete?». Adesso ha maturato uno stile juventino, ha perfino sistemato l'acconciatura, non pare che si sia fatto fare tatuaggi, come fanno gli imbecilli (se li ha fatti, lo perdoniamo). Le uniche eccentricità le manifesta nel gioco, quando fa il giocoliere, "flips & tricks", giochetti, trucchetti, finte, irrisioni, il povero difensore interista Samuel ridotto con gli occhi in croce nella Supercoppa, tanto che non c'è da stupirsi che poi voglia sputare per terra e sputi invece nella schiena di Nedved. L'unico pericolo è che Del Piero (vedi alla D) gli faccia un vudù con bamboline e spilloni; oppure che un difensore si ricordi di quello che accadde tanti decenni fa al centravanti Stabile, che fu chiamato "el Filtrador", finché non gli spezzarono una gamba all'ingresso dell'area, così imparava a filtrare. LUCKY LUCIANO Come si sa è il soprannome che i malevoli hanno appioppato a Luciano Moggi, general manager della Juventus. Ora è vero che SuperMoggi di recente ha qualche traversia giudiziaria, ma noi che siamo garantisti sappiamo che nel nostro civile ordinamento giuridico nessuno è colpevole almeno finché non è arrivato al terzo grado di giudizio, al giudizio universale, o al trentesimo campionato rubato. Come ogni anno, Moggi ha costruito una Juve fortissima, che vincerà a mani basse il torneo. Se non lo vincerà, è colpa di Capello, che avrà sbagliato la tinta dei capelli, o di Del Piero, che avrà perso la carica agonistica in quanto, pieno di grazia francescana, e non avendo un tubo da fare in panchina, continuerà a parlare agli uccellini. Quanto ai rapporti al vertice, relazioni francescane anche con Berlusconi: "Abbiati Fede". Ovviamente, Lucky sottolinea Abbiati, Lui sottolinea Fede. MORATTI Le ultime stime del Fondo monetario internazionale sostengono che nella sua carriera di patron dell'Inter il presidentissimo Massimo ha speso una cifra superiore al Pil del Belgio e potrebbe lanciare un'opa sul Canton Ticino. Il ministro Siniscalco ha promesso vigilanza, la Banca d'Italia no. Intanto Moratti si è innamorato dell'ultima sfumatura frontale dei capelli di Mancini, un'autentica onda anomala. Si sostiene negli ambienti meglio informati che la rivalità acerrima fra l'ex trequartista Mancini e l'ex centrocampista Capello, che fa impallidire il conflitto Hunziker-Ramazzotti, dipenda soprattutto da una questione di acconciatura. Sconfitto inopinatamente dall'Inter nella Supercoppa, dopo che i bianconeri avevano sprecato sette palle gol, Capello ha minacciato di farsi tatuare sull'abbondante basletta il profilo di Ibrahimovic, oppure quello di Eros Ramazzotti. Escaléscion is escaléscion, caro Mancini, caro Moratti. NEDVED L'ex pallone d'oro ha perso la patina. Le sue corse sono meno veloci, i suoi tiri sono più telefonati, le sue cadute sono meno caprioleggianti, perfino la sua acconciatura è meno spettacolare. Ma cos'è questa crisi? Solo l'invecchiamento, quei 33 anni che sono l'età di Cristo e l'età di Figo, e risultano quasi sempre pesanti da portare, un'autentica croce? I maligni hanno altre interpretazioni, che lasciamo alla loro malignità. C'è da dire che alla Juventus attuale manca soltanto la rabbia e l'orgoglio del ceco. Se non riesce a recuperare la forma fisica, il mai fallace Moggi (vedi alla lettera L) ha pensato a una exit strategy che coinvolge come centrocampista il presidente del Senato Marcello Pera. Sempre che l'insigne popperiano non giudichi troppo meticcia la squadra bianconera (Gesummaria, tutti quei neroni, magari musulmani!). ODDO Non c'è nessuna ragione se non quella rigidamente alfabetica per classificare sotto la "o" l'esterno della Lazio. Soltanto il fatto che a ogni campagna acquisti Oddo viene dato in predicato di passare alla Juve, a questa squadra, a quella, e poi non passa o non predica mai. Si spera in qualche sorpresa negli ultimi giorni di mercato, all'Hotel Quark (vedi alla lettera H). Se neanche Quark funziona, prendetevela con Piero e Alberto Angela. Oddo è come il tifoso lazial-bolognese Gianfranco Fini, che parla, parla e non conclude mai. PIZARRO Per molti aspetti vale per il neo-acquisto dell'Inter ciò che si è detto per Gilardino (vedi alla G). Il centrocampista venuto dall'Udinese è stato descritto così da Spalletti, ora nuovo allenatore della Roma (vedi alla Q): "Pizarro gioca arretrato, ma ha una tecnica e un dribbling da trequartista. Se non lo marcano, lancia come un dio. Se lo marcano, comincia a dribblare e nasconde la palla per tutta la partita». Solo che anche il centrocampo dell'Inter è affollatissimo, e Pizarro sarà pure il migliore playmaker del mondo, ma se gioca Veron questo non si nota. Quindi salvate anche il soldato Pizarro. QUARTA FORZA Aperto il dibattito su quale sia. Boban sulla "Gazzetta dello Sport" sostiene che la quarta forza è la Roma, se risolve il problema Cassano, il ragazzo della Bari Vecchia che ha sterminato Prandelli, Voeller e Del Neri. Il nuovo allenatore Spalletti è sveglio, ha la testa lucida, ma Cassano può ridurre alla disperazione anche caratteri più forti di lui. Quindi tanto vale eleggere come quarta forza la Fiorentina: lo facciamo unicamente come atto di adorazione verso il presidente Diego Della Valle ("Lo scarparo", secondo Anna Falchi), a patto che non costringa i giocatori a scendere in campo con le suole a pallini, e valorizzi adeguatamente il centravanti Luca Toni, nuovo sex-symbol secondo uno "special committee" comprendente Alessia Merz, Simona Ventura, Emilio Fede e Gianfranco Fini (che nell'ultima votazione si è astenuto). RETROCESSIONI Dolorosissima quella del Bologna, come ha detto Romano Prodi in una conversazione privata con Pier Ferdinando Casini, anche perché Giuseppe Gazzoni Frascara ha messo in