L’Espresso
L'Espresso, 16/12/2005
Ipnosi Bignardi
C'è qualche motivo per parlare male del talk show de La 7 "Le invasioni barbariche"? Uno solo, e cioè che ormai il programma viene definito "di culto", e oggi anche chi nutre un rispetto profondo per ogni professione di fede, appena sente la parola culto mette mano al telecomando, nel timore che compaia qualche ateo devoto, un Pera o qualche idolatra di Giuliano Ferrara (gli atei devoti sono molto atei ma ritengono che se un dio esiste è grande e grosso e si chiama Giuliano, a dispetto della sua apostasia; simmetricamente, non si capisce dove nel frattempo siano finiti, sic transit, i cultori di Paolo Mieli e del terzismo). Dicebamus comunque delle "Invasioni". Lo scrivente è altresì convinto che il successino del talk show sia inspiegabile, a meno di usare come criterio esplicativo la presenza e l'incombenza di Daria Bignardi. Oddio, l'incombenza: ed è subito Bonolis. Ma non c'è altro modo di spiegare la "necessità", in senso filosofico e televisivo, di Daria. Che uno stava già architettando di andarsene a leggere il miglior libro dell'anno o del decennio (Rossana Rossanda, "La ragazza del secolo scorso", Einaudi, altroché) e invece si trova l'ex sorellastra del "Grande Fratello", trasformata in una donna gentile e materna, che ammicca e si ritrae, sembra osare ma "con juicio", e quando si trova di fronte Paolo Crepet gli estorce il meglio ma soprattutto il peggio, fino a fargli confessare che lui, l'intellettuale Crepet, è di sinistra, ma così di sinistra che da anni non si preoccupa neanche di votare (ottimo, c'è stata l'invasione dei barbari e lo psicologo insegue l'assoluto). Quando il discorso scivola su Cogne e Crepet dice che questa società odia i bambini, la mammina Daria si schermisce e ha perfettamente ragione: gli psicologi amano traumatizzare le casalinghe, ma la Bignardi non è una casalinga e non si fa impressionare. E poi, basta con la psicologia: parafrasando Karl Kraus, Freud e Crepet sono i malati, non i medici. L'unico effetto psicologico accettabile, a proposito delle "invasioni" è di tipo ipnotico: perché Daria è pura ipnosi, la trovi nell'etere e ti ipnotizza. Di che cosa poi parli il programma, boh. Sono passate interviste a Michele Serra e a Daniele Cordero di Montezemolo, il fratello di Luca che ha reinventato la cravatta. Ma che importa, il programma è lei, la ragazza maga, una del nostro secolo: e lasciarsi ipnotizzare è dolce in certe sere.
L'Espresso, 16/12/2005
Unione, se ci sei batti un programma
Con le conferenze programmatiche della Margherita e dei Ds si è diffusa nel centrosinistra un'ondata di ottimismo, perché «adesso abbiamo il programma». Se è per questo i programmi sono due, che diventano tre se si considera l'output della Fabbrica di Prodi a Bologna, e quattro o cinque a considerare anche le proposte di Bertinotti e l'antiprogramma dei piccoli dell'Unione. La conseguenza è che i due maggiori partiti del centrosinistra si mostrano convinti che ormai il più è fatto; ma non hanno calcolato che del loro dibattito all'esterno non è rifluito nulla. O meglio, vaghe idee, riunite da un sentimento empiricamente irrilevante. Si badi bene, qui non si vuole cadere nella trappola dei "cinque punti per i primi cento giorni", evidentemente una gag alla Totò, che per motivi imperscrutabili riscuote un successo via via maggiore ogni volta che viene ripetuta, come la lettera di Totò e Peppino alla Malafemmena, punto: il problema non sono né il programmismo né i cinque punti; la questione vera e seria è un orientamento di fondo per cinque anni di governo. Eppure, tolta di mezzo l'ossessione dei cinque punti o dei cento giorni, bisognerebbe che venisse fuori una linea visibile e coerente. Finora si è assistito all'analisi della realtà italiana; adesso ci vorrebbe una prospettiva generale, un modello di riferimento, una politica da esporre al paese. Vabbè, qualcosa si è sentito. Alla conferenza diessina Pier Luigi Bersani ha fatto probabilmente il discorso della vita, e comunque l'intervento più importante della sua carriera politica, felicemente riformatore, lasciando capire che alle due cinquantenni punte future (Rutelli e Veltroni) occorrerà aggiungere anche la punta emiliana. Ma "una certa idea" dell'Italia non si è ancora sentita. Non che sia facile, perché il centrosinistra, se vincerà le lezioni, si troverà a dover gestire un paese che ha bisogno nello stesso tempo di una fortissima modernizzazione, e della ristrutturazione selettiva dello Stato sociale. L'ammodernamento dell'economia non è un problema, dato che anche se non lo promuove la politica lo realizzerà il mercato: solo che in