L’Espresso
L'Espresso, 16/12/2004
Il 27 gennaio è il giorno della verità per Silvio
Almeno adesso le cose sono più chiare. Sono finite le finzioni dorotee, la retorica furbesca del Termidoro, il Berlusconi che evoca l'apologo del "buon padre di famiglia" che deve fare i conti di casa limando le spese e cercando faticosamente di aumentare le entrate. Tutte storielle. Il capo di Forza Italia è uno squalo, non poteva rassegnarsi a essere un tonno. Si sa la fine che fanno i tonni. Ed ecco allora che il Cavaliere ha cambiato marcia di nuovo. Si era trovato invischiato nella ragnatela di Antonio Fazio e di Luca Cordero di Montezemolo, aveva dovuto accettare a malincuore i suggerimenti del suo ministro dell'Economia, Domenico Siniscalco, sull'opportunità di rinviare il taglio delle tasse. Ma era quello il Berlusconi vero, il Berlusconi "ridens", l'uomo dei blitzkrieg, il leader capace di mandare in deliquio i suoi fan? No, quello era una pallida imitazione. Un fantasma che aveva preso il posto del corpo reale. Era il Cavaliere allettato, nel senso di Gianni Letta, andreottian-style. C'è voluta tutta la forza di persuasione di Giuliano Ferrara, oltre un quintale e mezzo di determinazione intellettuale, ma alla fine il centrodestra ci è riuscito. Adesso il governo Berlusconi è il governo più estremista che l'Italia abbia avuto nella storia della Repubblica. Complimenti. Il radicalismo berlusconiano non è una novità. Il capo di Forza Italia aveva sempre nutrito certe voglie reaganiane e thatcheriane. Ma erano sempre sembrate inclinazioni un po' dilettantesche, tipiche del neofita della scienza economica. Invece adesso il Cavaliere si è convinto. Ha preso sul serio uno dei comandamenti di Giuliano Ferrara, e cioè che la strada della crescita verrebbe spianata dalla scelta di governare in deficit. Non si è minimamente curato delle smentite feroci che gli ha mandato in proposito dalle colonne del "Corriere della Sera" un economista prestigioso, Francesco Giavazzi. Adesso Berlusconi non è più un Berlusconi qualunque: è un Berlusconi ferrarizzato, trasferito sulle sponde dell'ideologia. Gassatissimo, superfrizzante, convinto della formula magica iper-neo- conservatrice secondo cui il taglio delle tasse è la premessa e il contenuto della rivoluzione antistatalista. In verità sembra piuttosto un ragionamento da bar, una tipica soluzione formidabilmente semplice a un problema infinitamente complesso. Nei bar se ne sentono spesso, di ricette simili. Si tagliano le tasse e, se proprio si devono tagliare le spese, tanto meglio. Meno spese e meno tasse vogliono dire un'amministrazione più efficiente, più libertà economica e meno burocrazia, imprese nazionali di nuovo dinamiche, investimenti stranieri attratti dal paese di Bengodi, in una meravigliosa catena di effetti spettacolari. Che si tratti di una visione o di un miraggio lo scopriremo presto. Certo, per adesso abbiamo di fronte una situazione diversa. Un taglio delle tasse risicato («È il primo passo», dicono a destra; risposta: crederemo che si tratti del primo passo quando avremo visto il secondo). Una copertura problematica. Una ideologizzazione estrema della Casa delle libertà, vicina alla "voo- doo economics" criticata a suo tempo da Paul Samuelson. I soldi che sbucano "by magic", direbbe Beniamino Andreatta. E nello stesso tempo il recupero di Giulio Tremonti, il superministro incredibilmente lasciato cadere da Berlusconi, uno scalpo offerto alla verifica e alla coppia allora insidiosa Fini-Follini. Nessuno sa qual è l'ideologia di Tremonti, salvo il fatto che è l'esponente più ideologico del centrodestra. Il suo ritorno, come uomo televisivo, comunicatore, vice di Berlusconi, è un marchio di garanzia. Sulla Casa delle libertà si imprimerà un marchio legaiol-populista, e anche colbertian-liberista. Una miscela da new economy del Terzo millennio, con la contraddizione incorporata, chissà quanto omogeneo con la visione semplicemente neoconservatrice di Berlusconi e del suo guru Ferrara. Funzionerà il fritto misto del nuovo Berlusconi? Prima di dire alcunché e al di là della sentenza del Tribunale di Milano, converrà aspettare il 27 gennaio 2005, quando negli stipendi si vedranno i primi effetti della riforma-simbolo del Cavaliere. Perché solo allora si potrà capire se i lavoratori dipendenti italiani avranno visto effettivamente un aumento dei soldi in busta paga. Può darsi di sì, e allora Berlusconi confermerà il recupero osservato nei sondaggi. Ma può darsi anche che non si veda praticamente niente, che l'aumento sia impercettibile. E allora anche tutta l'ideologia del Cavaliere si rileverà un bluff. E com'è noto i bluff scoperti e annullati possono diventare dei colossali boomerang.