svendita la società rossoblù, con il risultato che la Bologna cofferatiana, prodiana, casiniana "e quant'altro", come dice l'autorevole professor Panebianco nei suoi editoriali anticentristi, annasperà in serie B. Drammatica quella del Genoa, appena promosso in A e immediatamente retrocesso in C, con contorno di sommosse popolari tipo "Boia chi molla" che hanno suscitato le giuste osservazioni critiche del professor Ilvo Diamanti, secondo cui il problema italiano è che «tutti vogliono viaggiare in prima» anche se non hanno fatto il biglietto. Si unisce alla tesi anche il professor Luciano Ligabue, università di Correggio. SHEVCHENKO Avrà pure conquistato il pallone d'oro, ma adesso ci sono problemi. La presenza di Gilardino (vedi alla G) lo obbliga a partire da lontano, sulla fascia. La presenza del tatuatissimo Bobo Vieri lo costringe a farsi un tatuaggio hawaiiano, per non essere da meno e non sfigurare (su questo argomento l'attaccante ucraino ha chiesto consigli al Cavaliere, in una visita privata a Villa Certosa; Berlusconi lo ha consigliato di rinunciare ai tatuaggi ed eventualmente di mesciarsi). Comunque si capisce fin d'ora che l'attacco del Milan è una specie di Cortina nell'ora dello struscio, dove tutti dicono: fatti più in là. TELEVISIONE Dopo la straordinaria performance liberista e di mercato con l'offerta di cento euro della Rai, e con il milanista e federalista (nel senso della Federazione) Galliani che si comprava e si vendeva da sé, bisognerebbe sapere se qualcuno è finito in galera. Nessuno? Vabbè, aspettiamo. Aspettiamo Paolo Bonolis alle prese con il campionato. Noi statalisti risponderemo con Pupo, che ha già ritoccato il colore del toupet (dicono i maliziosi). Oppure chiederemo al direttore generale della Rai, l'incompatibile Meocci, di tatuarsi il simbolo dell'Udc sulla spalla. Quale spalla? Quella di centro. UDINESE Non ha più Pizarro (vedi alla P), ma ha ancora Iaquinta. Spalletti diceva che in potenza Iaquinta è il più forte centravanti del mondo, ma purtroppo è emotivo, sente le partite, si nevrotizza e grande e grosso com'è perde la parola e il tiro in porta. Speriamo nella maturazione. Poi, se il nuovo allenatore Serse Cosmi riesce a motivare la squadra, l'Udinese sarà la quarta forza (vedi alla lettera Q), perché ha un attacco tecnicissimo, con Di Michele e Di Natale (manca solo Di Pietro, ma i valori per l'Italia sono altissimi): con grave dispetto di Roma e Fiorentina. VIERI Finito, almeno per ora, il tormentone Canalis, che valeva quasi quanto la guerra dei Roses fra la Hunz e Ramazz, Bobo è dimagrito e appare in grande forma, una ventina di chili in meno di quando era all'Inter. Solo che come si è detto e ridetto, l'attacco milanista è affollatissimo. Soluzione: consigliare a Berlusconi di imporre alla vittima Ancelotti un attacco a sette punte. ZACCHERONI Ottimo allenatore, di?soccupato, di sinistra, detestato da Berlusconi perché giocava con sei punte ma votava per Fausto Bertinotti. Come Zeman, che fa del bel gioco con qualunque squadra abbia per le mani, compreso l'anno scorso a Lecce, gioca con sei punte, un centrocampista d'attacco e tre difensori con spiccate attitudini offensive. Magari prende sei gol: ma in fondo, che importanza ha?
L'Espresso, 08/09/2005
È gay il maschio perfetto
Dal 6 settembre La 7 manderà in onda una nuova edizione dei "Fantastici cinque", in cui la solita équipe di gay cercherà di ridurre alla normalità o pressappoco un vip o presunto tale. Intanto però, durante tutto il mese d'agosto sono andate in onda le repliche delle puntate precedenti, quelle in cui a essere oggetto delle attenzioni di coloro che qualche ministro particolarmente avanzato ha chiamato "culattoni" sono maschi qualunque, che accettano di essere manipolati gaiamente per sorprendere la morosa o la famiglia. Ora, può essere che a qualcuno i gay non piacciano. All'epoca del Gay Pride di Roma, un importante commentatore del "Corriere della Sera" definì i cortei come gruppi di "dervisci urlanti". Ultimamente, secondo le cronache, Giulio Andreotti ha riesumato il termine "invertiti". Negli ambienti clerico-machisti si è diffusa la leggenda che il mancato commissario europeo Rocco Buttiglione sia rimasto vittima di una cospirazione dei gay di portata continentale. I gay del programma messo in onda da La 7 sono un campione statistico limitato ma significativo. C'è il gay effeminato e mignottone, il gay virile e simpatico, il timido, l'esuberante, il mondano. Insomma, gente normale, attraente o repellente come il resto della popolazione. Hanno buon gioco perché i maschi eterosessuali presi come protagonisti del programma sono quasi sempre una catastrofe. Ciccioni, cadenti, pelosi, pelati, probabilmente sudati e puzzolenti, vestiti con tute e felpe di periferia, barbuti e con i punti neri, sono caricature perfette della "normalità" etero. Quindi risultano soggetti adeguatissimi per essere "trattati" dai gay, che li depilano, li pettinano, li truccano, gli rifanno l'appartamento e il guardaroba. Naturalmente, alla fine del programma il povero protagonista sembra un altro: quello che voleva fare il cantante assomiglia davvero a un cantante (e la famiglia si commuove alle prime note di "Perdere l'amore"), quell'altro che voleva chiedere alla fidanzata di sposarlo appare come un vero uomo convinto di sé, e lei gli dice di sì cadendo nella trappola gay con lo sguardo trasognato. Sicché viene da chiedersi perché i suddetti maschi eterosessuali non si trattino meglio anche senza l'intervento dei fantastici cinque: perché non si sbarbano, perché non si lavano, perché non usano il dentifricio? Molte sono le risposte possibili, ma l'unica giusta è di Billy Wilder: nessuno è perfetto.
