L’Espresso
L'Espresso, 27/10/2005
Tremonti nel microonde
Corrado Guzzanti è il comico più materiale. Corrado Guzzanti è il comico più intellettuale. L'antinomia è solo apparente, perché i personaggi reinventati da Guzzanti sono innanzitutto interpretazioni fisiche; ma poi sono anche elaborazioni culturali, proiezioni stralunate di una personalità, doppi sovversivi per quanto sono rivelatori. L'ultimo eroe politico ridotto dolosamente a freak è stato il fenomenale Giulio Tremonti rifatto in "Parla con me", programma di Serena Dandini su Raitre (la domenica in seconda serata). La microonde di Guzzanti aveva già rosolato il Romano Prodi che accarezza la mortadella e dice "fermo, un semaforo, io sono morto nel 1977". Il Fausto Bertinotti che si ingarbuglia in cifre demenziali, sghignazzando per la soddisfazione. Il Francesco Rutelli che recita il programma di governo con l'accento di Alberto Sordi (oppure compone al pianoforte l'inno dell'Ulivo, ricavandone per slittamenti progressivi una cover di "E forza Italia, per essere liberi"). Ma il Tremonti stressato da Guzzanti è forse qualcosa in più. Non tanto per l'imitazione lessicale, dato che l'erre labiale del ministro dell'Economia poteva essere più accurata: piuttosto per avere colto l'aria insieme scientifica e stralunata di Tremonti, individuando le sue teorie geoeconomiche e commerciali per trasportarle in una regione surreale. La battuta antigovernativa: "Non abbiamo aumentato le tasse. Abbiamo raso al suolo il paese ma non abbiamo aumentato le tasse" è militante ma prevedibile; mentre la risposta alla domanda della Dandini sul cuneo fiscale ("Significa che le tasse le pagheranno solo quelli di Cuneo") è una bizzarria geniale, uno scarto che lancia il ministro nell'orbita delle sue dottrine esoteriche, nell'ultradimensione della "lex mercatoria". Siamo a un passo dalla più grande invenzione di Guzzanti, l'Antonello Venditti che canta "Tutto Roma" martellando i tasti del pianoforte ("e se avremo una bambina poi la chiameremo: Ròòòma"). Manca proprio un niente. Peccato che Guzzanti cada nel popolaresco, quando fa inciampare catastroficamente Tremonti nell'impronunciabilità delle "cartolarizzazioni". Nel progetto comico dell'infame Corrado, Tremonti, con i suoi "ma dai" e "porca puttana" è l'ideologia vivente del commercialista lanciato nella globalizzazione, o nell'iperspazio. Meglio non volgarizzarlo, dato che non si è visto niente di meglio, ultimamente.
L'Espresso, 27/10/2005
Un visionario fra le lucciole
Perché di tanto in tanto la destra riscopre un simbolo della sinistra? E per quale ragione Pier Paolo Pasolini risulta ancora, a trent'anni dalla sua morte disperata ed estrema, un segno di contraddizione? Una delle risposte eventuali, fra le tante possibili, è che il regista, lo scrittore, il polemista, l'uomo pubblico Pasolini era soprattutto e sempre un intellettuale. Ossia un produttore di significati a getto continuo, disposto a fare lavoro culturale a tempo pieno, in ogni momento, su ogni argomento. Anche quando dava un calcio al pallone, simile a un discobolo classico, bellissimo in quel gesto tecnico fermato da un'istantanea. Ed è chiaro che soprattutto nei primi anni Settanta l'intellettuale Pasolini reagiva con la propria intera personalità alle rotture, ai contrasti, alle sfasature provocate dalla modernizzazione italiana. Proprio il gettarsi in ogni discussione, nel realizzare di continuo una testimonianza vivente sui fatti, "sul campo", dava consistenza alla contraddizione pasoliniana. Contraddizione che veniva da un'idea di per sé arcaica della società nazionale, come se esistesse anche allora una ingenuità felice, un sentimento incorrotto della natura, investito dall'industrializzazione e da essa travolto: l'addio alle lucciole era l'epicedio per l'Italia rurale, per la campagna, per il "paese", mentre le periferie si dilatavano in seguito ai programmi urbanistici dell'edilizia popolare, avviati negli anni Cinquanta da Amintore Fanfani, e nel frattempo il centrosinistra "storico" aveva perso le occasioni offerte dal neocapitalismo, ovvero la chance di inserire le masse popolari e operaie in un circuito di consumo evoluto. Nello stesso tempo, Pasolini era progressista in politica, in quanto si sentiva, ed era considerato, "di sinistra". Anche se questo progressismo si alimentava più che altro della denuncia: l'intellettuale "marxista", ma anche l'intellettuale a suo modo cattolico, esponeva la classe politica di governo, il Palazzo, a un processo in cui la sentenza era già redatta. Sfuggiva, all'intellettuale, ciò che Aldo Moro avrebbe rilevato all'epoca dello scandalo Lockheed. La Dc non si farà processare nelle piazze, protestava Moro, e aggiungeva una glossa ineccepibile: i processi, in democrazia, si fanno con il voto. Pasolini invece agita simboli, e i simboli sono ambigui. Quando sta dalla parte del poliziotto, critica il sessantottismo in chiave estetica. Se denuncia l'orrore dei capelli lunghi, e decanta la nuca orgogliosamente glabra del proletario, ha in mente un'iconografia. Se devia rispetto al senso comune quando parla dell'aborto, si riferisce a una sessualità mitologizzata. E il mito, ossia un'immagine eterna, lo investe e lo ossessiona. La sua antropologia è atemporale, svincolata dal suo marxismo. Il mito è Medea, ma anche Canterbury; è il Vangelo di Matteo ma anche la felicità mondana di Boccaccio o della cultura araba; e alla fine la tragedia di senso e del corpo di Salò/Sade trascende la politica per situarsi in un mondo a parte e tragicamente estetizzante. La poesia civile delle "Ceneri di Gramsci" è forse una prova di mimetismo intellettuale non diversa dalle esplorazioni psicoanalitiche e messianiche di "Teorema". E anche la grandezza drammatica della visione pasoliniana consiste probabilmente in un fraintendimento, o in un equivoco: per la semplice ragione che con il mito, la natura, le icone dell'immaginazione, le strutture profonde del freudismo e i paradigmi della linguistica, si coglie forse la perdita di un senso, ma non si riesce a descrivere empiricamente il processo sociale che investe l'Italia dei Sessanta e Settanta. Ricondurre i sintomi della modernizzazione a una struttura eterna è una manovra intellettuale di suggestione formidabile, ma ingestibile politicamente proprio in quanto è il frutto di una visione soggettiva. La potenza visionaria di Pasolini equivale alla sua miopia nell'osservare i fenomeni della realtà effettuale. Proiettare in una dimensione mitica la politica italiana significava anche rinunciare ad agire politicamente. Scrivere lettere luterane, pubblicare scritti corsari, agire dal margine. Ma Pasolini non era Foucault, e pazienza; ma l'imminenza di una rivoluzione impossibile portava a ignorare le riforme di cui l'Italia aveva un tragico bisogno.
