LA STAMPA
LA STAMPA, 29.01.1998, SOCIETA' E CULTURA
SARTORI E L’AUDITEL ANALFABETA
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LA STAMPA, 26.01.1998
L’OMBRA DEL CASO MORO
Sembra che talvolta nella vicenda italiana scatti come una maledizione l'istante in cui un individuo deve scegliere fra la propria salvezza personale e il sistema di lealtà in cui era inserito. Ieri è stato il caso di Giuseppe Soffiantini, i cui sequestratori hanno fatto giungere al Tg5 non uno soltanto, ma contemporaneamente due messaggi. Il primo messaggio, brutale, consisteva nel lembo dell'orecchio destro del rapito. Il secondo messaggio va letto nelle parole scritte da Soffiantini. Dalle quali si capisce che il sequestrato chiede alla sua famiglia di pagare il riscatto abbandonando ogni esitazione e superando gli ostacoli frapposti dalle autorità investigative, dai magistrati, insomma dalle istituzioni. Fino a minacciare di «chiedere i danni» a chi ha impedito la sua liberazione. Non è la prima volta che accade. Vent'anni fa toccò in sorte ad Aldo Moro. Anche allora si crearono due fronti contrapposti, quello della fermezza e quello della trattativa; le lettere consegnate ai giornali diventarono gli strumenti con cui l'uomo politico cercava di impostare la trattativa per la propria salvezza, mentre i suoi sequestratori cercavano di manipolare l'informazione a proprio vantaggio. Se spogliamo i due casi di ogni connotato politico, rimane soltanto il dilemma di un essere umano che si trova al centro di un tragico conflitto fra la regola e l'eccezione. La regola esige il rispetto della legge, che impone il divieto di trattare con i sequestratori. L'eccezione implica il sopravvento di un impulso di umanità. Un punto d'incontro sembra impossibile. Tuttavia è il caso di valutare attentamente i due messaggi di ieri. Perché l'uno è certamente rivolto ai famigliari, affinché si diano da fare alla svelta. Mentre l'altro è rivolto all'opinione pubblica, serve a suscitare ondate di emotività. Ancora una volta, non c'è soluzione di continuità fra il privato e il pubblico, cioè il politico. E ancora una volta i sequestratori lo hanno intuito. Bisogna vedere se lo hanno compreso le istituzioni. Sappiamo tutti che l'effetto dissuasivo della legislazione sui sequestri di persona è garantito soltanto dalla regolarità con cui la legge viene applicata. Ma fino a un limite di umanità e di ragionevolezza. Soffiantini parla di ipocrisia: diciamo che non di rado la fermezza ostentata non ha nascosto la cedevolezza clandestina, e l'arrendevolezza sottaciuta ha mitigato uno scacco insostenibile. Sui sequestri di persona abbiamo già rischiato qualche mese fa di vedere nascere in politica il partito della trattativa: e allora, vale davvero la pena considerare equivalenti il privato e il pubblico, fino a provocare un cortocircuito di sfiducia nelle istituzioni? È ancora il caso di praticare su Soffiantini e la sua famiglia quell'accanimento giuridico che sembra avere già valicato da tempo la soglia di ciò che è umano, ragionevole e comprensibile sotto il profilo pubblico, cioè politico?