L'Espresso, 08/09/2005
C’è voglia di Unione
Quando vedrà i dati del sondaggio che "L'espresso" pubblica in queste pagine, probabilmente Romano Prodi tirerà un piccolo sospiro di sollievo. Già, le primarie sono un'incognita assoluta. Per la politica italiana e per lui personalmente. Senza una forza politica alle spalle, privo di un vero apparato organizzativo proprio, supportato da uno staff volonteroso quanto privo di mezzi, Prodi è ancora reduce dalla brutta avventura, l'autentico "bad day" della lista unitaria, silurata dalla Margherita. Qualche cicatrice è rimasta. Di fronte al "niet" di Francesco Rutelli, il Professore aveva reagito male: «È un suicidio». Poi si era collocato su una linea di onesta resistenza, sostenuto dai suoi fautori e facendo affidamento sulla tenuta dei Ds. Infine, allorché il progetto era stato definitivamente affossato, aveva fatto di necessità virtù: «Un passo alla volta», aveva confidato ai suoi sostenitori: «La lista unitaria era un grande progetto di razionalizzazione del sistema politico, ma non si può continuare a combattere una partita che è già stata giocata». Il che significa: si gioca con le carte che ci sono, senza illusioni, cercando di fare di necessità virtù. Certo, il colpo era stato pesante. Uno degli analisti più attenti, e non sospettabile di antipatia per il centro-sinistra e l'Ulivo, aveva concluso su "la Repubblica" che Prodi era stato ridimensionato da leader effettivo dell'alleanza al ruolo di amministratore di condominio. Una specie di consulente arruolato come mediatore di una coalizione divisa. La scelta di scommettere ancora sulle primarie di coalizione era stata l'ultima chance, rivendicata con il puntiglio di chi ha visto svanire una proposta politica, per chiedere all'Unione una legittimazione della propria figura e del proprio ruolo. Senza nascondersi le difficoltà che avrebbe incontrato nella piccola ma ardua traversata del deserto fino al 16 ottobre, il Professore e il suo nucleo di amici e fautori si erano convinti infatti che a quel punto il voto popolare, dal basso, sarebbe stato l'antidoto al potere che i partiti avevano riconquistato. Almeno fino a quella data fatale, sarebbero passate in secondo piano tutte le diffidenze, le dietrologie, l'idea di possibili macchinazioni per cambiare cavallo (che nel chiacchiericcio politico romano hanno sempre occupato un certo spazio). E la competizione fra i candidati, autentica o rappresentativa, era comunque un modo per sottrarsi alle logiche della lottizzazione partitica (che ad esempio erano emerse sfacciatamente nella spartizione del cda della Rai). Ma ancora adesso nessuno ha ben chiaro quale sarà il risultato reale delle primarie. Si tratterà di vedere innanzitutto se i partiti dell'Unione avranno la capacità organizzativa per determinare un risultato significativo. Portare nei "seggi" un milione di cittadini-elettori potrebbe essere considerato un risultato appena sopra la modestia. Due milioni, una soglia di ottima qualità. Quindi nei prossimi 45 giorni ci vorrà una mobilitazione consistente. E occorrerà anche valutare come si svolgerà il confronto con gli altri candidati in lizza. A osservare i numeri del sondaggio Swg, il primo elemento di rassicurazione è il dato alto ma non stratosferico che ottiene Fausto Bertinotti, un 16 per cento sul totale dei simpatizzanti dell'Unione. «Bertinotti è un termometro importante del confronto nelle primarie», dice lo staff prodiano: questo perché per molti aspetti le "priorità" del capo di Rifondazione comunista rappresentano il lato "duro" dell'alleanza. «Fausto solleva problemi, come la tassazione della rendita. Poi toccherà a Romano trovare una sintesi che metta insieme l'attacco alle posizioni di privilegio con una politica di modernizzazione». L'altro aspetto da valutare è che il giorno delle primarie non voterà il "popolo dell'Unione", ma presumibilmente un segmento particolarmente politicizzato, consapevole della posta in gioco, probabilmente sensibilizzato e orientato dai partiti: e dunque le preferenze dei votanti potrebbero addensarsi in modo netto sul candidato Prodi. Il quale in ogni caso vede con misurato favore l'affollarsi di competitori: di qui alla primavera del 2006 il centro-sinistra dovrà fare uno sforzo importante per tenere alto il grado di coinvolgimento e di interesse degli elettori, in modo da non disperdere il vantaggio accumulato finora sulla Casa delle libertà: dunque la presenza nella campagna dei leader dei partiti minori sembra essere un valore aggiunto, in ogni caso la dimostrazione che le primarie non sono soltanto un esercizio che misura lo stato dei rapporti fra Ds e Margherita. Intanto, a mano a mano che passano i giorni il clima nel centro-sinistra sembra rasserenarsi. Con molti mal di pancia residui, la "questione morale" sollevata da Arturo Parisi è stata sterilizzata. Non senza danni, dal momento che in certe frange diessine aveva fatto breccia la domanda provocatoria lanciata da Emanuele Macaluso sul "Riformista": «A questo punto perché i Ds dovrebbero votare Prodi alle primarie?". La pace è una pace fredda, riscaldata semmai dai dati delle rilevazioni demoscopiche, che continuano a segnalare i quasi dieci punti virtuali di superiorità dell'Unione sulla Cdl. Sono dati matematicamente affidabili? Politicamente credibili? La maggior parte dei sondaggisti, pur facendo ampi gesti di scongiuro statistico, tende a considerare i numeri attuali come il risultato di un assestamento di lungo periodo, quindi difficilmente scalfibile. L'analista Parisi lo dice ormai da tempo: «Considero la possibilità della vittoria della Cdl un risultato residuale». Tuttavia il cammino di Prodi è ancora accidentato. Lo si è visto durante il mese di agosto, quando all'ex commissario europeo Mario Monti è bastato il combinato disposto di una frase in un editoriale sul "Corriere della Sera" e successivamente un'intervista alla "Stampa" per scatenare il dibattito sul fallimento del bipolarismo e la rinascita del Centro come entità capace di interpretare la cultura di mercato. Argomenti su cui Prodi è stato rapidissimo a intervenire, dato che tutta la sua esperienza politica diretta è segnata dalla scelta dello schema bipolare e che i fantasmi centristi sono sempre stati visti da lui come la minaccia più pericolosa per il suo futuro politico. Anche Giulio Santagata, uno degli uomini che gli sono più vicini, lo ha detto con chiarezza: «Qui si confonde il fallimento del bipolarismo con il fallimento della coalizione di centro-destra». E