L'Espresso, 27/10/2005
Tsunami Romano
È la storia, bellezze. L'onda anomala di 4 milioni e 300 mila volonterosi che fa piazza pulita dei cincischiatori, dei prudentini, dei sostenitori mascherati del proporzionale, dei fautori della defezione in nome dell'interesse comune. Con la ciliegina di 7 mila votanti che hanno impegnato una domenica, hanno fatto la fila, versato un euro per poi depositare nell'urna una scheda bianca, fenomenale esempio di adesione allo schieramento e di scetticismo per le scelte. Per questo il leader dimezzato, il candidato senza partito, l'amministratore del condominio (copyright Ilvo Diamanti), insomma il professor Romano Prodi, adesso può contemplare con soddisfazione il panorama tutto inedito che si è formato dopo lo tsunami politico di domenica 16 ottobre. Intere strategie sono finite nel retrobottega, roba vecchia. Sarà che il popolo dell'Unione ha continuato a ragionare con il modulo maggioritario anche nella prospettiva della proporzionale, dopo il colpo di mano della maggioranza di centro-destra: «E si sa che il popolo è un'entità ostinata», dice Arturo Parisi, massimo guru delle primarie, piccolo grande cerimoniere del riassemblaggio politico nel centro-sinistra. Difatti è bastata una sola domenica di sole, un'ottobrata mite e famigliare, per spalancare di nuovo il sole sui destini dell'Ulivo. Con risultati impressionanti. Perché l'onda anomala, la cui cresta era stata percepita nei giorni precedenti ma non rivelata dai sondaggisti nel timore di sbagliare grossolanamente le previsioni, ha spazzato via una serie amplissima di illusionismi. Non erano inutili, le primarie? Non servivano soltanto come rito per incoronare un candidato già scelto, e magari accettato a malincuore? Non c'erano i rischi di inquinamento pro-bertinottiano o pro-mastelliano da parte della destra più fantasiosa? E in fondo: ma visto che la voce grossa contro il ritorno alla legge proporzionale non era servita a niente, e il centro-destra si era ricompattato, e l'intellettuale Marco Follini aveva dovuto cedere il campo ai suoi soci più sbrigativi, non si era capito che l'esimio professor Prodi, il tecnocrate europeo, l'uomo senza partito, non serviva più a niente, se non come bandierina sfilacciata, più un consulente di governo che un protagonista della lotta politica? E invece, invece. La prima conseguenza era che l'orologio politico del centro-sinistra si rimetteva a zero. Archiviato il durissimo confronto apertosi con l'iniziativa di Francesco Rutelli, che si era concluso con l'abbandono della lista unitaria, e che ai prodiani più radicali aveva fatto pensare a un'eccessiva arrendevolezza di Prodi. Derubricati tutti i progetti neocentristi, cioè gli esercizi politicanti di questi ultimi mesi: eppure agli occhi dei più sospettosi il nuovo sistema proporzionale era stato costruito proprio per rendere possibile il raggruppamento al centro. In un sistema che assegna il premio di maggioranza alla coalizione maggiore, si può benissimo programmare un raggruppamento centrista. Ne aveva parlato a caldo Giuliano Amato, individuando i rischi di un sistema tripolare, con un Centro in grado di praticare la vecchia e funzionalissima politica dei due forni: funzionalissima ai fini della eternità dell'occupazione del potere, e di alternanze gestite eventualmente per via oligarchica. Ma si intravedeva addirittura la possibilità di un polo centrista autonomo, capace di tagliare le ali e di governare da solo per sempre, naturalmente dopo avere fatto saltare il confine bipolare. Una prospettiva entusiasmante per tutti coloro che con la denuncia delle insufficienze del sistema maggioritario intendevano favorire il grande rimescolamento. Tutto finito. Battuta sul campo l'idea che un giorno non troppo lontano sarebbe arrivato il Cavaliere bianco, sotto le spoglie di Luca Cordero di Montezemolo, e attraverso le mediazioni sapientissime di Pier Ferdinando Casini, per costituire un governo adeguato alla modernità, in grado di fare le riforme che «il sistema bipolare non riesce a fare», o almeno di assicurare una continuità post-dorotea molto rassicurante per i poteri forti. Dissolta anche la sottile strategia diplomatica del cardinale Ruini, intesa a trovare radicamenti e sintonie nel centro in via di rinascita, in attesa di una scintilla soprannaturale che ridesse vita a una nuova casa comune dei cattolici. Dimenticate improvvisamente tutte le differenziazioni, gli strappi, gli scazzi degli ultimi mesi: il colpo di Rutelli sulla bioetica, subito prima del referendum sulla fecondazione assistita; il "no" ai Pacs, dopo che Prodi si era esposto in modo estemporaneo con la lettera a Franco Grillini. E archiviato anche il «gran recupero» del centro-destra, avvenuto non tanto nell'opinione pubblica quanto nel clima euforico della tenuta parlamentare sul campo potenzialmente minato della riforma proporzionale. Il punto è che una buona parte dell'opinione pubblica di centro-sinistra ha voluto esprimersi direttamente, e dire la sua su ciò che stava avvenendo. I giudizi dell'elettorato non sono mai un distillato di purezza, dato che insieme alla riflessione puntuale convogliano sentimenti irriflessi. Ma uno di questi sentimenti, forse quello prevalente, suonava così: attenzione, qui è all'opera una cupola che sta tentando l'esproprio. Cioè il furto con destrezza del risultato elettorale. Ma non solo: ci siamo dimenticati che i cittadini avevano liquidato il proporzionale e si erano presi il maggioritario attraverso due referendum? E allora, per tornare alle sottigliezze della scoppoliana "Repubblica dei partiti", al sistema delle elezioni basate sullo zero virgola, era sufficiente un pronunciamento di una fazione parlamentare, all'improvviso solidale nel tentare il furto con destrezza ai danni del popolo, e del popolo di centro-sinistra in particolare? Dopo di che, è ovvio che il centro-sinistra ridiventerà un cantiere. Lista unitaria, partito riformista, partito democratico. Ma non perché abbia cambiato idea il popolo: piuttosto perché anche le strutture politiche non possono restare indifferenti al pronunciamento popolare. «Domenica scorsa è avvenuto un miracolo», dice uno dei prodiani più ostinati, il braccio destro Giulio Santagata, «e adesso bisogna tornare nella normalità». Purché si sappia che la normalità è quella rilevata ancora prima delle elezioni europee, e quindi dell'esperienza del Listone, dalle indagini dell'Istituto Cattaneo: e cioè che esiste un'Italia che si sente davvero di centro-sinistra, senza troppe sfumature, e che resta indifferente rispetto alle identità di partito. «Evidentemente», dice Prodi, «qualcuno si era dimenticato che