LA STAMPA, 19.01.1998
LA STORIA ALLE SPALLE DI D’ALEMA
Il Pds vive malvolentieri il dibattito sul comunismo. I decenni denudano la storia dai travestimenti, il tempo riduce l'ideologia a una tragica mascheratura intellettuale. Sembra impossibile addirittura spiegare perché qualcuno in essa ha creduto, e ha continuato a crederci anche quando la fede si era rivelata un terribile errore o un calcolo feroce. Anche Massimo D'Alema, nella sterminata lettera pubblicata ieri sull'Unità, sembra confessare la propria incredulità per avere creduto: «Io stesso mi sono chiesto che cosa legasse ancora uno che, trovandosi a Praga il giorno dei carri sovietici, aveva ritenuto naturale scendere in piazza a gridare e a protestare, con quelli - i sovietici - che i carri ce li avevano mandati». Il testo di D'Alema ha l'aspetto di una relazione congressuale. La parte relativa a «i nostri conti con il comunismo» rappresenta la parte finale (breve, in proporzione) di un'ampio svolgimento in cui il segretario rivendica il ruolo cruciale del Pds nella transizione dal 1992 a oggi, la sua politica di alleanze, i risultati raggiunti dal governo, i progetti di riforma costituzionale. Come gli accade sempre, D'Alema è convincente quasi su tutto. Tranne che nello spiegare perché i comunisti italiani, con tutte le loro specificità, le loro riserve antisovietiche, la loro conclamata italianità, hanno mancato giusto di trent'anni l'appuntamento con la revisione di Bad Godesberg. Non si tratta solo di una questione storica. Non c'è di mezzo soltanto un giudizio a posteriori sull'esperienza politica del Pci. E il punto decisivo non consiste soltanto nel richiedere al segretario del Pds di spiegare come mai nell'élite del partito la reincarnazione di una parte maggioritaria del Pci nel Pds è avvenuta senza troppi drammi politici. Se si trattasse soltanto di descrivere come è avvenuto il passaggio da una forza come il Pci, ispirata da una delle maggiori religioni della modernità, a un partito come il Pds, dalla fisionomia e dal programma stiracchiati in modo piuttosto postmoderno, il compito probabilmente sarebbe interessante solo come pratica storiografica. Ma il fatto è che l'identità del Pds non è un problema di storia, bensì una questione politica, che agisce qui e ora, e che limita notevolmente le potenzialità del Pds, gettando una luce piuttosto incerta tanto sull'evoluzione della sinistra italiana quanto sulla stabilità dell'assetto politico attuale. Perché malgrado tutto il Pds è un partito che non riesce a sfondare: malgrado l'abilità tattica di D'Alema, nonostante lo storico radicamento nel territorio, nonostante il potere effettivamente conquistato al centro e sul piano locale. Anzi, c'è la sensazione che le dimensioni del partito siano stabilizzate. Perché l'Ulivo va bene, ma il Pds va malino: il centrosinistra guadagna consenso capitalizzando l'effetto Euro, mentre il partito di D'Alema sembra destinato a restare un «partito del ventun per cento»: forse il maggiore partito italiano, almeno nelle condizioni attuali, ma un partito incapace di esprimere un indirizzo maggioritario alla coalizione di cui fa parte, un orientamento politico di guida, se si vuole un'egemonia politico-culturale. Diagnosi pregiudiziale? Già, e allora perché tutti questi affanni per evocare un ectoplasma come la «Cosa 2», cioè la fumosa ipotesi di un partito capace di attrarre altre culture politiche? Se il Pds fosse davvero competitivo non si annuncerebbero stati generali della sinistra, né fasi politiche costituenti. D'Alema e lo staff pidiessino hanno il diritto di giudicare una forzatura imputare l'incompleto potenziale politico del Pds al suo passato e al modo in cui da questo passato il Pds è uscito. Ma il passato conta: conta per An, che ha raggiunto i suoi limiti fisiologici mentre sembrava lanciata verso chissà quali successi, e conta anche per il Pds. La sua trasformazione era avvenuta con la benevolenza della classe intellettuale, favorevolmente orientata verso questa metempsicosi. Ora la polemica degli intellettuali non fa che mettere allo scoperto ciò che molti elettori per conto loro hanno continuato a pensare del Pds: cioè che la storia da cui viene il partito di D'Alema non è una storia di cui essere orgogliosi. Per questo, il Pds è legittimato soprattutto dagli alleati. Può essere una parte di una coalizione. Ma non ha ancora la patente di fiducia necessaria per correre da solo.