L'Espresso, 26/12/2004
Anatomia in sala regia
La settimana scorsa Raisat Extra ha ripetutamente mandato in onda la registrazione di una "Lezione di anatomia (televisiva)" tenuta al Policlinico Gemelli di Roma, rivolta agli studenti di medicina dell'Università cattolica. I due docenti erano il critico e storico televisivo Aldo Grasso ed Ettore Bernabei, direttore della Rai nel periodo 1961-1975 (il programma era curato di Luca Martera e Luca Nannini, ospite in cattedra il rettore della Cattolica, Lorenzo Ornaghi). La prima sensazione che si ha sentendo parlare il fanfaniano Bernabei, l'uomo a cui è attribuita l'espressione «gli italiani sono cinquanta milioni di teste di c...» è che il paese fosse allora, inizi degli anni Sessanta, ancora molto civile: «A quel tempo si rispettavano le minoranze», dice in apertura di lezione Bernabei, con l'aria di sottolineare che oggi invece no, forse meno, e comunque senza che sia l'intento di fondo. Questo approccio, unito all'idea che sempre allora ciò che contava erano «i diritti dei cittadini», tanto che l'Italia nella tv pubblica «fu il primo paese che diede diritto di accesso all'opposizione, con le tribune politiche», induce a riflessioni piuttosto sconsolate chiunque abbia ascoltato il discorso tenuto a Mestre da Silvio Berlusconi contro la par condicio, con un paragone pazzesco tra la vita di un partito e la politica pubblicitaria della Coca-Cola (ormai Berlusconi è ossessionato da 33 per cento, quota derivante «dal diritto naturale», limite a cui si colloca secondo lui il massimo di prelievo fiscale e la quota di mercato della bibita gassata, oltre che augurabilmente il voto a Forza Italia). Aldo Grasso è riuscito a dare una sintesi della storia televisiva italiana, spiegando che l'unificazione culturale non è stata realizzata dai programmi esplicitamente pedagogici (ad esempio "Non è mai troppo tardi"), bensì dalle grandi trasmissioni di intrattenimento tipo "Studio Uno". Mentre il clou della lezione è stato raggiunto da Bernabei quando ha spiegato che oggi la tv è «atea» sempre, «anche quando riprende una messa del papa». In questa concezione del nichilismo televisivo contemporaneo c'è una intuizione fortissima, che descrive l'essenza stessa della tv, il suo essere un blob indifferenziato, senza ormai nessuna gradazione di qualità intrinseca. La tv è amorale, cinica, trash: tutta. Se lo dice una democristiano tutto roseo e ancora intellettualmente arzillo, c'è da credergli.