l'Ulivo aveva messo radici nella società italiana». Anzi, secondo ricerche sociologiche ulteriori esistono fasce di elettorato per le quali la semplificazione dei partiti e dei simboli costituisce un fattore di attrazione. Tanto che adesso i prodiani, a partire da Parisi, restano su posizioni oltranziste: è sufficiente il varo della nuova lista unitaria fra la Margherita e Ds? Subito dopo la carica dei Quattro milioni, il segretario della Quercia, Piero Fassino, ha detto: «È un primo passo». Ma ha anche aggiunto: «È chiaro che non può trattarsi soltanto di un espediente tecnico. In un panorama proporzionale, che privilegia le differenze, un'esperienza politica unitaria si qualifica in base al suo contenuto politico». Vale a dire che occorre un valore aggiunto di credibilità programmatica. D'altronde, Prodi lo dice e lo ripete: «Noi il programma l'abbiamo presentato. Non è stato letto, ma le priorità sono indicate con chiarezza. E ci sono dodici commissioni al lavoro». Nel frattempo i vecchi "pontieri", come Enrico Letta e Pier Luigi Castagnetti, sono tornati a far sentire la loro voce. Dario Franceschini ha riscoperto la sua vena ulivista. L'orologio della politica si risincronizza con il momento in cui il simbolo dell'Ulivo sembrava poter fondere culture storico-politiche diverse e in passato contrapposte. Sette anni fa, nell'"ottobre nero" di Prodi, il primo governo dell'Ulivo veniva abbattuto. Nell'ottobre rosa del 2005, la storia sembra ricominciare da capo: e tutto perché la piccola borghesia moderata, il popolo della sinistra, certi banchieri invisi a Berlusconi, qualche suora, diversi preti, hanno deciso che valeva la pena di sacrificare una domenica e santificare l'Unione.
L'Espresso, 28/10/2005
Bonolis è sempre in fuorigioco
In questa rubrica non si è mai parlato del post-Novantesimo minuto di Paolo Bonolis, perché la domenica i frequentatori del calcio, quorum ego, si piazzano davanti a "Diretta gol" di Sky, e dormono beatamente almeno per tutto il primo tempo, così ritenendo assolto il loro obbligo alla cerimonia calcistica del weekend. Quindi nessuno ha poi voglia di risistemarsi sul divano nel pomeriggio inoltrato per vedere la sintesi del campionato di serie A su Canale 5. Ma l'altra domenica avevo perso il programma di Sky, e mi sono detto: vediamo che cosa fa oggi il nostro Paolino. Ma sapete com'è. La televisione pomeridiana è lenta. Paolino parla, parla, discute, imita Totò. E quando si discute, viene voglia di scanalare alla ricerca di qualcosa di meno noioso. Zap, ed ecco un'occhiata a "Domenica In", dove Pippo Baudo faceva giochi incomprensibili con certi bambini. Su Canale 5 il nostro Paolino intervistava Demetrio Albertini, noto centrocampista di valore nazionale e internazionale. E allora zap, un'occhiata a Raitre. Per poi tornare precipitosamente da Bonolis, nel timore di perdere gli "highlights" di una partita qualsiasi. Niente: Bonolis stava divertendosi in una bella conversazione con Gabriele Albertini, sindaco milanese di valore nazionale e internazionale. Allora via con un rapido passaggio su La7, dove chissà che cosa stavano mandando in onda. Al ritorno su Canale 5 stavano tutti allegramente ridendo sui labbroni di Demetrio, che in effetti sono notevoli, anche se con il tempo si sono un po' ridotti, contrariamente a quello che succede alle divette della tv, vecchie e bambine. Morale: vedi la scalogna marcia, ma in un'ora di zapping non sono riuscito a intercettare neanche un "àilàits". Dev'essere un grande esperimento mentale e sociologico, quello di Bonolis e dei suoi autori, organizzare un programma calcistico, dopo averlo pagato decine di milioni di euro, e poi nascondere il calcio nelle pieghe del talk show. Certo il nostro Paolino potrebbe obiettare, alla Totò: «Parli come badi! Lei mi faccia il piacere di restare ipnotizzato su Canale 5! Mi faccia il piacere, sennò le faccio il ritocco!». Bonolis avrebbe pure ragione. Ma ormai noi telespettatori siamo fatti così. Non facciamo il piacere. Troviamo geniale il calcio senza calcio. Ma siamo anche incorreggibili. Scanaliamo finché ci pare. E la prossima domenica, tutti a vedere "Diretta gol", e tanti saluti a Bonolis.
L'Espresso, 04/11/2005
Benemerito quel giullare
Dove c'è il sovrano, ci sono i giullari. Chi è il sovrano in Italia? Silvio Berlusconi, obviously. Si alzino le note dell'inno, "God Save the King". E allora, perché diavolo il Re Cavaliere si è messo a fare l'elenco dei comici cattivi, spaventati e guerrieri? E vabbé, Sabina Guzzanti sarà cattiva, ha la perfidia dentro, ma è anche la figlioletta di Paolo Guzzanti, che dentro è buono, buonissimo, un babà. Se vuole dire cattiverie, lasciategliele dire. Corrado Guzzanti è meno cattivo, ma a noi piace di più, perché è un vero comico "slapstick", fisicità micidiale: ma ha sempre imitato e ridicolizzato destri e sinistri, Giulio Tremonti e Francesco Rutelli, Romano Prodi e Fausto Bertinotti. E allora, che vuole il Re Cavaliere? Ma è chiaro da tempo immemorabile: vuole solo essere amato, non nel senso di Giuliano, ma nel senso dell'Amore, ch'a nullo amato amar perdona. Amato nel senso di Sandro Bondi, amato nel senso di Fabrizio Cicchitto, di Schifani, di Alfano, di Vito, di tutti gli adoratori che gli sono caduti davanti in ginocchio folgorati dalla straordinaria umanità del Capo. Però, lo conceda il Re Cavaliere, un giullare è un giullare. Deve dire le cattiverie. Altrimenti non si diverte il re e non si diverte la corte. Piuttosto, non si è capito bene che cosa abbia voluto spiegare Dario Vergassola. Il partner di un'altra reproba, Serena Dandini. Innanzitutto, Vergassola è il satiro più brutto d'Italia, al punto che molti sospettano che sia satiro davvero, addirittura con il piede caprino. E Vergassola, che è colto e intelligente, e quindi per far ridere dice delle volgarità spaventose (ma con leggerezza), si è messo a spiegare il metodo che usa lui: cinque colpi a sinistra e cinque colpi a destra. Un equilibrio della satira. Addirittura una lottizzazione della satira. Ma andiamo, Vergassola. Non è una sua esclusiva. Lo si sapeva benissimo. Fanno tutti così. I comici dicono cose tremende sulla destra, perché è troppo di destra, e poi parlano male della sinistra perché è poco di sinistra. Risultato: noi abbiamo una satira di centro. E il centro del centro è Vergassola. Perché la satira deve fare incazzare quelli di destra, fare soffrire quelli di sinistra, e prendere un'audience generale. Solo che quelli di sinistra, come Vergassola, sono più acuti, e si preoccupano anche dell'altra metà del pubblico. Sono dei benemeriti. Cavaliere, altro che proscrizione, li proponga per un cavalierato.