in effetti, a guardare i dati del sondaggio Swg, colpisce il fatto che Silvio Berlusconi, creatore e dominus della Casa delle libertà, appare particolamente basso, demoscopicamente parlando: se soltanto il 25 per cento degli elettori della Cdl si pronunciano a suo favore, nelle "primarie virtuali" del centro-destra, ciò significa che la carriera politica del premier attuale è a un punto di svolta. A margine del suo incontro russo con Vladimir Putin, Berlusconi si è prodotto in uno dei suoi show più plateali, garantendo che la sua ricandidatura alla guida del paese è un sacrificio «enorme, enorme, enorme», e che dunque non si ricandiderà per piacer suo ma per il bene della Cdl e del paese. Ma se anche gli elettori di centro-destra stanno mostrando il pollice verso, ciò vuol dire che il giudizio sull'esperienza politica di Berlusconi è ormai assestato. Non si spiegherebbe altrimenti il risultato ancora molto alto che ottiene nelle preferenze del campione Gianfranco Fini, un 39 per cento che sembra esprimere la radicalità di una valutazione: il vicepremier e ministro degli Esteri è reduce dall'esito catastrofico del referendum sulla fecondazione assistita, dal conflitto micidiale con i capicorrente del suo partito, dal gossip micidiale di piazza di Pietra, dall'etichetta sostanziale di inaffidabilità politica affibbiatogli dai suoi colonnelli, eppure sembra avere sostituito Berlusconi come oggetto simbolico e mediatico del centrodestra. Fini può sbagliare tempi, metodi, scelte, giocarsi il mondo cattolico senza acquistare una caratura laica, eppure agli occhi dell'elettorato della Cdl (ma anche dell'Unione) rappresenta ancora una leadership credibile, almeno finché si resta sul piano dei sondaggi. Dentro il centro-sinistra guardano con attenzione alle sue mosse: «In questo momento non rappresenta un'alternativa. Ma se in coincidenza con le primarie decidesse di dare uno scrollone pesante, ad esempio liquidando la devolution, Fini comincerebbe ad apparire un leader con tratti nuovi, non solo quelli di un postfascista particolarmente eclettico e abile nella dialettica». Nonostante le rassicurazioni e le rivendicazioni di Berlusconi, «basta con queste storie, il candidato sono io», i conti cominceranno a diventare più precisi e urgenti dopo le primarie dell'Unione. Una volta valutata con qualche certezza la posizione di Prodi, l'intero centro-destra comincerà una seduta di autocoscienza politica potenzialmente drammatica. Negli ultimi mesi, fino a qusti giorni, l'Udc ha tenuto una linea di notevole coerenza. Pier Ferdinando Casini ha aperto una fase di esternazioni sul tema della "discontinuità" nel centro-destra, e i dati del sondaggio lo premiano con un discreto 16 per cento come candidato alla leadership; Marco Follini non ha mai ceduto di un passo dalla sua impostazione: alla domanda irritata su "che cosa vuole Follini?", è facile rispondere che il leader dell'Udc vuole esattamente ciò che dice, ossia il varo di una fase politica nuova; la "spina nel fianco" Tabacci insiste a dire tutto il male possibile della suocera, il bipolarismo, perché nuora intenda (cioè Berlusconi si faccia più in là). È chiaro che in queste condizioni complessive sono possibili anche scenari catastrofici (nessuno può escludere a priori ipotesi disastrose come il "melt down" delle due coalizioni). Ma oggi agli occhi dei responsabili del centro-sinistra sembra più probabile un consolidarsi tendenziale dei due poli. L'incubo della fusione degli schieramenti sembra allontanarsi. Alle primarie di ottobre, candidati marginali politicamente come il manager Ivan Scalfarotto e Vittorio Sgarbi sembrano funzionali soprattutto a una spettacolarizzazione del confronto. Il confronto con Bertinotti potrà esplicarsi positivamente soprattutto nell'analisi critica della legge finanziaria. Prodi continua a ripetere che bisogna uscire una volta per tutte dalla sindrome del "facciamoci del male", in cui la sinistra vanta una specializzazione formidabile. Ma, per l'appunto, un sospiro, piccolo piccolo, lo si può tirare.
L'Espresso, 15/09/2005
Papa Luciani ha fatto un miracolo
Lunedì 5 settembre, in prima serata è andato in onda su Raitre, sotto l'etichetta "La grande storia", il documentario di Luigi Bizzarri "Giovanni Paolo I. Il papa del sorriso" (con la consulenza storica di Alberto Melloni). Si è trattato di un piccolo, ma non tanto piccolo, capolavoro, televisivo e non solo televisivo. Perché è facile ricostruire una vita quando i documenti abbondano. Ma come si fa a raccontare una storia per immagini quando le immagini non ci sono, o sono rarissime? Chi ha visto o rivisto il film di Bizzarri su papa Pacelli (riproposto di recente) avrà apprezzato l'equilibrio ideologico del programma, in cui il "silenzio" di Pio XII sulla Shoah veniva discusso con eccezionale competenza e finezza. Ma il documentario pacelliano aveva il pregio di una straordinaria documentazione filmata, per cui si capisce facilmente il buon successo di pubblico che ha ottenuto. Mentre raccontare la vita e la carriera di Albino Luciani rappresentava una "mission impossible", dal momento che il protagonista ha cercato per tutta la vita di proteggersi dalle apparizioni pubbliche. Bizzarri (e Melloni) sono riusciti nell'impresa. L'autore del programma ha perfino messo annunci a pagamento sui giornali veneti, per cercare di recuperare qualche filmato domestico. Nonostante la penuria di documenti visivi, la prima parte del film costituisce un esercizio stilistico e tecnico di rara bravura, in cui il commento gioca con le immagini d'archivio, offrendo un continuo contrappunto tra filmati, fotografie e testo. La sapienza storiografica di Melloni è riuscita a documentare alcune curiosità strepitose (ad esempio, il fatto che il padre del futuro papa abbia visto nascere e morire tre piccoli Albini, prima dell'Albino finale: indizio di una povertà disperata, di storie di immigrazione e fame, di malattie e privazioni tipiche di un mondo premoderno). Il documentario assume una cadenza serrata a partire dal conclave che elegge Luciani, e nelle sequenze del suo brevissimo pontificato. Con la capacità continuamente avvertibile di unire la riflessione storica e politica con l'intenzione divulgativa. Sfiorando il gossip "noir" (Marcinkus, lo Ior, gli avvertimenti di "Op", la rivista di Mino Pecorelli), ma attenendosi con scrupolo ai fatti. Una meraviglia. O la dimostrazione che se c'è da fare il famoso servizio pubblico lo si faccia: "quelli che il papa" può battere anche Bonolis.