questo caso, cioè nella prospettiva poco evitabile di tensioni nei settori produttivi, e di contraccolpi sociali politicamente insostenibili, diventa essenziale spiegare come dovrà essere cambiato, e radicalmente, il welfare: a chi dare, a chi togliere. Precipitata nel guazzabuglio del sistema proporzionale, l'Unione fatica in realtà a trovare una sintesi. Il centrodestra giochicchia con l'imbroglio delle "tre punte". L'Unione non può cullarsi nell'idea che in ogni caso "noi" siamo migliori di "loro", capaci eventualmente di gestire attraverso il consenso scelte complesse come la Tav, di risolvere con la concertazione il problema del recupero del potere d'acquisto per le fasce sociali impoverite, e di mettere in squadra ministri di professionalità infinitamente superiori a quelli della Cdl. Tutto vero o verosimile. Ma nel 2001 Berlusconi annunciò e promise. Le promesse, quasi tutte disattese, come no: il Contratto è da buttare, e i nuovi cartelloni sono generici prima ancora che minacciosi. Il Cavaliere sa che il pubblico dimentica facilmente. Tanto per dire, pochi mesi fa aveva promesso solennemente che entro la legi?slatura avrebbe riportato il debito pubblico sotto il 100 per cento del Pil; adesso il Pil veleggia disastrosamente verso il 110, e non c'è nessuno che gliene chieda conto. E tuttavia quel Berlusconi annunciava qualcosa. Un'indistinta megalomania populista, va da sé. O una circonvenzione politica. Ma ora che cosa sta annunciando il centrosinistra? Che cosa promette? Il programma sarebbe l'accordo sui Pacs "un po' meno Pacs" e sul testamento biologico? Come ha detto nel suo anti-ideologismo Giuseppe De Rita: «I giornali scrivono dei Pacs, e i politici si convincono della centralità dei Pacs». Ma con tutto il rispetto per i simil-Pacs e i soggetti contraenti, non sarà il caso che finalmente l'Unione spieghi come intende governare la società italiana? Più tasse o meno tasse? Più pensioni o meno pensioni? Più grandi opere o più infrastrutture tecnologiche? Più spesa pubblica, meno spesa pubblica? Più insegnanti, meno insegnanti? Bastano anche quattro punti, o sei, non c'è l'obbligo dei cinque. Anche 12, se serve. L'importante è farsi vivi.
L'Espresso, 27/12/2005
Che bel tempo che fa Teocoli
A chi è capitato di accendere la tv domenica 11 dicembre, e di piazzarsi su Raitre intercettando "Che tempo che fa" di Fabio Fazio, dopo il solito pomeriggio di calcio e in attesa del derby Inter-Milan, è stato offerto il premio di una prestazione in studio di Teo Teocoli, di quelle inattese, una gemma televisiva non prevista. Il contorno non sembrava promettere granché: una delle classiche conversazioni con l'ospite. Cioè il più consueto dei chissenefrega. Solo che questa volta Teocoli era disteso, tranquillo, divertito. Voi sapete com'è, Teo: un fuoriclasse. Ma anche un fuoriclasse nevrotico, ombroso, scassaminchie. Sarà stato rassicurante l'interlocutore Fazio, sarà stato il clima domenicale, ma Teocoli ha realizzato uno dei suoi capolavori. Capolavori minimi: la storia del suo arrivo a Milano da bambino, dopo un viaggio interminabile su una delle tradotte dal Sud, «un postale che fermava dappertutto», la tremenda craniata in seguito alla caduta in Stazione centrale, e poi la vita nella Milano degli anni Cinquanta. La scuola, gli studi di ragioneria con il professore senza mani, la professoressa Musci destinata a superare il secolo di vita, le gite scolastiche. Roba da niente, un amarcord milanese qualsiasi. Però realizzato insieme con una verve e con un umorismo da accademia del popolo, con un senso straordinario dell'aneddoto. E Fazio, che aveva capito tutto, si è messo gentilmente al servizio dei racconti di Teocoli, senza importunare, senza voler primeggiare, ridendo lui per primo alle battute, lasciandogli quasi 20 minuti di primo piano, perché evidentemente si era accorto che stava avvenendo qualcosa di piccolo, ma irripetibile. Molto meglio il cabarettista Teocoli che il politico Pier Ferdinando Casini, che pure non se l'era cavata male, alla sua maniera bolognesona. Se si deve fare conversazione, arte dimenticata, tanto vale soffermarsi sulle modeste storie della vita di uno qualunque (Teocoli è stato qualunque a lungo, e forse per questo ha una concezione gelosissima del proprio lavoro e del proprio ruolo, e litiga praticamente con tutti non appena si sente toccato nelle sue prerogative di showman). Quanto a Fazio, bene bravo bis. E continueremo tutti a chiederci fino a quando si accontenterà di questa sua posizione di nicchia, e fino a quando la formidabile Rai contemporanea eviterà di chiedergli di impegnarsi in uno show bello grandioso come ai vecchi tempi.