L'Espresso, 26/12/2004
Italia c’è posta per te
La forza di Enzo Biagi consiste nell'avere in dotazione alcuni principi di fondo, pochi, semplici, espliciti, e con quelli giudicare l'esperienza del mondo. Gli strumenti sono limitati, e riguardano concetti come il buon senso, l'onestà, la capacità di apprendere dagli errori, il non dimenticare la storia e le radici. In questo suo ultimo libro, "L'Italia domanda (con qualche risposta)", appena pubblicato da Rizzoli (330 pagine, 17 euro), Biagi ha raccolto una selezione delle lettere inviategli dai lettori a partire dal 1988. Alcune lettere per ogni anno, con una cronologia degli avvenimenti principali e un inserto d'autore, che può riguardare il personaggio o il fatto dell'anno. Non solo i protagonisti politici, ma anche i personaggi a loro modo minori. Ad esempio, il 1988 è segnato dalla presenza di Adriano Celentano, il «cretino di talento» che aveva incendiato di polemiche la sua conduzione a "Fantastico". La tecnica di Biagi consiste nel non attribuire caratteristiche epocali a personaggi locali. Quanto al Celentano dilagante, «si faccia spiegare la battuta di una sua collega che figura nella storia del cinema, Arletty, indirizzata ai francesi che esaltavano De Gaulle: "C'è differenza tra gli uomini grandi e i grandi uomini". Lui per me sta nella media». In questa capacità e volontà continua di riportare ogni figura alle sue dimensioni più appropriate c'è probabilmente la sfiducia di Biagi per i "fasso tuto mi", per gli uomini del destino e della Provvidenza, sia nelle forme dello spettacolo sia nei modi della politica come show. Non si fida del successo improvviso e vistoso, sa che il tempo è galantuomo, che «questo paese perdona tutto tranne il successo». E sa anche che non c'è soltanto l'Italia della moda, della televisione, del glamour vero o falso, dell'apparire e dell'esserci: c'è anche un paese profondo ancora inquieto per questioni apparentemente superate come la concessione della "prova d'amore". È un'Italia che i frenetici metropolitani ignorano, fatta di gente che si chiede, e chiede a Biagi, se sia consentito farsi giustizia da soli, quando la giustizia fallisce il suo compito, oppure se non sia meglio imparare a perdonare. Problemi psicologici e questioni morali, privato e pubblico si inseguono nelle lettere. E forse queste pagine in certi casi risultano più utili di un'indagine sociologica. Biagi infatti è il Censis dell'intuizione giornalistica: "vede" un problema, lo iscrive in una sua percezione, offre una morale che non è mai una lezioncina, ma semmai il richiamo a un principio. I suoi nemici (perché ne ha di nemici, e non soltanto fra i politici) lo trattano talvolta come un passatista. Qualche tempo fa sul "Foglio" ci fu una specie di campagna contro di lui, l'uomo che sarebbe stato poi cacciato dalla Rai normalizzata, all'insegna dell'epiteto di «re della serie B». Ma a 84 anni, il bolognese di Giustizia e libertà, antifascista e anticomunista, ma rispettoso della qualità civile di molti comunisti, così come era rispettoso della qualità morale di alcuni fascisti, conduce ancora i suoi di?scorsi improntati a un galateo civico, appoggiandosi a una citazione, a un ricordo, alle persone che ha conosciuto. C'è ancora spazio, nell'Italia delle Lecciso, per le considerazioni di Biagi, ispirate al senso comune, determinate dal libro esercizio della propria facoltà d'opinione? Alla fine, il metodo- Biagi è utile perché ridimensiona, relativizza, riporta alla normalità. È a suo modo un antidoto all'esasperazione dell'attualità. Fa scomparire l'Italia estrema del berlusconismo nella normale continuità della nostra storia. La rende anche più mediocre, se è per questo, la fa più banale. Ma alla fine le dimensioni sono rispettate, le proporzioni non risultano assurde. Chi è stato vaccinato dalle manie di grandezza del Duce, per dire, non si fa impressionare dalla volontà di potenza del Cavaliere. Perché l'unico stile che Biagi conosce fino in fondo è quello del giornalista. Che è un modo per passare forse alla storia, ammesso che i giornalisti passino alla storia, facendo la cronaca.
L'Espresso, 30/01/2003
Cattolici, indietro tutta!