L'Espresso, 15/09/2005
Fazio-Siniscalco finale di partita
È infantile considerare il caso Fazio come la storia già scritta dell'uomo solo che si chiude nel fortino e aspetta un prodigio che lo salvi. Alla fine, la vicenda del governatore della Banca d'Italia si è rivelata lo specchio del fallimento del governo di centrodestra, e più precisamente dell'incapacità del presidente del Consiglio di gestire decentemente qualsiasi crisi. Si scrive Fazio, ma in filigrana si legge Berlusconi. Di fronte a uno sbandamento istituzionale gravissimo, il capo del governo non è riuscito a prendere una posizione seria. Nel momento di maggiore tensione, dopo avere varato una mezza riforma su Bankitalia, Berlusconi è riuscito soltanto ad autoincensarsi, proclamando «san Silvio ha fatto il miracolo». Purtroppo non era vero. Di fronte a una sequenza di eventi tale da demolire la credibilità delle nostre istituzioni monetarie, il premier ha adottato la tattica pilatesca che è solito usare quando la tensione sale. Silenzi. Mezze frasi. Atteggiamenti indecifrabili. Aveva usato lo stesso metodo quattordici mesi fa, cioè nel momento in cui l'Udc e soprattutto Alleanza nazionale avevano portato l'affondo contro l'allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Per salvare se stesso, il proprio dicastero, il record di durata del governo, Berlusconi aveva lasciato cadere il pilastro della sua politica economica. Con rassegnazione cinica aveva consentito che Gianfranco Fini accusasse Tremonti di avere presentato conti truccati, e infine aveva permesso che «il nostro uomo migliore», il protagonista dei condoni, delle cartolarizzazioni, della finanza creativa venisse abbattuto. Proprio questa irresolutezza del Cavaliere, la sua indecisione di fronte alle lotte politiche che attraversano la Cdl, la sostanziale incapacità di comprendere le ragioni di fondo che ispirano le mosse conflittuali dei suoi alleati, sono gli atteggiamenti che si sono manifestati nuovamente nella crisi che ha investito il vertice della Banca d'Italia. Si è capito fin dal primo istante che Berlusconi era indifferente alle sorti di Fazio. La sua preoccupazione maggiore derivava dal fatto che il destino del governatore impattava pesantemente il centrodestra. È fatto così, Berlusconi: se la Lega sostiene Fazio, il governatore va sostenuto, o perlomeno tollerato. A dispetto degli altri alleati, di Giorgio La Malfa, di Fini, di Tabacci, a dispetto della ragionevolezza. Ciò che ha rotto l'equilibrio è stato il pronunciamento a Cernobbio di Domenico Siniscalco. Il successore di Tremonti sarà criticabile quanto si vuole, ma non è un provinciale. È una figura che ha sempre frequentato ambienti internazionali, è di casa a Davos, si trova perfettamente a suo agio nei vertici economici. Si è accorto rapidamente che le parzialità della Banca d'Italia nelle scalate bancarie stavano demolendo la credibilità del nostro paese. Siniscalco non è un politico: è un grand commis che ha lavorato con i governi di Giuliano Amato e di Carlo Azeglio Ciampi, e che ha fatto parte del comitato di consulenza del governo D'Alema; da professore di economia, si sente un componente della comunità intellettuale. Quando un collega prestigioso e ascoltatissimo come Francesco Giavazzi, sul "Corriere della Sera", lo ha definito «un accademico senza spina dorsale», il ministro "tecnico" ha capito che non c'erano più spazi per le dissimulazioni politiche, e quindi ha rivolto il suo pollice verso al governatore. La posizione di Siniscalco è più che scomoda. Basta registrare il sadismo soave con cui a Cernobbio Romano Prodi ha lasciato cadere: «Vedremo i conti che ci lascerà il nostro Domenico». Una frase che richiama Siniscalco alla sua serietà di studioso, ma che nello stesso tempo allude anche alla notoria simpatia del ministro per posizioni politiche, a sfondo riformista-ambientalista, che non sono certamente di destra. In sostanza: Siniscalco ha fatto benissimo a chiedere le dimissioni di Fazio, se è convinto che lo richiede l'affidabilità europea del nostro paese. A differenza di Giavazzi, chi scrive pensa che Siniscalco abbia carattere: e l'intuito sufficiente a capire che anche la sua uscita di scena potrebbe essere più seria di una permanenza accademicamente insignificante in un governo fallito. In sostanza prima della fine della legislatura e a caso Bankitalia chiuso, Siniscalco dovrà dimostrare se è conveniente per il paese insistere nella finzione dell'incarico tecnico o accettare tutte le responsabilità della politica.
L'Espresso, 22/09/2005
E dopo Matrix arrivano i vampiri
Il pensiero stupendo che nasce un poco strisciando è che come Renato Zangheri «mente sapendo di mentina» (secondo gli indiani metropolitani, 1977), Enrico il Matrix mente sapendo di Mentana. Ha fatto parlare il Belpaese intero di "metainformazione", di cazzeggio sublimato nella politica, di politica tradotta tanto direttamente nell'intrattenimento da rivelare che tutta la politica in televisione è entertainment. I critici hanno naturalmente ragione, perché Mentana è diabolico, e sa che a tarda serata è arduo mettere insieme un dibattito persuasivo. Ecco allora lo zoom su Michela, con l'ovvio effetto family, e alla fine il bacio alla suddetta, con l'effetto reality. Nel mezzo, Ricucci, Falchi, D'Alessio. Ma tutti coloro che hanno alzato il sopracciglio perché non ha chiesto a Giulio Tremonti come mai il Governatore, e neppure a Pier Luigi Bersani perché Consorte, sono gente che finge di ignorare due emergenze reali: primo, che in quell'ora così tarda, il sopracciglio non si alza, eventualmente si abbassa; secondo che essendo Mentana un uomo molto disincantato, ha già capito da un pezzo che non è vero, o è vero solo a metà, che l'informazione politica in tv sarebbe puro intrattenimento. L'altra metà del vero, è che la politica tout court è intrattenimento. Mentana lo sa, e ha avuto la faccia tosta di mostrarlo a tutti. Ma ci siamo dimenticati che il sottile professor Amato si esibì da Vespa in un paio di palleggi a tennis, con il suo rovescio sghimbescio (un backspin premoderno, da pongista sopravvissuto all'evoluzione tecnica)? Vogliamo ricordare ancora una volta il risotto di Massimo D'Alema? Mentana ha capito che la politica, esattamente come la televisione, è fatta da personaggi che interpretano se stessi, e molti la propria parodia. Se volete l'Antipatico bleso, eccolo servito. Se occorre l'Emiliano competente, voilà. Necessitano, signori, leghisti incazzosi? Centristi diplomatici? Ex fascisti con diploma serale di liberaldemocrazia? Post-interventisti diventati neoliberisti? Mentana li ha tutti. Non è colpa sua se il losco connubio fra politica e tv ha prodotto questi ibridi. Poi, con il tempo, Mentana distinguerà quando serve la commedia dell'arte e quando l'arte della politica. (Il problema, comunque, è che anche "Matrix" finisce all'ora dei vampiri: e a quell'ora si diventa tolleranti anche con i peggiori imam, con i politici più ridicoli, con tutti: e buonanotte).
L'Espresso, 23/09/2005
Vespa c’è ma non si vede
Il popolo e gli opinion leader fanno tavole rotonde e discutono animatamente sul perché Bruno Vespa faccia più ascolti di Enrico Mentana. Potrebbe essere una questione di rodaggio. No, "Matrix" le prenderà sempre, da "Porta a Porta". Il fatto è che il programma di Vespa è un prodotto praticamente perfetto, mentre quello di Mentana è ancora in via di aggiustamento. Già, a "Porta a Porta" si respira un'aria conosciuta, sembra di stare in famiglia. Mentre a "Matrix" le cose appaiono ancora vagamente provvisorie: gli arredi, il publico. Anche gli argomenti. Perfino gli ospiti, a volte. Ma no, la verità è che Vespa è diventato "Porta a Porta", si è identificato con la trasmissione, è un pezzo dell'arredamento. Mentre Mentana è ancora Mentana. Fisicamente Vespa si insinua fra gli ospiti, si curva, parla poco, solo di rado diventa decisionista, intima, chiede dati alla redazione; quasi sempre si rannicchia e sta quatto, aspetta che passi la buriana, che spiova, che finisca il temporale. Invece Mentana è il protagonista, e si vede che è convinto di esserlo: si staglia, si erge. Vespa non si preoccupa se "Porta a Porta" risulta lento. Sono trasmissioni notturne, ai confini del regno di Morfeo: chi se ne frega se ci si addormenta su un discorso ovvio di Gianfranco Fini, per dire. Mentana invece è atterrito dal rischio della palpebra calante, ossessionato dal ritmo. Quindi interviene, interviene e parla, parla. Probabilmente il "Porta a Porta" perfetto, secondo Vespa, è una puntata in cui Vespa non parla, e tutto fluisce senza bisogno di interventi vespistici: anzi, lui Vespa potrebbe andarsene in bagno o a fumare una sigaretta e tornare senza pregiudicare l'andamento lento. Tutto il contrario Mentana, che ha bisogno di vedersi, sentirsi, ascoltarsi. A volte sembra più preoccupato di lanciare una battuta che non di far funzionare il programma. Per Mentana dev'essere la sindrome dell'assenza dal tg. La lontananza dal video gli detta la voglia di apparire e di esserci, continuamente, con urgenza. Mentre Vespa, eh, Vespa!, la sa lunga: sa, ad esempio, che "Porta a Porta" esisterà oggi e domani, che non deve considerare l'ultimo share come un verdetto, che la vita insomma continua, e anche la tv. E che in ogni caso per ogni porta che si chiude ce n'è un'altra che si apre. Quanto a Mentana, dovrebbe solo diventare meno Mentana. Sempre ammesso che glielo concedano i suoi cromosomi.