LA STAMPA, 11.01.1998
L’ABBOZZO DI UN METODO
L'apertura dell'anno giudiziario è l'occasione in cui il procuratore generale della Cassazione seppellisce sotto palate di pessimi numeri la situazione della giustizia. Processi interminabili, reati non perseguiti, responsabilità non individuate. Ieri, tuttavia, il procuratore Ferdinando Zucconi Galli Fonseca non si è limitato a formulare una diagnosi infausta. Ha proposto invece anche alcune linee di una soluzione «riformista», indicando empiricamente alcuni obiettivi e qualche strumento per approssimare una condizione migliore della giustizia italiana. Forse ha anche indicato qualcosa di più: l'abbozzo di un metodo. È utile sottolineare parola per parola le mete auspicate: cioè la fine della «durata intollerabile dei processi», una magistratura «che svolge nel silenzio il suo ruolo di pacificazione», senza populismi e politicizzazioni, il bando ai «processi anticipati» celebrati in tv e sui giornali, tutto questo in modo che i cittadini riacquistino verso la giustizia «la fiducia che avevano smarrito». Basta l'elencazione di questi obiettivi per mostrare con crudezza la gravità della situazione corrente. Al punto che non è affatto esagerata la diagnosi secondo cui dal punto di vista della giustizia il nostro non è un paese a tutti gli effetti europeo. Convenzionale pessimismo di ogni anno? In realtà, secondo il procuratore della Cassazione è possibile tracciare alcune direttrici che orientino verso una giustizia più efficace. Sembra di notare infatti nelle sue parole una specie di «possibilismo»: non ci sono rifiuti o scomuniche a priori sulle ipotesi di riforma della magistratura, anzi, viene più volte espresso l'augurio che le innovazioni costituzionali e le riforme processuali possano avere un effetto migliorativo. Lascia quindi il segno, il discorso di Galli Fonseca, perché non contiene unzioni corporative, e non esprime gelosie settoriali rispetto alla politica. Il procuratore non esita a segnalare «la scompostezza e l'inopportunità di alcune esternazioni di singoli magistrati, i quali vorrebbero porsi come interlocutori diretti dell'opinione pubblica». Esamina e discute le riforme progettate dalla Bicamerale senza mai eccepire integralisticamente alle scelte formulate dai costituenti: è - per fortuna - il frutto di una visione «laica» della giustizia, senza fondamentalismi e senza arroccamenti particolaristici. Se la giustizia nelle società moderne ha la tendenza a oscillare di continuo fra potere e funzione, si ha l'impressione che il procuratore generale della Cassazione ne colga soprattutto l'aspetto funzionale, lasciando da parte solennità liturgiche e dignità castali. Nelle parole del procuratore si prospetta una giustizia pragmatica, «semplice e rapida», che deve fare i conti con i grandi numeri, con tre milioni di reati denunciati ogni anno. Ecco allora che bisogna collocare le idee e le proposte di Galli Fonseca su questo sfondo di pragmatismo per comprenderne adeguatamente anche la proposta più inattesa, quella riguardante l'introduzione della somministrazione controllata della droga ai tossicodipendenti. È possibile che l'idea verrà discussa con toni accalorati, e che si facciano sentire soprattutto le convinzioni pregiudiziali. Ma l'ipotesi suggerita dal procuratore generale dovrebbe invece essere discussa con molta attenzione. Intanto perché viene formulata da un magistrato di lunga esperienza, esponente di una cultura aliena dagli estremismi. E subito dopo perché ripropone nella discussione pubblica un tema su cui finora si sono sentite soprattutto le campane di chi sostiene opposti ideologismi: i «proibizionisti», che puntano sulla repressione del traffico di droga e sul recupero dei singoli tossicodipendenti; i «liberalizzatori», secondo i quali il libero commercio delle droghe pesanti libererebbe d'incanto le società avanzate dalla criminalità grande e piccola legata alla realtà della droga. La proposta di Galli Fonseca mette in luce che il mondo non è una sequenza in bianco e nero ma una eterna successione di grigi. Così come la separazione delle carriere non è, o non dovrebbe essere, un tema di ortodossia politico-dottrinaria, così anche la politica giudiziaria contro la droga può contemplare pluralità di strumenti e gradualità di applicazioni. Se si tratta di trovare un punto in cui spezzare la catena dell'illegalità, sono benemeriti coloro che intervengono alla fine della catena, raccogliendo e confortando un individuo prostrato dall'eroina, ma si può anche tentare di intervenire prima, modulando in modo opportuno repressione e sostegno. L'unica precauzione raccomandabile, in ogni caso, è quella di non fissarsi sulle posizioni preconcette. Visto che ci si può dividere fra il partito dei giudici e il partito degli antigiudici, fra il partito della somatostatina e quello della chemioterapia, ci si potrà anche dividere pro o contro la somministrazione controllata della droga. Ma sarebbe opportuno che comunque, su questo tema come sugli altri sollevati da Galli Fonseca, si tenessero in considerazione gli obiettivi da raggiungere e non i dogmi da onorare.