L'Espresso, 27/12/2005
Passione Rossana
Soffusa, a sinistra, da un alone di mito che lei rifiuta con troppa enfasi, «non io, i miti sono una proiezione altrui, io non c'entro», nella sua alta coscienza di sé Rossana Rossanda sa benissimo di avere pubblicato il libro più bello dell'anno, tanto da fare schiattare d'invidia la romanzeria italiana. Libro che si intitola "La ragazza del secolo scorso" e che, appena pubblicato da Einaudi, è subito diventato un santino per una quantità di orfani e orfane della sinistra più fremente. Ed è per questo clima di adorazione che converrà prima di tutto accennare quali sono i difettucci di un libro piuttosto straordinario. Innanzitutto, basta la prima lettura veloce per notare che la scrittrice Rossanda è rimasta, buon per lei e la sua età, una di quelle che giovanilmente pensano "tanto peggio per i fatti", se è vero che sbaglia l'anno in cui Enrico Berlinguer andò ai cancelli della Fiat, «contro la prima grande cassa integrazione: furono quarantacinque giorni gloriosi ma fuori tempo massimo». Così fuori tempo massimo che la Rossanda scrive 1979, ed era già il 1980. Meno suggestivo di questi slittamenti della memoria è un editing che lascia qua e là ripetizioni un po' noiose, e certi svarioni come «c'erano dei microclima», o l'uso dell'aggettivo "corrusco" all'opposto del suo significato. Bisogna premettere tuttavia che almeno metà del libro è narrazione pura, svolta con uno stile così personale che prima di accettarlo come necessario, giusto, logico, bisogna entrarci e lasciarsi prendere, superando una certa diffidenza immediata. E quindi gli errori blu si possono anche prendere come licenze narrative, giochi trasognati della memoria. I primi capitoli infatti sono la storia di un'infanzia e di un'adolescenza. La vita famigliare a Pola, il disastro economico del padre notaio in seguito alla crisi del '29, le stagioni in parcheggio dagli zii a Venezia, la famiglia che si riunisce a Milano senza che mai la vecchia cicatrice si sanasse del tutto. Poi il "Bildungsroman" dell'università, gli studi con Banfi e Marangoni, la guerra, i bombardamenti, il contatto con la Resistenza. Tutto raccontato con la leggerezza misericordiosa di chi ricorda la propria gioventù ed è capace di farla diventare ritmo e atmosfera: pagine stupende sulla Milano bombardata, sugli studi alla Statale, sulla guerra che c'era, eccome se c'era, ma si fingeva che non ci fosse perché non alterasse la vita. Non è detto allora che il "journal" della Rossanda vada letto seguendo la sua evoluzione politico-culturale. Dato che lo sfondo politico è il solito problema degli ingraiani contro gli amendoliani, rivoluzione o riforme, leninisti o luxemburghiani, si può stare fuori dalla teoria, dai «rapporti di forza», dal marxismo più o meno eccentrico e andare liberamente a caccia di episodi. Alcuni drammatici, come nel 1956, invasione dell'Ungheria, una foto che mostra un funzionario comunista impiccato a un fanale, mentre sotto di lui ridono due operai di una fabbrica in sciopero: «Fu la prima volta che mi dissi: Ci odiano. Non i padroni, loro, i nostri ci odiano». Qui ci vuole la forza di uno stile per chiudere quella tragedia con un tocco impressionante: «Era un odio massiccio, sedimentato, non si arriva a queste enormità senza un'offesa lungamente patita. Quei giorni mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero che succede, avevo trentadue anni». È la stessa economia delle parole a innescare un brivido. Inutile chiedersi per quale ragione una giovane intellettuale, laureata in lettere e quasi laureata in filosofia, dotata di una spaventosa sicurezza di giudizio, non trae le conseguenze. Ma davvero eravate ciechi, non vedevate, davvero non sapevate?, le chiede incredulo K. S. Karol, l'«antistalinista ma non anticomunista» divenuto il suo compagno dopo la separazione da Rodolfo Banfi. Macché: il mondo della Rossanda è hegeliano, tutto il reale è razionale, e quindi la realtà del Pci implicava la razionalità dello starci dentro, e gli errori giustificavano teleologicamente se stessi. Da ciò