L'Espresso, 06/10/2005
Quella coppia di barbe finte
Il ritorno di "Otto e mezzo" sarebbe la dimostrazione che un'altra tv è possibile? Andiamoci con molta calma. Può essere che Gad Lerner sia convinto di fare informazione di classe, e lo si vede dal modo in cui parla, dalla lentezza precisa con cui articola i concetti, puntiglioso nell'indicazione delle fonti e delle notizie. Ma Giuliano Ferrara è di un'altra razza. Nonostante la fede dei suoi adoratori, l'Elefantino è un messia dell'infotainment. Lo ha detto spesso sulle pagine del "Foglio", nella sua rubrica di posta celebre: «Questo giornale è fatto per un terzo di goliardia». Quindi, che parli delle coppie di fatto, della "Grosse Koalition" in Germania, o delle dimissioni di Domenico Siniscalco, Ferrara non transige dal suo schema. Intrattenimento. Politica. Informazione. Cazzeggio. Sornionerie. Capziosità. Sullo sfondo, intanto, annaspano gli accademici. Gli specialisti. Le persone serie. E in studio si svolge il duello permanente ed effettivo fra "Gad" e "Giuliano". Fra il cultore del dubbio e l'assertore delle certezze. Fra il magro e il grasso, tra El Flaco e El Gordo. Ci guardiamo bene dal citare Stan Laurel e Oliver Hardy perché insomma, ma ci siamo capiti. Comiche. Politica slapstick. Mancano le torte in faccia, ma si provvederà. Eppure è probabilmente l'unica televisione intelligente, in attesa dell'"Infedele". Sempre sul confine fra lo sbracamento e l'allure accademica. Giornalisticamente puntuale. Vabbé, basta così, troppi complimenti. Per equilibrare le cose, diciamo che Ferrara è un grandissimo rovesciatore di frittate, uno che ha eletto a proprio feticcio Silvio Berlusconi proprio per poter parlare di lui sparlandone. "Giuliano" è un capopopolo, colui che si buttò a capofitto nella battaglia del Mugello contro Antonio Di Pietro, così come si è buttato sull'embrione e sta buttandosi sulle coppie di fatto. Mentre Gad Lerner è Aramis, il moschettiere sofisticato, che duella con un grande armeggiare di tecniche. Qualche stagione fa, l'Elefante schiacciò il moschettiere, con la forza della sua improntitudine. Adesso Lerner ha recuperato sicurezza, si è messo alla pari, insieme faranno un ottimo lavoro: tutto relativo e relativista, visto da destra e da sinistra. P. S. Questa rubrica è stata scritta con lo scopo di evitare di parlare della barba di "Gad". Visto che il risultato è stato conseguito, adesso lo possiamo dire: ammazza che roba, la barba di Lerner.
L'Espresso, 07/10/2005
Quel Toro sembra un vitello
Il successo della fiction di Raiuno "Il grande Torino" (oltre nove milioni di spettatori) è stato funestato da un ukase del ministro Mario Landolfi, che si è scagliato contro la mini-serie di Claudio Bonivento (e anche contro il Montalbano pro-noglobal): per l'esponente di An, i film di Raiuno «trasudano comunismo». Si potevano rivolgere molte critiche al "Grande Torino": ci sono troppi violini in colonna sonora, i meridionali sono troppo meridionali, certi giri di sceneggiatura sono troppo bruschi, e soprattutto il grande Torino non si vede mai. Difatti, quando toccano il pallone, i caratteristi un po' in età che impersonano i giocatori della squadra granata rivelano chiaramente la loro desuetudine agonistica, e quindi la regia glissa (anche se Giuseppe Fiorello, che interpreta Valentino Mazzola, fisicamente se la cavicchia). Ma per parlare di comunismo ci vuole proprio della buona volontà. L'unico paracomunista del film è il fratello del protagonista, che si dà alla politica ma poi inclina al furto, forse per lo choc quarantottesco. Il messaggio sarebbe che i comunisti sono ladri? Valentino Mazzola è tutto squadra e cuore, nonostante il "coming out" nello spogliatoio sulla propria bigamia. Il giovane calciatore Angelo Di Girolamo (Ciro Esposito da giovane e Michele Placido da vecchio), su cui ruota tutto il lungo flashback del film, è un personaggio deamicisiano: ma se lui è Garrone, il fratello è ovviamente Franti, sovversivo ante litteram (come scrisse Umberto Eco). Ci vuole in ogni caso una seria quanto anacronistica inclinazione allo zdanovismo per concepire la fiction contemporanea come prodotto o riflesso obbligato di un'egemonia. La fiction deve rispecchiare il clima politico dominante! Guai ai vinti! Ma allora quando cambierà il vento torneremo all'epica proletaria? Chissà se il ministro Landolfi si è accorto di essere il vessillifero di una visione sovietica. Per lo spettatore comune, "Il grande Torino" era debole sul piano dell'emozione: anziché un epos calcistico, con la saga dei Castigliano, Loik, Gabetto, inscenava un epicedio lacrimoso. Tanta società povera, molti buoni sentimenti, ma pochi palloni nel sacco. Buona la ricostruzione d'epoca, ottima, quando si riusciva a vederla, la «sfera di cuoio» con la cucitura. Sarebbe stato un film ad alto tasso di commozione, se alla fine la trama non avesse prevaricato sul mito. E Landolfi sulla trama.