LA STAMPA, 07.01.1998
L’EUROPA COME CAMPO DI BATTAGLIA
L'Unione europea ha la caratteristica infallibile di apparire un congegno perfetto quando c'è bonaccia e di tramutarsi in un campo di battaglia non appena il mare si increspa. Ieri il commissario europeo Emma Bonino ha ricordato piuttosto aspramente che l'Italia «chiama l'Europa solo quando abbiamo dei problemi», siano le quote latte, gli albanesi o i curdi. Il fatto è che l'arrivo dei curdi appare sotto fisionomie diverse a seconda del punto da cui lo si guarda. Per gli italiani è una delle consuete emergenze, prima sottovalutate, poi nevrotizzate, infine proiettate su una dimensione superiore e più ampia, quella europea, come per sgravarsi la coscienza e demandare ad altri le soluzioni. Per i tedeschi, o almeno per il ministro degli interni Manfred Kanther, le emergenze italiane sono la conferma della fragilità dell'Unione, della inquietante permeabilità dei confini meridionali e dell'inaffidabilità dell'Italia come sottoscrittrice di ogni tipo di trattati. Seguono inevitabili consultazioni telefoniche di Kohl con Prodi e Jospin. Ma ha ragione la Bonino, il problema non sono i curdi, non c'è un'invasione, non siamo di fronte a un esodo biblico. C'è piuttosto una questione di affidabilità europea, sulla quale noi tradizionalmente siamo piuttosto scoperti, e di fiducia nei partner europei, sulla quale sono invece i tedeschi a mostrare sospettosità e retropensieri molto più eloquenti delle dichiarazioni ufficiali. Alla diffidenza tedesca non porranno rimedio le assicurazioni di Veltroni secondo cui l'Italia «non è un paese di passaggio»: si capisce benissimo che ciò che i tedeschi temono è proprio il lassismo italiano per profughi che comunque se ne andranno a Nord. Ma il codice di affidabilità europea dovrebbe funzionare a trecentosessanta gradi. Sarà pure lecito ricordare che il nostro paese ha raggiunto un risultato, con l'abbattimento del deficit pubblico, che assume un profilo «storico». Sarà il 2,7 per cento sul Pil, sarà un decimale in più: resta il fatto che l'Italia ha conseguito un risultato che anche i più ottimisti giudicavano molto problematico, mentre la Germania, secondo l'istituto berlinese di ricerca Diw, sfora il parametro e non di un'inezia (3,3 per cento). Chi pensa che l'obiettivo del fabbisogno al 3 per cento sia stato ottenuto soprattutto con artifici contabili, non dovrebbe dimenticare che la Germania si è inventata una finanza creativa molto italian style (rivalutazione delle riserve auree, vendita delle riserve petrolifere, non ripianamento dei debiti degli ospedali). Chi sostiene che il risanamento della finanza pubblica italiana è riuscito in termini di grandezze macroeconomiche ma è fallito sulle riforme strutturali del welfare, dovrebbe tuttavia mettere sull'altro piatto della bilancia che la prestazione complessiva del paese è stata stupefacente. Non è accaduto molte volte infatti che l'Italia si vedesse indicare da un governo un obiettivo preciso, e su questo obiettivo sia riuscita a convergere con puntualità ed efficacia. La società del nostro paese si è accollata un peso fiscale più elevato, ha pagato senza proteste l'Eurotassa, ha mantenuto competitività industriale, e adesso sembra finalmente avere acchiappato la scia della ripresa economica. In altri momenti si sarebbe evocato lo Stellone, o la capacità di alcuni segmenti della collettività di supplire alle deficienze di altri. Ma adesso sembra più appropriato parlare di uno sforzo condiviso e guidato, di cui sono state consapevoli le élites ma anche, si direbbe, la società italiana nel suo insieme, capace di spremere le proprie risorse in modo inaspettato. Osservando allora la prestazione tedesca sui conti pubblici, sarà elegante non fare ironie su quel virgola 3 di eccesso, e nemmeno cedere alla tentazione di ricordare gli arricciamenti di naso di politici e banchieri a proposito del miracolo contabile italiano e della sua qualità. Sarà meglio riflettere piuttosto sulle difficoltà che un grande paese europeo si trova ad affrontare per ristrutturare il suo modello politico-economico, e assimilare l'idea che la partita europea non si vince pretendendo di giocare in proprio. Non c'è più spazio per i provincialismi, non si può - di nuovo ha ragione la Bonino - «essere un paese che subisce con entusiasmo ciò che succede ma difficilmente sa usare le procedure nei tempi e nei luoghi appropriati». Tutto vero, a patto però che le critiche e i confronti avvengano su un piano di parità e di imparzialità effettiva: perché non è bene che qualcuno risulti meno europeo di altri rispetto ai curdi, ma nemmeno che qualcun altro si consideri più europeo degli altri malgrado il livello del deficit.