deriva lo schema autoassolutorio e ineluttabile che seppellisce le obiezioni: abbiamo sbagliato tutto ma avevamo ragione. Le cecità, i dérapage, le omissioni derivano dall'etica della responsabilità verso il partito, verso le masse, verso chi aveva trovato nel Pci un mondo a parte in cui ripararsi. Errori su errori, ma per le ragioni giuste. E c'è sempre una ragione, anche se il prezzo di tutto questo è una cortina di corrività alla ragion di partito, screziata di arroganza intellettuale. Sarà anche per questa fede coattiva che il codice dogmatico del Pci conserva un suo fascino implacabile. Si legga dell'incontro a cena, in una «modesta trattoria» con Luigi Longo, salito a Milano per indurla ad accettare l'invito a dirigere, a Roma, la sezione culturale del Pci. Lei nicchia, accampa «le urgenze», «le molte ragioni per declinare l'offerta». «Lui aspettò che finissi poi proferì: Ascoltate. Io non invito a cena nessuno, sono avaro. Ho invitato voi perché i vostri compagni mi hanno detto che facevate delle obiezioni all'incarico. Vi ho spiegato perché la direzione ha deciso che veniate a Roma. Non fatemelo ripetere. Trovatevi a Roma a dicembre». Lei resta a bocca aperta: «Potevo dire di no, e non sarebbe successa una catastrofe...». Ma alla fine: «Ci pensai due giorni e dissi sì. Come tutti si attendevano». C'è Togliatti che dopo un complicato giro di bozze di "Rinascita", con molte correzioni e annotazioni, a proposito del commento a un discorso di Kruscev sugli intellettuali «di una stupidità sconfortante», di fronte alla sua ultima obiezione le scrive ironicamente: «Chi è il segretario del Pci? Tu o io?». C'è un Pajetta che minaccia retoricamente il suicidio e lei gli spalanca la finestra sul giardino dicendo con sarcasmo «buttati». Un Amendola che va sul personale: «Ti sei messa con Karol? Peccato, una così brava persona», perché ai suoi occhi «io ero già un serpente ingraiano». Longo che nei giorni dell'invasione di Praga la ferma in un corridoio, «il volto teso e gli occhi grigi pieni di collera», per confessarle, sbigottito: «Sapete, non mi hanno neanche informato». Alla fine, anche il più cocciuto degli anticomunisti farà fatica a trattenere l'emozione quando con poche parole il libro racconta il corteo funebre di Antonio Banfi, il professore abituato a curare il collegio senatoriale di Cremona, felice di calarsi nella terra e nella vita dei suoi contadini: «Due giorni dopo, ai suoi funerali, c'erano senato e comune e partito e università e allievi e tutta Milano, e un mare di contadini in bicicletta venuti dal cremonese, un mare mantellato e silenzioso che colmò le grandi strade e rifluì la sera verso le campagne». Per il cacciatore di storie, il clou non è il processo del partito ai deviazionisti del "manifesto" (con lei, fra gli altri, Natoli, Pintor, Magri, Castellina). Ad esempio, il viaggio a Cuba, nel 1967, è un prodigio di umorismo. Fidel Castro che ammette pensosamente problemi e contraddizioni: «Sì, i contadini non volevano mollare la terra. Che fare? Hay que fusilarlos?». E quando il discorso si sposta sull'Urss, «non ne sapevano nulla... Ascoltarono con stupore quando, sentendo troppe sciocchezze, parlammo del gruppo leninista, degli anni Venti, e Trenta, i processi, la guerra». «Riportandoci all'albergo, Castro ancora ruminava, possibile che Stalin avesse fatto ammazzare Trockij, gli pareva un'enormità. Non l'aveva mai saputo...». Naturalmente il libro della Rossanda si può leggere in tutt'altro modo. Più politico. Più simpatetico. Più storicamente e dialetticamente avvertito. E poi magari concludere che ad esempio la signora in rosso ideologizza e mitologizza l'autunno caldo, ossia «la più grande e colta lotta operaia del dopoguerra», che grazie alla sapienza operaia porta addirittura aumenti di produzione sgraditi al capitale. Si può ragionevolmente obiettare che il suo racconto elude, e dove non basta l'elusione subentra l'amnesia. Si può dire che sfoggia il senno di poi. Che è costellato di giustificazionismi. Ma non importa. È un gran libro: quindi tanto peggio per i fatti.