L'Espresso, 07/10/2005
Entra in pista la safety reform
Dicono gli esperti che nel circuito automobilistico americano, nelle prove tipo Indianapolis, è malvista la possibilità che una monoposto vada in testa e ci rimanga per tutta la corsa fino alla bandiera a scacchi. Al gusto americano per la competizione non va giù che il divertimento finisca già nei primi giri, che non si vedano sorpassi, colpi di scena, alternanza al comando. E allora, quando si profila una situazione di egemonia, al minimo appiglio (una goccia di pioggia, un piccolo incidente, una modesta perdita d'olio sull'asfalto) si manda in pista la "safety car": la velocità viene ridotta, le vetture si raggruppano, in pratica la gara ricomincia da capo. A giudicare da quanto sta succedendo nella nostra politica, sembra che la Casa delle libertà abbia capito la lezione, e si appresti a varare una specie di "safety reform": questo è, non altro è, la legge elettorale proporzionale, su cui il centrodestra ha deciso di impegnare le sue forze parlamentari. Spaventato dalla possibilità di una sconfitta pesante, cioè di un giudizio negativo degli elettori sulla sua prova al governo, Silvio Berlusconi ha deciso di mischiare le carte. Ciò che colpisce tuttavia non è la spregiudicatezza di un leader politico e di un'alleanza letteralmente pronti a tutto pur di evitare o almeno ridurre una sconfitta elettorale. Ci sono innanzitutto due aspetti da mettere in rilievo, che rendono l'iniziativa di riforma elettorale una rottura grave delle convenzioni politiche che reggono una democrazia non indecente. Il primo aspetto è che il sistema proporzionale è stato liquidato dodici anni fa, in seguito a due referendum popolari, in cui l'opinione pubblica si pronunciò massicciamente per un rovesciamento del metodo elettorale su cui era fondata la "Repubblica dei partiti". Il secondo dovrebbe essere un'ovvietà: le leggi che regolano il sistema politico e la formazione del consenso si possono cambiare, ma solo se esiste un ampio accordo tra le forze politiche. Ora, è vero che ci stiamo abituando a tutto, ma è o non è sorprendente che la maggioranza di governo cerchi di modificare la struttura stessa della competizione politica attraverso un'iniziativa di parte? La verità è che la società italiana è mitridatizzata: anche una profonda riforma costituzionale, incardinata sulla devolution, verrà approvata in modo partigiano, con il solo voto delle forze di centrodestra. Nessuno stupore quindi, nonostante le proteste di Marco Follini, che si proceda in modo analogo sulla legge elettorale. Sul "Corriere della Sera" del 3 ottobre, un commentatore equilibrato come Massimo Franco ha scritto che il centrosinistra ha capito che «il vero obiettivo del ritorno al proporzionale non è la rivincita della Cdl. Semmai il tentativo di azzoppare una vittoria dell'Ulivo, esponendo un futuro governo Prodi al ricatto dei partitini». Il che significa che lo scopo principale del centrodestra, oggi come oggi, consiste nell'avvelenare i pozzi: «impedire che il centrosinistra riesca a governare». È piuttosto mortificante che una manovra simile provenga da chi non troppe stagioni fa ha sostenuto la «religione del maggioritario»; e risultano rivelatrici le ragioni che vengono invocate a favore del ritorno alla formula proporzionale. Non ce n'è una che si riferisca all'interesse del paese; si citano soltanto ragioni che riguardano il funzionamento di coalizioni e partiti. Autoreferenzialità pura. Fra gli effetti secondari di un eventuale ritorno al proporzionale, oltretutto con un sistema di liste bloccate (tutto il potere alle centrali di partito), ci sarebbe anche la conseguenza bizzarra che il candidato dell'Unione, Romano Prodi, non avrebbe un partito con cui candidarsi. Siamo evidentemente nelle ipotesi sulle ipotesi. Ma tutto questo rimescolamento possibile, ed esecrabile, non dovrebbe far dimenticare che alcuni colpi al sistema maggioritario, e alla logica sottostante, sono stati inferti anche da chi non ha voluto la presenza della lista unitaria dell'Ulivo nella quota proporzionale. Ragion per cui non è detto che le proteste del centrosinistra risultino tutte convincenti: ed è anche per questo che l'eventualità di un colpo di mano sulla legge elettorale lascia l'opinione pubblica sostanzialmente indifferente. In questa condizione di inerzia, di derive possibili, conviene prepararsi bene a tutte le possibilità: compreso il trucco della "safety reform".
L'Espresso, 14/10/2005
Gnocchi a colazione
Il Tg2 ha alle spalle una carriera di infotainment, che ebbe il culmine o conobbe l'acme sotto la direzione di Clement J. Mimun. Il suo successore Mauro Mazza è più politico, ma anche più giornalista rispetto a molti laudatores attuali. In quanto cronista proveniente dalla destra estrema, non dovrebbe sapere nulla di intrattenimento. E invece il Tg2 si lancia in iniziative originali. L'estate scorsa "Mistrà", il magazine di Michele Bovi che alle 13.30 presentava reliquie d'archivio (e le "poesie" di Pasquale Panella, l'autore di Lucio Battisti, il traduttore delle opere di Riccardo Cocciante, che lanciavano i servizi di costume: mai visto, in televisione, un poeta che realizza poemetti "di servizio", con il trasferimento dell'attualità nella metafisica). Adesso al Tg2 Mazza & co. se ne sono inventata un'altra, cioè la rubrica "Tg Duel", un controtelegiornale di due minuti affidato a Gene Gnocchi. Notizie scartate dal tg ufficiale recuperate dal cestino della carta straccia. Qualche notizia vera? «Verosimile», risponde Gnocchi. Vabbé, ammettiamolo: c'è spirito di iniziativa, in un giornalista come Mazza, provenienza "Secolo d'Italia", nel dare credito a un uomo, uno scrittore, un comico di sinistra come Gene. Il quale dà il suo meglio allorché riesce a mischiare il sacro e il profano, il crudo e il cotto, l'alto e il basso, come nella sua rubrica "culturale" sull'inserto domenicale del "Sole 24 Ore": mentre per i palati fini risulta "cheap" la partecipazione a "Quelli che il calcio". Gnocchi è un personaggio articolato: colto, informato, curioso di calcio e rock'n'roll, attento alla fenomenologia culturale, capace di fare satira su libri e premi letterari, insomma, non è solo l'autore immortale del "cul de Sac", come in franco-padano si chiama il vicolo cieco tattico in cui ci ha cacciati nel 1994 la fortuna di Arrigo. Quando è al meglio, dietro quel volto serissimo, Gene incenerisce velleità politiche e demenze letterarie, trombonismi culturali e loffiaggini pubbliche. Divertente, allora, "Tg Duel"? Intanto, chapeau, dato che deve battersi a mani nude contro il finale di Pupo e "Striscia la notizia". Prime puntate un po' ingessate; poi, grazie al cielo, Gene "entra" e fa gol. Bisognerebbe soltanto non lasciarlo solo davanti alla telecamera, mettergli accanto qualcosa o qualcuno, sviluppare l'idea. Ma intanto, è un'ideuzza gradevole.