LA STAMPA, 29.12.1996, SOCIETA' E CULTURA
SACCHI GUERRIERO UGUALITARIO
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LA STAMPA, 24.12.1996, SOCIETA' E CULTURA
SOLDI CADE L’ULTIMO TABU’
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LA STAMPA, 23.12.1996
LA FINE DELLA POLITICA NEUTRALE
Quale che sia il risultato a cui porterà, l'intervento del ministro Treu nella controversia sul contratto dei metalmeccanici è una delle prove risolutive della fine prematura del modello «concertativo» su cui era stato costituito il governo Prodi. Naturalmente non occorreva attendere l'iniziativa del ministro del lavoro per individuare l'esaurimento dello schema consensuale nella gestione della politica economica. I recenti scontri tra il presidente della Confindustria Fossa e il governo avevano già mostrato l'emergere di un rapporto altamente conflittuale fra settori imprenditoriali ed esecutivo. Il contratto dei metalmeccanici tuttavia ha messo bruscamente allo scoperto che la figura geometrica a tre lati (composta da governo, sindacati, industriali) su cui doveva reggersi l'equilibrio politico e sociale garantito dal governo dell'Ulivo non è più un equilatero, ma si è deformata in un triangolo scaleno. I lati insomma sono diventati di lunghezza diversa. Se non fosse così, non si sarebbe avuto un intervento come quello di Treu, preoccupato di suggerire anche il dettaglio degli aumenti salariari (duecentomila lire mensili). Entro una prospettiva accettata di politica disinflazionistica, il governo avrebbe potuto indicare semplicemente il quadro delle compatibilità economiche, stimolando le parti a chiudere il contratto entro le compatibilità stesse. Con l'ingresso nella contrattazione, e con l'indicazione per l'accordo di una cifra assai più vicina a quella chiesta dal sindacato che non a quella dichiarata accettabile dalla Federmeccanica, l'esecutivo ha semplicemente dato la prova ulteriore di non essere in una posizione terza, e meno che mai in una posizione neutrale. Non sarebbe un gran male, perlomeno nel senso che la presa di posizione governativa sgombra il campo da numerosi equivoci. Adesso si sa che il governo di centrosinistra si avvia a consolidarsi come un governo dai comportamenti esplicitamente «socialdemocratici». È un esito per molti versi naturale, se non fosse che è stato raggiunto in modo caotico. Il centrosinistra infatti aveva ottenuto il mandato a governare presentandosi come un migliore gestore dei conflitti sociali, come il depositario di una superiore sapienza e prudenza nella regolazione degli interessi economici. Ora invece la maggioranza è costretta ad abbandonare gli abbellimenti retorici. Si trova nella condizione di dover governare il paese da sinistra. E questa ricollocazione dell'esecutivo non è avvenuta sulla base di precise ispirazioni programmatiche, bensì in seguito alle continue compromissioni imposte da Rifondazione comunista. Non è affatto un caso che Fausto Bertinotti sia diventato il protagonista assoluto e spettacolare della trattativa sul contratto dei metalmeccanici, costringendo anche Massimo D'Alema a rincorrerlo e a incalzare il governo per proporre una soluzione. Tutto questo comporta conseguenze piuttosto ragguardevoli. Perché nulla in teoria vieta che un governo di sinistra sia in grado di produrre una politica di sviluppo economico e di incentivo alle imprese, offrendo quindi anche al mondo imprenditoriale una sponda eficace. È difficile, specialmente in un periodo di stagnazione e di vincoli crescenti, ma non impossibile, soprattutto se questa sponda è fatta di realismo e prevedibilità dei comportamenti. Invece la situazione attuale appare pochissimo prevedibile. La questione sociale, di cui la controversia sul contratto dei metalmeccanici è un aspetto, ha cominciato a mischiarsi con la questione politica. Ciò significa che l'accordo fra parti private, imprenditori e sindacato, sarà