L'Espresso, 27/12/2005
Proporzionale avvelenata
Eccola qui, la frittata della proporzionale. Messa in padella, rovesciata come si rovesciano le frittate, e ammannita agli elettori. Un piatto con ingredienti azzeccatissimi per avvelenare la digestione al centro-sinistra. E nello stesso tempo per gettare nel cestino 12 anni di tentata stabilizzazione del sistema politico. Da qualsiasi angolo si guardino le proiezioni di Stefano Draghi, l'effetto è disarmante. Si poteva pensare una legge elettorale scassata, slegata dal criterio di territorialità (altro che federalismo o devolution), ma ci voleva una fantasia straordinaria per inventare un metodo elettorale che sembra peggiore, molto peggiore del proporzionale della prima Repubblica. Poi si potrà discutere se la reinvenzione dell'ombrello, cioè della proporzionale, è stato un crimine o un errore, o tutt'e due. Guardando i numeri, sembra un congegno perverso, fatto apposta per schiacciare il risultato verso il pareggio, per ammorbidire il risultato nelle aree dove le maggioranze sono più pronunciate, con il premio di maggioranza alla Camera che è una trovata per fingere di puntare ancora sul bipolarismo. In cambio bisognerebbe digerire quella cosa tremenda che sono le liste bloccate, gestite da un'oligarchia: manca solo che si chieda al popolo sovrano di votare per liste di incappucciati. Ma si sa che il problema stridente è al Senato. E qui la domanda se si tratti di crimine, errore o entrambi pende insidiosamente verso l'idea che si sia trattato di un errore (quindi peggiore di un crimine, secondo una nota scuola). Perché anche i numeri di Draghi dimostrano che la trovata del premio di maggioranza regionale, escogitata per sfuggire a un rischio di incostituzionalità della prima stesura, può determinare risultati caotici, ma tendenzialmente sterilizza la possibilità che una coalizione vinca con numeri sufficienti per governare efficacemente. Di recente Giuliano Amato ha detto: «Si discute sul fatto che la legge elettorale sia costituzionale o no, e nessuno dice che è una baggianata». Adesso si aggiunge un'ulteriore problema costituzionale, perché in una legge scritta con i piedi ci si è accorti che gli elettori della Val d'Aosta e gli italiani all'estero non contribuiscono alla formazione del premio di maggioranza: dunque ci sono elettori il cui voto vale meno. Si sostiene che l'errore sia rimediabile, ma il timore a questo punto è che si rimedi con un altro errore. Ma il punto fondamentale è che se un sistema non favorisce l'espressione di maggioranze chiare, il pericolo del trasformismo parlamentare è a un passo. Nella Cdl spergiurano sulla fedeltà al bipolarismo, ma che cosa succederà se al Senato non si avrà una maggioranza nitida? Qualcuno giurerebbe sulla tenuta degli schieramenti? La realtà è che questo sistema elettorale sembra fatto apposta per generare, non subito ma presto, una coalizione centrista che vinca anche con un risultato modesto (35-40 per cento). Per evitare questo rischio occorre che l'Unione trasformi le elezioni del 2006 da proporzionali a maggioritarie, Prodi contro Berlusconi, centro-sinistra contro centro-destra. Poi si potrà procedere a buttare via la legge canaglia, o legge guazzabuglio, la legge sbagliata: insomma, occorrerà liberarsi dell'errore e anche del crimine.