L'Espresso, 14/10/2005
Celentano gira a sinistra
Se dopo 37 anni Paolo Conte gli ha scritto un'altra canzone, vuol dire che i tempi sono maturi. Maturi per che cosa? Uhè ragazzi, sveglia, ma per il cambiamento d'epoca. Per la svolta. La virata. L'inversione a U. Eh sì, il pezzo del vecchio astigiano, l'avvocato Conte, si intitola "L'Indiano". Secondo le spiegazioni dell'autore dovrebbe essere un ritratto di come Adriano Celentano è veramente, di come parla, di come si muove. L'essenza celentanesca di nuovo distillata dopo l'immortalità di "Azzurro", certificata da innumerevoli gite scolastiche e falò di classi miste sulla spiaggia. Conta niente se l'indiano in questione sarà dell'India asiatica, una specie di Peter Sellers in "Hollywood Party", generatore di disastri, oppure un Cavallo Pazzo americano che sfida le praterie, i cieli e l'Uomo bianco. Il 20 ottobre torna Celentano, il Re degli ignoranti, Geppo il Folle, il teorico dello Yuppi Du, l'interprete del Prisencolinensinainciusol (òl ràit!), quello che disse e scrisse «il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai». Adesso il titolo del programma è "Rockpolitik", e dovrebbe trattarsi di una storia degli ultimi cinque decenni attraverso la musica. Ma se Adriano deve svoltare, intanto avrà deciso che la svolta dev'essere rumorosa, strepitante, tremendista, e susciterà un casino pazzesco. Così parlò l'Indiano. Per la verità l'Indiano lo ha sempre fatto, più che dirlo o cantarlo. Ha fatto l'Indiano ogni volta che temeva di restare ingabbiato. Qualcuno dovrebbe ricordarlo, il secondo disco della trilogia firmata da Mogol e Gianni Bella, con una canzone (im)politica costruitagli addosso da Ivano Fossati: «Io sono un uomo libero, né destra né sinistra». Era l'ennesima terza via dell'imperatore Adriano. Primo comandamento, svicolare. Il rock quando c'era il beat. L'ecologia ante litteram quando si costruivano case popolari e il ragazzo della via Gluck era angosciato da «catrame e cemento». Le prediche contro gli scioperi, «chi non lavora non fa l'amore», ai tempi dell'autunno caldo. I tempi in cui Eugenio Scalfari lo infilza, alla fine del suo catastrofico e clamoroso "Fantastico" di fine anni Ottanta: «Celentano evoca l'istinto e l'indistinto», profetizzando che qualcun altro avrebbe raccolto la sua "lezione", come la chiamava un appassionato del trash, Giuliano Ferrara. Il testimone lo impugnò ovviamente Silvio Berlusconi, e subito se ne accorse l'Avvocato, in certe telefonate mattutine, quando le inibizioni non raggiungono ancora il livello convenzionale: «Luca, ma lo sai che Berlusconi mi sembra Celentano?». D'altronde, com'era possibile sfuggire al paragone? Entrambi di modesta statura, fisicamente s'intende, tutt'e due pelati, anche se Adriano non ha fatto il trapianto: carismatici di periferia, machos di quartiere, grandi narratori di storie meneghine fra bulli e pupe, attentissimi ai gusti del pubblico e dell'audience, perché entrambi convinti che «il popolo non sbaglia mai». Ai posteri, o ai poster, o ai cartelloni sei per tre, la sentenza su quale rapporto c'è fra i pantaloni bicolori del Clan e i doppipetti di Caraceni. C'era anzi il rischio che l'estremista paleodemocristiano, l'ex Molleggiato ("ex" perché, nel molleggiarsi, l'ultima volta si schiantò in diretta tv una caviglia) si sentisse oscurato dal successo rockpolitico del suo concittadino Berlusca. L'avrà invidiato, perché il Cavaliere, che anche lui ha di sicuro un cavallo bianco che suda pochissimo, possiede quell'abilità diabolica nel raccontare le barzellette, «a Tigellì, questi nun so' cristiani, questi so' democristiani», mentre lui ha quelle sue amnesie, le sue pause, le sue derive di significato, e le sue storie diventano così divagazioni infinite, perdite del filo, smarrimento del senso. Ed è anche possibile che da Berlusconi si sia sentito oscurato: il sospetto è plausibile. Sono quasi coetanei, Celentano ha solo un paio d'anni meno del sessantanovenne capo del governo. Quello lì gli ha rubato la scena, qualche volta anche con le canzoni. Per rifarsi, Adriano si lanciava in dibattiti più grandi di lui, come quello con il fratello grasso Giulianone, sulla donazione degli organi, attirandosi scomuniche dalla comunità dei chirurghi; mentre il Cavaliere cavalcava allegramente la popolarità immensa di chi sa promettere miracoli, e faceva la politica estera, con le pacche sulle spalle a George e a Vladimir, esattamente come l'avrebbe fatta Adriano. Sicché, chissà che gusto sopraffino all'idea di disarcionarlo dal cavallo, bianco o nero non importa. L'Indiano si apposta dietro una collina, o dietro lo skyline di New York che fa da fondale a "Rockpolitik", e aspetta con pazienza da irochese, o da seminole, da sioux, da apache. Al momento buono, mentre spira aria da cambio di regime, il pellerossa convoca una tribù di indiani cattivi: l'anarco-situazionista Carlo Freccero, il benignista Vincenzo Cerami, l'ospite di Alcatraz Jack Folla alias Diego Cugia. Quindi annuncia che nel giro di alcune lune chiamerà tutta la sinistra moderata, estrema, buddista, tantrica ed eccentrica, dal perfidissimo Subcomandante Marcos al disgustoso mangiatore di cacca Daniele Luttazzi e all'infame zapaterista Sabina Guzzanti, con invito esteso al pessimo consigliere comunale diessino Luciano Ligabue. Si sa, lui è un sismografo. Registra i terremoti e si adegua. Adesso i segnali bradisismici dicono che si prepara uno smottamento formidabile da destra a sinistra: l'anima di Celentano gode con un sentimento squisito: una rivoluzione! finalmente! Ha le carte in regola: è sempre stato in un clan di centrodestrasinistra. L'Unione è un nome che poteva stare nel "Mondo in mi settima". Via ai segnali di fumo. E l'uomo libero, né destra né sinistra? Intanto, i filologi osserveranno che Fossati, grande e sofisticato autore, gli ha infilato nella strofa successiva un verso ideologicamente suicida: «Ci sono cantanti a cui non si può credere». Ma non importa: nessuno "crede" in Adriano. Nemmeno lui crede all'Indiano che è in lui. Perché Celentano a tutto può resistere, fuorché alle obiezioni. Perché lui non capisce, percepisce. Lui non sa, sente. Lui non guarda, vede. E se l'Indiano scorge all'orizzonte la fuga della destra, che altro può fare se non salutarli, sgolandosi, «ciao ragazzi, ciao»?