il frutto di un accordo parallelo fra parti politiche appartenenti alla stessa maggioranza. Il rischio principale è che questo modello si replichi all'infinito, conferendo non solo alle relazioni industriali un inconfondibile sapore di anni Settanta. E chi rischia di più in questa prospettiva è proprio l'azionista di riferimento del governo, cioè Massimo D'Alema. Il quale nell'ultima settimana ha puntato a due obiettivi di notevole rilievo. Prima infatti ha cercato di proporsi come l'autentico perno del centrosinistra, prospettando un contenuto «egemonico» del Pds fino al centro dello schieramento politico. E subito dopo, con un eloquente discorso alla Camera sul tema del finanziamento dei partiti, ha rivendicato, prima ancora che il primato, la dignità della politica, candidandosi implicitamente come perno centrale dell'intero sistema politico italiano. Per il profilo a cui D'Alema ambisce, quello cioè di un uomo politico che non nasconde le sue ambizioni di leader di parte ma neppure quelle di interlocutore per tutto il paese, dev'essere molto insoddisfacente osservare l'andamento convulso, e in definitiva poco razionale, che l'azione di governo assume allorché mette il dito fra posizioni conflittuali. Con ogni probabilità l'immagine del governo, in quanto governo di sinistra, non è più modificabile. Si tratta però di farla diventare un'immagine affidabile, coerente, non la somma di due fisionomie (cioè di due sinistre) incompatibili. D'Alema si è assunto il compito del grande razionalizzatore di sistema, lavorando con pazienza e determinazione per l'avvio delle riforme istituzionali. Ma nello stesso tempo deve razionalizzare politicamente il centrosinistra, che è un'operazione apparentemente più limitata ma probabilmente perfino più difficile. Altrimenti, dissoltosi tristemente il triangolo della concertazione, rimarrebbe intatto il triangolo con Prodi e Bertinotti. E neppure un uomo politico abile come il capo del Pds può pensare di offrire una prospettiva di governo e di sviluppo al paese basandosi su una serie continua di infedeltà e sui poco brillanti compromessi successivi.
LA STAMPA, 16.12.1996
DIETRO IL FOLCLORE LA POLITICA
Il congresso di Rifondazione comunista si è chiuso con la conferma che il partito di Bertinotti non è disponibile a recitare una parte subalterna nella sinistra. Inutile dire che fa una certa impressione assistere allo spettacolo di una platea di partito che rivendica insieme al suo leader la propria irriducibilità all'omologazione socialdemocratica, alla logica del capitalismo e al funzionamento del mercato. Bertinotti insomma è l'ultimo esponente che reclama politicamente un'alternativa di sistema, e i militanti di Rifondazione sono una tribù residuale felice della propria diversità. Ma questa iconografia di un partito legato a mitologie tardomarxiste e a romanticismi castristi rischia di fissare un'immagine di comodo. Com'è avvenuto infatti durante questo congresso, che in genere è stato accolto dall'informazione soprattutto nel senso del folclore politico. C'è da dire, piuttosto, che Bertinotti e Rifondazione fanno effettivamente politica, qui e ora. Innanzitutto si va sempre più chiarendo il loro ruolo esplicitamente concorrenziale rispetto al Pds. Il partito neocomunista sarà pure un semplice «indicatore del disagio sociale», come ebbe a dire il ministro Andreatta, cioè un raccoglitore di tutti i tipi di insofferenza verso i partiti, gli schieramenti, i provvedimenti economici. Ma in realtà il consenso raccolto per le ragioni più diverse nella società, non esente da coloriture populiste, viene poi speso politicamente dal vertice del partito in modo lineare, e comunque in funzione fortemente competitiva rispetto a D'Alema. Rifondazione è in crescita nell'opinione pubblica, in quanto può permettersi di rastrellare pressoché tutte le manifestazioni di dissenso e di malessere. Bertinotti