L'Espresso, 22/01/2004
I giorni neri del Cavaliere
Si prenda la sentenza con cui la Corte costituzionale ha rigettato il lodo Schifani, si aggiunga la decisione con cui Carlo Azeglio Ciampi ha rinviato alle Camere la legge Gasparri sul sistema televisivo, e la conclusione è chiara e lineare: con questi due atti svapora il populismo Italian Style. Sono giorni neri per Silvio Berlusconi, reduce dalla lunga vacanza in Sardegna. Non solo per la realtà di fatto, con quei due pilastri della sua politica personale e patrimoniale abbattuti dal Quirinale e dalla Consulta. Ma perché queste due decisioni hanno fatto fuori un metodo, uno stile, un atteggiamento politico. Hanno dimostrato che le istituzioni possiedono una coerenza interna, una logica implicita, che non è deformabile a piacimento. Fanno barriera. E su questa barriera Berlusconi è caduto, vedendosi franare addosso gli architravi della sua politica. La tecnica populista aveva tentato di manipolare in profondità l'assetto istituzionale. Per giustificare la legge Gasparri, occorreva dimostrare al popolo che il pluralismo è qualcosa non di formalistico ma di sostanziale, affidato all'autonomia intatta delle redazioni televisive e alla personalità dei giornalisti, non all'astrattezza punitiva delle regole anti-monopolio. Per questo il ministro delle Comunicazioni aveva potuto proporre una farragine di legge, presentandola come un radicale riordino «di sistema». L'incongruità del dispositivo aveva come retroterra l'idea che la precisione delle norme è un'ubbia para-sovietica. Altro che monopolio dell'informazione: secondo le boutade di Berlusconi l'anomalia era data eventualmente da una corporazione giornalistica «all'85 per cento di sinistra». La libertà di informazione semmai era garantita dalla generosità garantista e masochista del Cavaliere, destinato sempre a soffrire per la malevolenza altrui. Il rinvio deciso da Carlo Azeglio Ciampi, tutto centrato su circostanziate questioni giuridiche, ha fatto piazza pulita di queste dissimulazioni esistenzial-paternalistiche. Sotto il profilo costituzionale, i berlusconiani avevano scritto una legge beffa; il Quirinale ha fatto sul serio. Quanto alla Corte, ha incenerito l'altro caposaldo della politica del patron di Forza Italia, per l'appunto il lodo, mostrando che un conto sono le fondamenta dell'eguaglianza fra i cittadini, e un altro sono le trovate appiccicose per impedire un processo. Basterebbero questi due eventi giuridici, garantiti dalla tenuta delle istituzioni, per sgretolare gran parte dell'impianto populista del berlusconismo. Ovvero ciò che è stato proposto all'opinione pubblica come una verità inoppugnabile: il giacobinismo della magistratura "comunista", con il vincitore delle elezioni sottoposto all'attacco giustizialista e assolto invece per verdetto del popolo dal conflitto d'interessi e dalle imputazioni penali. Il fatto è che si può cercare di modellare l'intelaiatura istituzionale a proprio uso e consumo, ma neppure l'ottimismo berlusconiano poteva pensare che le istituzioni fossero e restassero materia inerte. Anzi, è lo stesso sistema delle garanzie che contiene gli anticorpi alle effrazioni. La legge sulle rogatorie non è riuscita nel suo intento primario, vale a dire a bloccare le rogatorie stesse. La legge Cirami sul legittimo sospetto non è riuscita nell'intento di togliere al tribunale di Milano il processo a Cesare Previti. Tanto che a suo tempo, di fronte a una pronuncia della Cassazione diametralmente opposta alle aspettative previtiane, non mancarono gli attacchi contro una giustizia politicizzata anche ai massimi livelli (per qualche giorno, la Corte di cassazione, prima dipinta come culla del diritto, divenne un covo di nemici della democrazia liberale). Giorni neri, dunque, e clima fosco. In primo luogo perché la doppietta del Quirinale e della Consulta fa precipitare a zero la qualità tecnica della legislazione del centro-destra. Ma subito dopo perché sembra difficile che la Casa delle libertà possa innescare in nome del popolo una polemica distruttiva contro la Corte costituzionale. Certo, erano