L'Espresso, 04/11/2005
I blitz passano i problemi restano
Leghisti ed esponenti di An che plaudono all'azione "law & order" del sindaco di Bologna Sergio Cofferati svolgono la loro ovvia provocazione. Il fastidio che possono suscitare nella sinistra è simile all'insofferenza che si prova allorché il tema della sicurezza diventa strumento di una campagna elettorale: la sicurezza è un bene pubblico, e dovrebbe essere perseguita come uno sfondo normale della convivenza civile. Gli imprenditori politici della sicurezza speculano in genere sui timori della gente, giustificati o ingiustificati che siano. Inserire questo argomento in un programma politico di parte aggiunge al confronto fra gli schieramenti pulsioni tipicamente populiste. Ma le iniziative di Cofferati non appartengono, se non in via mediata, alla sfera della sicurezza pubblica. Non c'è un legame diretto fra l'insediamento dei romeni sul greto del Reno e fenomeni di delinquenza. Lo stesso sindaco di Bologna ha iscritto le proprie iniziative, cioè gli sgomberi, i controlli dei vigili urbani sui lavavetri, le baracche spianate dalle ruspe, nel criterio della "legalità". Ed è su questo concetto che occorre intendersi. La legalità è un concetto generale e astratto. Farlo diventare un connotato generale della vita civica è in sé un'impresa meritoria, perché sono molti i cittadini che concepiscono le regole come il tessuto in cui si esercita la propria libertà quotidiana. Tutto bene, allora? No, non proprio. Il primo errore, nel centrosinistra, è consistito nell'avere allestito un dibattito caotico sulla legalità stessa: valore in sé, valore per la sinistra, valore da commisurare o da subordinare ad altri valori? In primo luogo, la legalità non è né di destra né di sinistra, a dispetto di Gianfranco Fini e di Roberto Calderoli. Soprattutto in una città come Bologna, abituata all'ordine e all'efficienza pubblica, sulla legalità non si fanno campagne elettorali e politiche: i cittadini la pretendono come una condizione oggettiva e irrinunciabile. Ma le città sono diventate realtà complesse. L'immigrazione ha mutato la convivenza collettiva. Talvolta l'atteggiamento di tolleranza cede il passo all'insofferenza. E allora come si ripristina il tessuto urbano della legalità? Riesce arduo pensare che alcune mosse spettacolari come gli sgomberi di via Roveretolo e l'abbattimento delle baracche nel Lungoreno abbiano dato un contributo significativo al ritorno all'ordine. I blitz passano, i problemi restano. Cofferati argomenta le proprie decisioni segnalando problemi circoscritti su cui era urgente intervenire: ad esempio, l'insediamento dei romeni sul lungofiume è inquinato dalla presenza di un caporalato che utilizza nei cantieri edili quella manodopera in nero, facilmente reperibile, disperata e sfruttabile. Ma le soluzioni sono buone quando non eccedono la taglia dei problemi. Se fosse possibile riportare la legalità a qualsiasi costo, il centro di Bologna, particolarmente la zona universitaria, potrebbe essere bonificato con un'azione di elicotteri, accompagnati dalla "Cavalcata delle Valchirie": ma non si tratterebbe della legalità ripristinata, bensì di una variante felsinea di "Apocalypse Now". E quindi se il problema del Lungoreno era la presenza di lavoro nero e sfruttamento, è bene capire se il mezzo migliore per risolverlo consiste nell'abbattimento di cento baracche. Oppure se la soluzione è sfasata rispetto al problema. Come si è visto, i blitz del sindaco hanno aperto una questione politica dentro la sinistra e fra la sinistra e i cattolici. A sinistra non ci sono soltanto Rifondazione comunista o i movimenti a criticare Cofferati. Lo storico sindaco migliorista Guido Fanti ha attaccato duramente le scelte del primo cittadino. Mauro Zani, influente figura di riferimento dei Ds bolognesi, ha chiesto una riflessione sull'azione del sindaco, lasciando trasparire un disagio che appartiene a molti esponenti dell'élite diessina locale. Assessori e sindaci della regione si pronunciano con prudenza, ma non dissimulano la loro contrarietà. Le associazioni cattoliche di base sono scatenate. Perché alla fine non è tanto il concetto della legalità, l'astrazione della legalità, a suscitare inquietudini: ma l'idea che colpendo in modo esemplare gli ultimi, i più deboli, il "summum ius" di Cofferati possa apparire "summa iniuria".
L'Espresso, 18/11/2005
Si è ammosciato il Molleggiato
Non sarebbe finito in gloria, "Rockpolitik", se Adriano Celentano non avesse cannato l'ultima canzone, fermandosi e lasciando via libera ai titoli di coda: «Stop, stop, sei davanti e mi copri le parole», perché non vedeva il gobbo. Ma nella terza puntata aveva sbagliato anche "Una carezza in un pugno", a riprova di una propensione storica all'inceppamento: si bloccò anche nel 1966 a Sanremo, subito dopo l'avvio del "Ragazzo della via Gluck", e si discusse per giorni se l'avesse fatto apposta o no (le giurie, per non sapere né leggere né scrivere, lo eliminarono in prima serata). Quindi una controstoria di "Rockpolitik" dovrebbe prescindere dalle esibizioni di Adriano. Anche perché sulle pagine dei giornali non sembra sia stata accennata la questione vera: e cioè chissenefrega di ciò che Celentano giudica "rock" o "lento". Il pubblico di Brugherio applaudiva tutte le ovvietà possibili, e cioè che ciò che è buono fa bene, e ciò che è cattivo fa male. Invece le cose migliori vengono dall'imprevisto. Non soltanto Maurizio Crozza, uno che surclassa tutti, quando ha fatto "Zapatero" e nell'ultima puntata il "Gipsy King Mix" sul ritorno della proporzionale: «Yo no credevo possibile che in questa mi vita / yo ritornavo nel tiempo in cui c'era De Mita». Ma soprattutto quando è stato veramente maligno filosoficamente, a proposito dell'imperfetta evoluzione umana: «Tremila anni fa c'era Platone... Oggi c'è Buttiglione». Fra gli imprevisti veramente imprevisti, "epocale" invece lo scaracchio di Patti Smith nel mezzo di "Because the Night". Quanto a Celentano, l'imprevedibile è stato come sempre particolarmente prevedibile. Cioè attento ai soliti funambolismi, facendo il paraculo un po' di qua e un po' di là, e destreggiandosi tra Dario Fo, «che sarebbe il sindaco giusto per questa città», e il Contratto con gli italiani, «che qui c'è scritto che sarebbe lento, ma a suo tempo sarebbe stato anche rock». Che le quattro puntate di "Rockpolitik" siano state effettivamente di sinistra è accertato non proprio in base agli ospiti come Roberto Benigni e Sabina Guzzanti, ma per l'accoglienza del pubblico, capace di fischiare anche solo la gigantografia di Silvio Berlusconi. Fosse venuto, il Cavaliere, chissà che sarebbe successo. Magari lo applaudivano. Naturalmente, Adriano è stato alla propria altezza e ha bassamente concluso che non sa per chi votare. Come uomo contro se ne sono visti di più cattivi.