poi produce una sua sintesi spettacolare, che gli permette perfino di lanciare al Pds la «sfida per l'egemonia». Dovrebbe essere chiaro che nel lungo periodo Bertinotti non ha speranze, e che il destino della sinistra è quello di trovare un equilibrio che le permetta di proporsi nella sua interezza come soggetto di governo, e non come espressione di antagonismo. Ma nel frattempo Rifondazione può giocare suggestivamente le sue carte, proponendosi come il massimo portatore di contestazione rispetto all'ordine esistente, ma anche come il principale custode della conservazione per ciò che riguarda ad esempio l'assetto costituzionale, e sul piano economico come il garante dello stato sociale, vizi assistenzialistici e corporativi compresi. Proprio per questa combinazione di antagonismo e di conservazione, di rivoluzione e di keynesismo sgangherato, di scontro sociale e di tutela collettiva, Rifondazione comunista è un partito autenticamente postmoderno. Ma dalla sua postmodernità può permettersi di dare la propria impronta a un governo a cui non partecipa (e rispetto al quale ribadisce che vuole tenere le mani completamente libere). Sta di fatto comunque che il governo dell'Ulivo è gradatamente diventato «il governo dell'Ulivo più Rifondazione», e quello che nasceva da una mediazione politica di centrosinistra è diventato sempre più marcatamente un governo «di sinistra». Ogni volta che si chiede a Romano Prodi quale sia stato il peso di Rifondazione nelle decisioni del governo, il presidente del consiglio non nasconde la sua irritazione e nega ogni cedimento. Ma in realtà il compromesso con Bertinotti c'è stato, ed è stato un compromesso continuo. È sbagliato parlare di un «ricatto» complessivo di Rifondazione comunista nei confronti del governo, mentre non è affatto sbagliato parlare di ricatti, al plurale, gestiti politicamente da Bertinotti con l'obiettivo di portare a casa risultati politici. Questo compromesso ha fatto sì che Rifondazione comunista, che predicava una virulenta posizione anti-maastrichtiana, abbia accettato integralmente la prospettiva europea; in cambio ha ottenuto una politica di riaggiustamento praticata con un sensibile incremento del peso fiscale, cioè con le tasse progressive che al segretario di Rifondazione piacciono quasi quanto gli scioperi. Quindi l'«impolitico» Bertinotti, l'apocalittico in versione tv, in realtà non è affatto impolitico. Si muove dalla sua posizione estrema per condizionare il governo e per rivendicare pubblicamente questo condizionamento come un risultato conseguito attraverso la lotta politica. Dopo di che, ciò che risulta curioso è che in questi mesi si sia assistito al delinearsi di un legame via via più forte fra Prodi e Rifondazione. Non è del tutto automatico individuare le ragioni di questa relazione preferenziale, perché è vero che in gran parte dipende dall'interesse contingente del presidente del consiglio, spesso desideroso di smarcarsi dal Pds. Ma al di là dei tatticismi, c'è anche da rilevare certe affinità, certe sensibilità comuni tra Rifondazione e gli «estremisti di centro» del Partito popolare, a cui nemmeno Prodi è insensibile. Sulle questioni istituzionali, come sulla riforma del welfare state, non c'è una distanza grandissima fra Rosy Bindi e Bertinotti. E Prodi amministra questa contiguità implicita nel proprio interesse politico, cercando così di riequilibrare il rapporto con il Pds. È un gioco pericoloso, perché giostrare fra gli opposti è il tipico modo per amministrare situazioni eccezionali, e non la normalità di cui ha bisogno il Pds per dimostrarsi a tutti gli effetti un moderno partito di governo. E quindi non c'è da stupirsi se il sorriso di Prodi al congresso di Rifondazione e la soddisfazione triofale di Bertinotti hanno come contraltare la freddezza di D'Alema, e se questo sentimento freddo vira non di rado verso l'insoddisfazione per il governo.