state durissime le valutazioni formulate dal quotidiano di Giuliano Ferrara il giorno prima della sentenza, quasi a esorcizzare preventivamente un responso negativo. Secondo "il Foglio", la bocciatura del lodo sarebbe stata l'esito nefasto di una Corte «scalfarizzata» (nel senso di Oscar Luigi Scalfaro); in caso di rigetto, «la vera crisi... investirebbe l'autorevolezza e la credibilità dei poteri neutri, del massimo tra di essi», fino a coinvolgere nello smacco anche Ciampi, che il lodo lo aveva firmato. Si vedrà se questa è la linea ufficiale. Ma per aggredire la Corte costituzionale, ancorché "scalfarizzata", e magari per procedere poi a una riforma unilaterale della giustizia ci vorrebbe una coalizione intimamente coesa e solidale. Mentre oggi Berlusconi, reduce dal fiasco del semestre europeo, fronteggia un'alleanza in tensione, con Gianfranco Fini che insiste sulla verifica, l'Udc che vuole il riequilibrio, Bossi che addita il «tradimento» antifederalista di Fini, Maroni che riscopre il baratto come forma moderna di transazione politica subordinando la riforma delle pensioni all'approvazione del federalismo. Sullo sfondo, tensioni sociali, scioperi nei servizi pubblici, inflazione incontrollata, economia stagnante, e il caso Parmalat che fa da spauracchio ai risparmiatori. Senza dire di un ciclo elettorale lunghissimo, a partire dalle europee, capace di ridurre all'inconcludenza anche governi più incisivi del governo Berlusconi. In queste condizioni, tentare un nuovo sfondamento populista sembra un'ipotesi altamente problematica. Simmetricamente, da parte del centro-sinistra non è più tempo neanche di derive "giustizialiste". Berlusconi farà tutti gli ostruzionismi possibili al suo nuovo processo, ma intanto la legislatura cambia fase. Alla fine il Cavaliere sarà obbligato a chiedere agli elettori un giudizio sui risultati del suo governo. Niente più trucchi istituzionali. Niente leggi ad personam vendute per civiltà europea. Pochi sogni e promesse di miracoli. Per il Berlusconi dei giorni neri, dopo quasi tre anni di interessi privati in forma di leggi si avvicina insidiosamente l'ora della politica. E la politica ha ragioni che il populismo non sempre conosce.
L'Espresso, 29/01/2004
Aspettando il Salvatore
Ma il re taumaturgo dov'è, che fa, che cosa progetta? Il popolo di Berlusconia è ansioso, perché nonostante i venghino-signori-venghino dei banditori («Abbiamo fatto migliaia di leggi!», «Il governo è in grande anticipo sul programma!») la legislatura del centro-destra sembra una nemesi dorotea. E quindi ci vuole la grande rentrée del Capo: per il momento va bene la cerimonia per l'anniversario di Forza Italia all'Eur. Ma dopo la celebrazione dell'Evento, con gli animi corroborati, l'Italia forzista ha bisogno di nuove iniezioni di entusiasmo e di rabbia, di combattività e di rancore. Certo, anche di rancore. È il caso di ritrovare un nemico. Negli ultimi tempi l'emotività forzista si è appiattita. Si sa, stare al governo è più faticoso che fare opposizione. La polemica contro "le sinistre" è stata delegata ai gregari Bondi e Schifani, tanto che anche il pueblo azzurro sente odore di scontato. L'attacco contro Antonio Fazio è una iniziativa estemporanea, oltretutto rivolta all'uomo che aveva acclamato il miracolo dietro l'angolo. Prodi se ne sta a Bruxelles, dopo avere assistito senza batter ciglio all'incedere del premier verso il fiasco europeo. L'establishment tradizionalista induce i suoi commentatori a scrivere sul "Corriere" che ormai il governo è fuori tempo massimo. Occorrono i nemici altrimenti il popolo forzista si deprime. Aveva sperato nell'abbattimento delle tasse e ora deve accontentarsi, deglutendo amaro, che «non le abbiamo aumentate». Doveva vedere alzarsi i cantieri delle grandi opere, ma Lunardi arranca. Quanto alla ripresa, stendiamo un velo. Si sono visti show neoclassici a Pratica di Mare, summit internazionali nei weekend sardi, ma agli elettori medi di Forza Italia della politica estera non importa nulla. La borghesia chiamata a raccolta dieci anni fa ha bisogno che Berlusconi