Fra le molte dichiarazioni ovvie, o almeno facilmente prevedibili, contenute nelle 15 pagine della "Nota dottrinale" emanata la settimana scorsa dal cardinale Joseph Ratzinger, se ne trova almeno una che proprio ovvia non è. E che anzi potrebbe avere conseguenze profonde sia sull'atteggiamento della Chiesa verso la politica sia, simmetricamente, sul modo in cui i cattolici si schierano politicamente. È inutile ricordare che la Chiesa fa il suo mestiere quando conferma le proprie posizioni su materie come la bioetica, la difesa della vita umana, la salvaguardia della famiglia «fondata sul matrimonio tra persone di sesso diverso». A molti potrà apparire anacronistico il rifiuto delle leggi sull'aborto e soprattutto sul divorzio: ma d'altra parte sarebbe grottesco chiedere al cardinale Ratzinger, che pure è un uomo ricco di spirito e ironia, di rinunciare con un couplet intellettuale ai cardini del magistero cattolico. Ciò che invece colpisce, nel documento del Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, è una sottolineatura pesante sul ruolo delle organizzazioni cattoliche. Ratzinger infatti sanziona come «non compatibile con l'appartenenza ad associazioni cattoliche» esprimere «orientamenti a sostegno di forze politiche che su questioni etiche fondamentali hanno posizioni contrarie all'insegnamento della Chiesa», riferendosi in particolare alle strutture associative, ma anche a periodici e riviste che «hanno orientato i loro lettori in occasione di scelte politiche in maniera ambigua e incoerente». Sembra di risentire sullo sfondo l'eco di un "non expedit". Vale a dire che se si dogmatizzano i nodi etici, del rapporto fra credenti e politica, ai cattolici coerenti non è lasciata nessuna autonomia di giudizio e conseguentemente di azione. Per la situazione italiana le conseguenze possono essere dirompenti, e non solo per il centro-sinistra. È vero infatti che i cattolici nell'Ulivo si trovano spesso a misurare in modo conflittuale le proprie convinzioni con quei settori laici che sulle materie più controverse della bioetica e della libertà individuale sostengono posizioni non compatibili con il magistero ecclesiastico. Ma finora, anche sulla scorta di documenti conciliari come la "Pacem in terris" (la prima enciclica che distingueva fra "errore" ed "errante", offrendo le premesse per il dialogo), i cattolici avevano potuto appellarsi alla possibilità di ridurre il danno di leggi non accettabili dal precetto religioso. Oggi invece Ratzinger, attestando che la democrazia implica «una retta concezione della persona», stabilisce che su questo punto non è possibile alcun compromesso. Che la "Nota" dell'ex Sant'Uffizio sia rivolta al mondo intero, e non solo all'Italia, non cambia il suo significato e le sue implicazioni. Semmai li dilata a dismisura. Lo ha colto con nettezza Massimo Cacciari, che ha immediatamente segnalato come il richiamo del cardinale Ratzinger contro il relativismo etico metta in secondo piano il potere di un «pensiero unico dominante» fondato sull'individualismo, la fede cieca nella tecnica, la dittatura dell'economia. (Per restare al cortile domestico, e a voler essere radicali, l'ossequio formale di Umberto Bossi sulla famiglia tradizionale, o i progetti berlusconiani e morattiani a favore della scuola privata, rappresentano solo un maquillage cattolicizzante rispetto a una concezione largamente secolarizzata). E allora, a che cosa ci si può preparare, in base ai dettami del cardinale Ratzinger? A una nuova separatezza dei cattolici rispetto alla partecipazione politica? A una specie di nuovo patto Gentiloni, attraverso il quale il cattolicesimo agirebbe sostanzialmente per delega, restando ai margini della vita pubblica, e limitandosi a contrattare di volta in volta il proprio appoggio a un partito o a uno schieramento? Considerate alla lettera, le parole di Ratzinger implicano solo due possibilità: la presa di distanza dei cattolici dalla politica, per un verso; oppure la ricostituzione di una presenza unitaria di tipo confessionale. In entrambi i casi, la soluzione ha tutto l'aspetto di un passo a ritroso.