L'Espresso, 18/11/2005
La nuvola di Prodi
Primo passo: leggere l'inchiesta dell'"Economist" sull'Italia, già definita "homme malade" dell'Europa contemporanea, e mettere agli atti le ragioni dell'incombente catastrofe nazionale, dallo sfaldamento dei conti pubblici alla perdita di competitività. Secondo passo: mettere questo scenario funereo a confronto con il rosa pastello di Silvio Berlusconi: contratto con gli italiani rispettato all'85 per cento, riforme strutturali a iosa, tenuta dell'economia in un periodo di stagnazione continentale. Dopo di che si tratta di vedere chi è nel giusto: il cupo catastrofista Bill Emmott? Oppure il fragrante ottimista Silvio Berlusconi? Nell'Italia di oggi per l'opinione pubblica è difficile scegliere, dato che il governo diffonde rassicurazioni: siamo riemersi dal sotto zero della recessione a un punto decimale sopra la linea. Di fronte a un parziale recupero nella crescita del Pil, i telegiornali parlavano di una performance che aveva reso l'Italia «la locomotiva d'Europa». La responsabilità del cattivo andamento di bilancio dipende dal tecnico Domenico Siniscalco. In ogni caso, la colpa della scarsa competitività è dell'euro «di Prodi» (si dimenticano di Carlo Azeglio Ciampi). E comunque delle sinistre, del sindacato, dell'extradeficit. Mentre pratica il "chiagni e fotti", Berlusconi sembra John Belushi nei "Blues Brothers", quando incontra l'ex fidanzata che vuole ammazzarlo perché non si è presentato al matrimonio. Non è stata colpa mia. È morta mia madre. Mi si è rotta la macchina. Io avrei voluto, ma, ma, ma. E allora, per riassumere: "The Economist" è la bibbia del pensiero liberista. Basta scorrere l'intervista al suo direttore per rendersi conto che l'analisi è, come direbbe Giulio Tremonti, esplicitamente e ineluttabilmente "mercatista". Il fallimento italiano, o il declino, l'avanzamento verso il baratro dipende dall'incapacità di liberalizzare, di aprire alla concorrenza, di eliminare le rendite, la burocrazia, il vincolismo. Il giudizio negativo accomuna il Cavaliere e Romano Prodi, entrambi gli schieramenti, il centro-destra e il centro-sinistra. Niente cultura di mercato, inevitabile il declino, con una sorte argentina già all'orizzonte. La sintesi è evidentemente thatcheriana. Niente sospetti di malevolenza politica verso il Berlusconi «unfit to rule», solo una radicale registrazione dell'incapacità italiana di adeguarsi al laissez-faire. Non ci sarebbe molto di nuovo se il giudizio di Emmott non investisse anche l'opposizione di centro-sinistra: «Chiunque vinca non c'è molta speranza». E qui il dente duole. Per certi aspetti questo giudizio affianca all'"Economist" buona parte dell'establishment italiano. Secondo il quale la Casa delle libertà ha dichiarato implicitamente fallimento, senza tuttavia che l'Unione abbia mostrato programmi e idee di governo tali da poter ragionevolmente invertire il tragitto verso l'abisso. Questa è un'opinione manierista, da parte della nostra élite economica, dettata da un'insopprimibile vocazione alla diplomazia con il potere politico (e in qualche caso gravata da un residuo di ideologismo per cui il governo di centro-destra sarà pure inefficiente, ma è più comodo di un'alternativa). Eppure questo manierismo va sbloccato, e l'unico modo per sbloccarlo consiste nel rendere pubblici i progetti politico-economici che caratterizzeranno l'azione di un governo futuro. Perché oggi il programma dell'Unione è una nuvola indistinta, che non parla ai cittadini e fa leva esclusivamente sulla bancarotta della Cdl. E che lascia spazio alla demagogia berlusconiana riassunta dallo slogan «una casa per tutti» (cioè la rivisitazione del milione di posti di lavoro, delle dentiere per gli anziani, del «meno tasse per tutti», insomma del «sogno»). Quindi, o ha ragione Emmott, e l'Italia è condannata senza appello comunque vadano le elezioni della primavera 2006. Oppure Prodi e l'Unione riescono a parlare alla società italiana e alla sua classe dirigente, indicando problemi, obiettivi e soluzioni praticabili, facendo scattare meccanismi di consenso. Perché a questo punto, il problema maggiore consiste nello smentire l'"Economist" e l'ineluttabilità del declino. Berlusconi può provarci con il populismo. Il centro- sinistra deve provarci con la ragione empirica, con una pattuglia di potenziali ministri credibili e professionali, con un'idea di fondo. Meglio che la tiri fuori, questa idea, prima che sia troppo tardi.