trasformi davvero l'Italia in una fiera del consumo. Altro che oboli ai pensionati, con l'occhio liquido di commozione per i nuovi poveri: ci vuole un'economia furibonda, la crescita ruggente, i soldi che viaggiano, le briciole che cadono. Altrimenti, che gusto c'è? Le riforme costituzionali sono fisime di Palazzo, che la sciura e il ragioniere, il commercialista e il promotore considerano faccende da azzeccagarbugli. Se il problema fosse tutto lì, meglio Bossi, allora. Secessione senza tante balle. E il Sud se lo prenda Fini. Quindi l'elettorato di Forza Italia guarda al Cavaliere sperando ansiosamente che Lui riesca in un'invenzione fulminea, un gesto imperiale che trasformi la stagflazione in una crescita squillante, che spazzi via il grigiore invernale e apra un fantastico squarcio di azzurro nei cieli della Patria. E se alla fine si capisse che neanche Berlusconi ha il dono dell'onnipotenza? Che si può fare il lifting alle palpebre, ma intanto il paese ha fatto la liposuzione in vita, e deve tenere stretta la cintura? Eccolo qui il problema teologico dell'Italia di Forza Italia: fino a quando si può continuare a credere alla divinità del Salvatore, in assenza di miracoli? L'Italia berlusconizzata dalla tv deve scommettere se il re taumaturgo riuscirà davvero a guarire il paese scrofoloso. Ma se il miracolo latita, il popolo di fede berlusconiana non comincerà a sentire un accenno di languore dentro di sé, uno struggimento infastidito, l'indizio ancora inconfessato del cattivo umore politico? Ma no, via i brutti pensieri: il ritorno del sovrano sarà come un soffio d'aria fresca. Parlerà della libertà, di dieci anni di battaglie, della sua, e loro, impresa storica. Accidenti, anche per gli adoratori di Berlusconi sono passati dieci anni. Si invecchia, purtroppo. Il Cavaliere si tira gli occhi. Il suo popolo proverà a credergli ancora una volta, rifacendosi a sua volta gli occhi con lo spettacolo azzurro: e cercando di superare ancora una volta lo scetticismo portato da quella malattia così poco politica che è l'età.
L'Espresso, 12/02/2004
Risiko Confindustria
Lo scandalo Parmalat (Argentina, Cirio, Finmatica e dintorni) è qualcosa di esplosivo non soltanto per la folla anonima dei risparmiatori. Nel film del "mercato che fallisce" per fisiologia economica o illegalità distruttiva, non c'è una comoda distinzione fra buoni e cattivi. Va messa a fuoco piuttosto una fortissima responsabilità dell'establishment economico e istituzionale, chiamato a dare una prova di credibilità. Ciò significa che i vertici delle istituzioni economiche e di controllo sono chiamati a una scommessa pesante, su cui si gioca gran parte del futuro italiano. Finora l'orizzonte si delinea problematico, se è vero che è stato dominato dallo scontro inusitato fra Banca d'Italia e ministero dell'Economia. Il settore bancario deve dimostrare di essere capace di stare sul mercato, facendo dimenticare l'euforia pasticciona con cui gli sportelli hanno indotto i risparmiatori a giocarsi il gruzzolo. I vertici dell'imprenditoria devono dare una dimostrazione di affidabilità, dato che malgrado le rassicurazioni il caso Parmalat getta inevitabilmente una luce sinistra sulla governance societaria all'italiana. In queste condizioni, anche la corsa per la presidenza della Confindustria cambia segno: non è più infatti un gioco di potere, un risiko politicamente stressato e spettacolare come non mai. Può diventare un'ordalia per due candidati il cui profilo non è comparabile, Montezemolo e Tognana, ma i cui sostenitori sono divisi da un'avversione teologica e talora da una propensione entusiastica alla compilazione di dossier. Mentre la posta in gioco, meno plateale ma molto sostanziale, è il ruolo pubblico di un intero ceto che in questi ultimi anni si è autodipinto come avanguardia sociale e politica, e che oggi, di fronte allo sbandamento generale post-Parmalat, deve rifarsi il look: e magari trasmettere l'idea di un'imprenditorialità un po' meno sbrigativa, un po' meno saccente, anche un po' più prudente rispetto al mito della crescita pagata dai soliti altri.