L'Espresso, 25/11/2005
Professione Report
La puntata di "Report" di domenica 13 novembre su Raitre era intitolata "Il re della bistecca" ed era dedicata al gruppo modenese Cremonini. In questa rubrica non si vogliono giudicare le vicende messe sotto esame: storie di carne più o meno avariata (secondo la tesi di "Report", forniture a una multinazionale di partite di manzo non esente dal rischio Bse; esportazione in Russia di carne in scatola inquinata dal botulino e a Cuba di altro scatolame in condizioni inquietanti). La cronaca dice che l'azienda ha smentito tutto, il ministro anche lui modenese Carlo Giovanardi si è detto «allibito» per l'attacco all'immagine di una società come l'Inalca, e per converso il giorno dopo in Borsa il titolo è caduto malamente. Qui si parla di tv e interessa solo segnalare un aspetto: e cioè che l'inchiesta del programma di Milena Gabanelli era una prova di raro impegno giornalistico. Una di quelle indagini che richiedono tempo, viaggi, documenti, testimonianze, verifiche. Poi può darsi che l'autrice dell'inchiesta (Sabrina Giannini) abbia preso un abbaglio, che i documenti proposti siano cartaccia e che lo scoop non stia in piedi. Se alla fine il gruppo modenese dovesse sbugiardare "Report", molti si divertiranno perché potranno dire che Gabanelli e soci sono gente ideologizzata (magari fondamentalista- vegetariana) che odia il capitalismo (e la carne). Intanto però sul piano formale il programma, come non di rado succede a "Report", era un concentrato di tv fatta sul campo. Popolare e professionale ad un tempo. Capace di raccontare con scansioni serrate, senza mai perdere il filo, inseguendo una traccia in tutto il pianeta e alla fine proponendo senza esitazione i risultati. Una di quelle indagini che sui giornali si leggono sempre più raramente, perché non c'è tempo, costano, il pubblico vuole sapere chi ha vinto sull'"Isola", e che cosa ha detto Al Bano, non che un dodicenne è morto di botulino lassù a Mosca. E che nessuna rete televisiva ormai progetta, perché contraddice la logica della tv, intrattenimento più pubblicità: insomma, non si può incassare la pubblicità se si aggredisce il capitalismo. Ma che è l'unica cosa che assomiglia ancora a un oggetto evocato solitamente a sproposito: il "servizio pubblico", per chi ancora ci crede (noi crediamo che tutta la tv sia infotainment, da Celentano a Berlusconi a Baudo: ma certe volte questa certezza vacilla).
L'Espresso, 25/11/2005
S’è rotta l’Unione
Lontano da Roma, in periferia, nelle province, nelle giunte amministrative, nei Consigli comunali si ride con i denti verdi: «Cucù, l'Unione non c'è più». In Piemonte, dissidi teatrali sull'alta velocità. A Venezia, diessini che espellono diessini dopo il caso Casson-Cacciari. A Modena, pasticci margheritici sulla Fondazione della Cassa di Risparmio. Basso profilo, di solito. Ma nella capitale, un vecchio corsaro della politica come Marco Pannella, impegnato nella tessitura dell'accordo politico con lo Sdi di Enrico Boselli e con i socialisti di Bobo Craxi, lancia un monito: «L'obiettivo principale in questa fase politica consiste nel battere il centro-destra. Però...». Eccoci, alla questione centrale dell'Unione. Commenta infatti Pannella nei suoi interventi: «L'effetto delle primarie si è via via depotenziato. È rimasta forte l'onda di consenso che ha confermato la leadership di Romano Prodi; ma l'Unione è entrata in turbolenza». Succede. Per la verità succede sempre al centro-sinistra. Succede, secondo il rito prodiano più ortodosso, quando al disegno intelligente e politicamente creazionista della linea ulivista si oppone il darwinismo ottocentesco delle culture storiche residuali. Sui temi di fondo come il ritiro dall'Iraq o sul rapporto con la Chiesa. Ma succede anche su questioni di bassa cucina partitica, come è accaduto con la baruffa sul finanziamento elettorale della campagna di Prodi: cioè una vicenda minore che si è ampliata a dismisura con gli interventi pubblici del brasseur del Professore, l'ex cestista Angelo Rovati (presidente della fondazione Governareper), e le reazioni mutriose della Margherita e dei Ds, finché Prodi ha stretto le labbra e ha sibilato: «Di soldi e di corna si parla solo in famiglia». Intanto però la temperatura politica era diventata torrida, con il tesoriere diessino Ugo Sposetti, uomo di sperimentate capacità pragmatiche, stimato da lady Flavia Franzoni, che parlando di Rovati e del braccio destro prodiano Giulio Santagata era esploso: «Prodi dica ai suoi cani di smettere di abbaiare». A volte l'unico rimedio è la medicina omeopatica dell'ironia, e Prodi aveva dedicato un pomeriggio alla soluzione del problema. Che si era materializzata nell'ampio stand del CioccoShow di piazza Santo Stefano, a un passo dalla residenza bolognese del candidato premier, con l'acquisto e la spedizione ai due tesorieri Ds e Dl, Sposetti e Luigi Lusi, di due cani di cioccolata fondente in bella confezione bianca, altezza al garrese 35 centimetri, peso mezzo chilo. Biglietto affettuoso e diplomazia avviata, anche con il conforto di una conversazione a tu per tu con Piero Fassino sull'aereo per Le Mans in occasione del congresso del Psf (5 mila socialisti francesi pronti all'ovazione per il cattolico Prodi, che li aveva salutati come «camarades d'Europe»). Folklore? Fino a un certo punto. Perché la malastoria del finanziamento è il sintomo di un conflitto strisciante che investe tutto il centro-sinistra. Nella patria del Professore, Bologna, il sindaco Sergio Cofferati è impegnato in una campagna ultralegalitaria che sta provocando attriti vistosi a sinistra, con Rifondazione comunista e i Verdi, ma anche con la componente cattolica della Margherita e con i movimenti sociali. A Palermo, in vista delle elezioni regionali, c'è la contrapposizione fra il candidato di Francesco Rutelli, il rettore di Catania Ferdinando Latteri, e la candidata della società civile Rita Borsellino, che ha portato al diapason il contrasto fra i due maggiori partiti candidati a confluire nel partito democratico. Ma i veri punti caldi della coalizione sono di carattere marcatamente politico. Anche in questo momento il fattore di tensione è rappresentato dagli strappi di Arturo Parisi, anima dell'Ulivo. Con un'intervista al "Corriere della Sera" Parisi ha sostenuto che nella prospettiva del partito democratico i partiti attuali sono entità a termine. Sbagliato sorprendersi, per la verità, dal momento che Parisi, storico ispiratore politico-culturale di Prodi, «stratega sistemico» nella definizione di Santagata, teorico e unico vincitore reale della scommessa delle primarie, ha sempre guardato a un orizzonte "americano", un bipartitismo compiuto in cui le identità sono destinate a stemperarsi. Solo che ogni volta che Parisi parla i Ds insorgono. Evidentemente ha il dono fatato di toccare nervi scoperti. L'estate scorsa aveva risollevato la questione morale, a proposito dell'intreccio politico-economico sullo sfondo della scalata di Unipol alla Bnl, suscitando fitte di dolore nella Quercia. Sulla questione dei partiti "transeunti" o morituri è intervenuto con durezza Franco Marini, evocando il pericolo di «visioni plebiscitarie» che non si addicono del tutto alla modesta statura fisica del "Negus", che non ha nulla del capo carismatico. Quando poi il politologo sardo- bolognese ha letto «con incredulità» le dichiarazioni al "Corriere" del diessino Giuseppe Caldarola («E allora noi gli rispondiamo: no, devi morire tu»), si è lasciato andare nella risposta a una frase crudele per Caldarola e i Ds: «Capisco che la sua prima formazione militante possa averlo familiarizzato con la morte più di quanto abbia fatto con me la mia prima formazione militare». Per capire questo lessico di pretta "école parisienne" bisogna sapere che Parisi ha frequentato la scuola militare della Nunziatella, ma soprattutto che non è mai stato comunista, e quindi complice dei misfatti del socialismo reale. Ci vuole poco a capire che questa non è normale dialettica fra correnti del futuro partito unico. Sono segnali del persistere di una diversità ontologica fra catto-ulivisti e diessini, fra riformisti da un lato e socialisti dall'altro, che periodicamente affiora con ruvidezza. Fino a pochi mesi fa si pensava che le difficoltà, per Prodi, sarebbero sorte nel rapporto di medio periodo con Rifondazione comunista. Ma per la verità Fausto Bertinotti sembra avere accettato integralmente, dopo l'esito per lui non straordinario delle primarie, la logica dell'alleanza larga e l'imperativo essenziale di sconfiggere la Casa delle libertà. Primum vincere. Oggi invece, in seguito alla quasi approvazione della caotica legge elettorale varata unilateralmente dal centro-destra, le contraddizioni sono in seno al popolo, ossia dentro l'Unione. E nonostante il precetto del presidente Mao, la diagnosi di una grande confusione sotto il cielo non è affatto la riprova di una situazione eccellente. A guardare i dati dei sondaggi, sostanzialmente omogenei per tutti gli istituti demoscopici, la condizione del centro-sinistra sembrerebbe rassicurante, con un vantaggio che nemmeno la trappola della legge elettorale per il Senato minaccia di scalfire. Ma ci sono almeno due aspetti da valutare, che generano inquietudine. Per un verso, la quota ancora molto alta di indecisi (un quarto del totale), che fa dire al circuito prodiano: «Non dimentichiamo che Angela Merkel ha vinto i sondaggi, con un 30 per cento di incerti, e ha quasi perso le elezioni con il voto vero». E in secondo luogo un dato, segnalato da Roberto Weber dell'Swg, secondo il quale «il consenso dell'Unione è stabile, ma c'è ancora un "quadrante" della società italiana potenzialmente mobilitabile, rappresentato dal mondo cattolico». Questa rilevazione chiarisce probabilmente il forcing di destra sulle posizioni della Chiesa, con le iniziative antiabortiste di Francesco Storace, così come spiega l'irritazione nell'ambiente di Prodi suscitata dalle forzature zapateriste di Boselli contro il Concordato, proprio mentre il Professore stava cercando una ricucitura con il cardinale Ruini. A questo proposito, viene attribuita a un Prodi inferocito una battuta: «Nei dieci Comandamenti non ce n'è uno che imponga di essere stupidi». Occorre capire se è questione di stupidità, oppure una questione di natura (secondo l'apologo, lo scorpione punge la rana in mezzo al fiume anche se ciò provoca la morte di entrambi: «È la mia natura»). La natura del centro-sinistra è composita: chissà se di qui alle elezioni l'Unione sarà capace di fare tacere il proprio Dna così meticcio, così naturalmente autolesionista.
L'Espresso, 02/12/2005
Mi manda l’orco vendicatore
Ci sono sere in cui non si ha nessuna voglia di impegno, di società, di argomenti pesanti e/o civili, e si avvia lo zapping con la sola aspettativa di trovare una commedia possibilmente brillante o un programma di intrattenimento che non sia incivile. Poi invece si capita su un programma civilmente "hard", e non si riesce a staccare. È successo per una recente puntata di "Mi manda Raitre" (18 novembre), che ha proposto una storia ai confini della realtà. Riassunto: protagonista una bella ragazza di 24 anni, con un lavoro in un settore sensibile alla moda (parrucchiera), disponibile agli imperativi della chirurgia estetica. Vuole farsi un intervento di mastoplastica additiva, cioè ingrandirsi il seno. Se ne va in un centro specializzato, o presunto tale, dove le danno consigli piuttosto interessati e in una sola seduta le praticano tre interventi: rinoplastica, rimodellamento del seno, liposuzione alle cosce. Risultato: l'operazione non riesce, devono rioperarla, c'è un'emorragia, i chirurghi la caricano su un auto privata e la scaricano in ospedale al San Camillo. Rischia di morire, si salva a malapena, resta in coma 47 giorni. Esce dal calvario con danni ai polmoni e tante cicatrici. Ci si chiede perché mai una donna così giovane e bella non sa accettarsi. Ci si chiede perché in una sede medica abilitata a interventini ambulatoriali si pratichino interventoni massicci. E magari ci si chiede anche quale sia l'affidabilità di questi centri estetici, e quale sia la deontologia di medici che operano in quel modo. Tutte domande puntuali nell'epoca in cui le ragazzine chiedono il rifacimento delle tette come regalo di compleanno. Ma in questa rubrica conta solo l'apprezzamento per un programma che è riuscito a selezionare una storia del genere. Per la bravura degli autori che sono riusciti a ricostruirla come se fosse un thriller. E anche per il ruolo del conduttore, Andrea Vianello, uomo di rara bruttezza visiva e rara qualità televisiva: che chiude la trasmissione segnalando che i chirurghi in questione si sono rifiutati di apparire nel programma e hanno mobilitato avvocati per impedire che fosse fatto il loro nome e il nome della clinica. Mentre chiude il programma dicendo che no, loro i nomi li hanno fatti, Vianello in primo piano sembra un orco: ma un orco buono, che vendica un torto. Magari lo condanneranno in sede civile o penale: ma come prova di giornalismo, accidenti.
L'Espresso, 02/12/2005
Barifuoco e Buttaficco
Baricco e Buttafuoco: il Rosso e il Nero, per evocare alla carlona ascendenze stendhaliane. I protagonisti del principale duello culturale, letterario, artistico, politico, romanzesco, storico, giornalistico, editoriale, melodrammatico, mercantile, lobbistico della stagione. Rosso e Nero fino a un certo punto, comunque. Alessandro Baricco è uno stracùlt del rossoverdismo, di una sinistra veltronica e televisiva (e adesso radiofonica, «perché la radio è più sommessa e meno volgare»), a cui quelli del "Foglio", sostenitori del "competitor" di destra, hanno sempre rimproverato le maniche arrotolate e il "fighettismo". Per cercare riferimenti culturali in materia, prima di leggere il nuovo bestseller di Baricco "Questa storia", consultare il suo instant book da Feltrinelli, anno 2002, titolo "Next", sottotitolo "Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà" (l'incipit recita: «Ovviamente la prima domanda che viene in mente è: cosa diavolo è la globalizzazione?», e i link alle parole chiave vengono definiti "bonus tracks"). E Pietrangelo Buttafuoco, davvero sarebbe nero nero? Nerissimo, dicono tutti. Eppure, nell'intervista choc a Norberto Bobbio, anno 1999, dopo avere indotto il maestro dell'azionismo torinese a un clamoroso coming out sull'«eravamo tutti fascisti e ci vergognavamo di dirlo», di fronte alla domanda del filosofo, «mi spiega perché è fascista?», lo spudorato rispose: «Professore, confessione per confessione, io non sono fascista. Sono altro». Ecco. «Ho amato lo scandalo di chi gioca da fascista in questo dopoguerra perché è stata la prospettiva più inedita da dove ho potuto fare altro, diventare altro, per leggere e studiare in orizzonti altrimenti inaccessibili». Maliziosamente, si potrebbe dire che il funambolico Baricco non avrebbe saputo confondere meglio le acque. Certo che sarebbe un tiro mancino accostare il torinese acrobata multimediale autore di "Castelli di rabbia", che com'è noto conclude i suoi chilometrici ringraziamenti scrivendo che d'ora in avanti non scriverà più ringraziamenti, e notare che il siciliano dannunzian-futurista cultore dei legionari fiumani e dei loro fasti erotici termina il suo libro con un "backstage" che chissà dove l'avrà trovato o mimato (un sicilianuzzu che anglicizza?). Provocatorio sarebbe anche fonderli in un Barifuoco o in un Buttaficco. Ma l'artificio suonerebbe traditore, perché "Questa storia" (Fandango) di Baricco e "Le uova del drago" (Mondadori) sono due libri lontanissimi, che forse fondano due tradizioni opportunamente inventate, secondo il precetto di Eric Hobsbawm. Intanto, però, hanno inaugurato due metodi commerciali contrapposti: il marketing totale di Fandango, neoeditore di Baricco: quattro copertine su progetto grafico di Damir Jellici e disegni di Gianluigi Toccafondo. Che non si capiva a che cosa servissero, quattro illustrazioni diverse, finché non si sono viste a Roma le affissioni con i disegni di Toccafondo divenute cartelloni cinematografici à la Fandango. Mentre per Buttafuoco, una sola copertina ma stupenda, e un anti-marketing addirittura perfetto: un diluvio di recensioni-interventi-discussioni sul "Foglio", con Giuliano Ferrara a tirare il gruppone, in modo da innescare il passaparola (Baricco preferirebbe "word-of-mouth"?), sicché dopo la prima prudentissima tiratura, la Mondadori è andata in rottura di stock, ristampando affannosamente, mentre le librerie restavano sprovviste, «Buttafuoco? Esaurito!» ("sold out"!). Quanto al valore letterario, non è questa la sede. Fenomenologicamente, va registrato che Buttafuoco è stato lanciato da un incessante fuoco amico di Giulianone: «Pietrangelo Buttafuoco ha la sensibilità patologica di Louis-Ferdinand Céline ma scrive per sua e nostra fortuna nella lingua salutare di Alessandro Manzoni». A seguire la raffica del plotone del "Foglio". «Romanzo fascistissimo ed eccezionalmente partigiano». «Ecco un nemico sontuoso». «Andrebbe letto a scuola» (Alessandro Giuli). Oppure: «Sarà un fascista de merda». «Vabbé, però è bravo» (Stefa- no Di Michele, ricordando gli scambi di battute a "l'Unità", primi anni Novanta, quando Buttafuoco scriveva sul "Secolo d'Italia". «Un occhio e un orecchio formidabili»; «l'incantevole ritmo» (secondo quel talento inconfondibile della stroncatrice "professional" Mariarosa Mancuso). L'unico stroncatore autentico è uno dei bastian contrari seri, Ernesto Galli della Loggia: «Il libro fornisce una serie di falsi storici ingenui quanto clamorosi, invenzioni da favoletta orientate a mettere da parte le miserie e il fallimento del fascismo in Sicilia». Sarà il contrappasso, sarà la nemesi: perché nel successo speculare di Baricco c'è invece un qualche riconoscimento della plausibilità storiografica della sua ricostruzione di Caporetto. Quindi viene da dire che lo scontro di egemonie culturali c'è davvero, fra le storiacce di Buttafuoco e il paradigma ipercorretto della corrente bariccata, con la destra-destra, quella del "Secolo d'Italia", che insorge dicendo: «Ma vedete che ce li avevamo anche noi gli intellettuali, colpa nostra se non siamo stati capaci di sostenerli!». Chi è causa del suo mal, eccetera. A chi è stufo dell'egemonia, si può ricordare che il romanzo del quarantasettenne Baricco vende tre volte il romanzo del quarantatreenne Buttafuoco, ma il confronto è evidentemente ineguale perché il creativo, l'autore e conduttore di "L'amore è un dardo", viene da successi vagamente inquietanti come "Seta" e il rifacimento in stile contemporaneo dell'Iliade. Mentre Buttafuoco non ha immagine televisiva né trionfi pubblici alle spalle, e neanche il bacino "midcult" del presunto rivale. Chi obietta al successo di questi due quarantenni antinomici può trovare ragioni serie. Scrivendo su "la Repubblica" la recensione di "Questa storia", Michele Serra ha realizzato un gioiello di dosature («In uno dei capitoli più tromboneschi, e più coinvolgenti, che abbia mai letto negli ultimi anni», «si arretra di fronte a certe sonate stentoree», «certe volte si fa "ooooh" e si applaude»). A sua volta, il libro di Buttafuoco è sembrato più la descrizione di un romanzo che un romanzo fatto e finito. Il suo fascismo, e dai!, «un fascismo sniffato come cocaina», secondo un altro siciliano, Francesco Merlo, sempre su "la Repubblica", è assaporato in «un delirio irritante e squisito» (per la verità Merlo si prende anche il gusto paternalistico e campanilistico di definire Buttafuoco «giornalista giovane e di grande talento», forse per segnalare gerarchie almeno anagrafiche, ma promuovendolo, urka!, al rango di «nostro Tolkien»). D'altronde, recensendo tempestivamente Baricco, "il Foglio" diceva che «non ci sono maniche di camicia arrotolate, in questo romanzo», «niente seta, niente oceano mare», e il sommario esclamava: "Bel romanzo". Onore delle armi, insomma. Forse non tira aria di grande coalizione per niente. Almeno fra egemonie letterarie.