L'Espresso, 13/02/2003
Il prezzo dell’avventura
Nel programma della Casa delle libertà la separazione delle carriere non c'è. E se anche ci fosse è tutto da dimostrare che il sempre evocato popolo, votando per il centrodestra, avrebbe dato il suo imprimatur a quello specifico tema, "ungendo" di consenso la riforma del sistema giudiziario. L'idea che il voto dei cittadini possa tradursi direttamente in leggi è infatti uno dei capisaldi dell'azione populista. Ora, l'accusa di populismo non piace al centrodestra, anche se al suo interno ci sono partiti come la Lega e Alleanza nazionale, nonché alcuni settori di Forza Italia, che hanno sempre manifestato un'esplicita vocazione in questo senso. Ma nel caso delle riforme annunciate o minacciate contro la "corporazione" dei giudici il populismo è al massimo uno sfondo, non il motore politico dell'azione di Berlusconi. L'aspetto implicitamente più distruttivo è reso evidente dalla successione degli avvenimenti. La Cassazione, interpellata in base alla legge Cirami, si riunisce, esamina e sentenzia respingendo la richiesta di legittimo sospetto su Milano. Immediatamente, la suprema corte, a cui prima si riconosceva da destra un'altissima competenza giurisprudenziale, viene ridimensionata a semplice componente di un blocco corporativo. L'offensiva berlusconiana non si ferma davanti a nulla: se non c'è un giudice neppure a Berlino, ci sarà a Helsinki, o a Capo Nord; oppure in un sistema giudiziario alternativo, ancora tutto da costruire. Ciò che non smette di sorprendere è il riflesso collettivo che afferra l'intera Casa delle libertà allorché risuona lo squillo di tromba berlusconiano. Nel volgere di poche ore tutto il personale politico di maggioranza si è schierato a tutela del capo, presentandolo come la vittima di un potere irresponsabile. Su questi argomenti il leader supremo non consente defezioni: quindi scatta un coro di sostegno indiscriminato, esente dalla minima obiezione. La Casa delle libertà diventa una macchina da guerra. L'effetto distorsivo sull'equilibrio istituzionale è patente. Ma anche le conseguenze politiche sono pesantissime: se, come un sol uomo, il centrodestra dichiara che è ora di risolvere una volta per tutte il "problema" giudiziario, la prospettiva che viene agitata è quella di uno sfondamento costituzionale; e nel medesimo tempo la controparte di centrosinistra viene consegnata a un mesto ruolo di conservazione. Lo stesso meccanismo era stato innescato con il progetto della riforma presidenzialista: con una indubbia efficacia sul piano pubblico, ma con palesi forzature strumentali. È perfettamente comprensibile infatti che Berlusconi avverta la necessità di mobilitare di continuo il consenso intorno alla propria figura, soprattutto se i risultati dell'esecutivo, fuor di propaganda, appaiono mediocri; e ciò anche se non si capisce bene che cosa manchi ancora alla Casa delle libertà per poter esprimere una chiara capacità di governo. Non i numeri alle Camere, non la coesione parlamentare, quando occorre; non c'è la minima possibilità, fra l'altro, che possano verificarsi ribaltoni (per il presidente della Camera saranno un «cancro della democrazia», ma al momento la salute della maggioranza, da questo punto di vista oncologico, non corre alcun rischio). Si vede piuttosto una strategia unilaterale, tesa a determinare una divisione manichea fra i riformatori presunti, i grandi innovatori istituzionali, e gli avversari delle riforme, cioè i conservatori, se non i reazionari, dell'opposizione. Le conseguenze saranno formidabili per tutta la Casa delle libertà, che verrà investita dal soffio vitale della mobilitazione politica permanente, mentre il derelitto Ulivo di questi tempi dovrà rassegnarsi a svolgere un faticoso e frustrante ruolo di interdizione. Solo che tutto questo ha un nome e un prezzo: il nome è avventurismo, e il prezzo è l'avvio di una stagione di distorsioni istituzionali. Cioè di "sbreghi" costituzionali, come a suo tempo li chiamava Gianfranco Miglio, auspicandoli; di inquietanti concentrazioni di potere, per coloro che temono l'uso improprio, cioè tutto politico, delle riforme dettate dal leader.
L'Espresso, 06/03/2003
Al centro con Nando Meniconi
È stato l'americano, il vitellone, il vigile, il magliaro, l'antidivorzista, il medico della mutua, il detenuto, il tassinaro. Ma forse nell'intimo Alberto Sordi è stato soprattutto il "compagnuccio della parrocchietta", il democristiano di quartiere che si prepara a una carriera di terza fila nello Scudo crociato. Sicché non è proprio agevole stabilire se il Nando Meniconi che distrugge il maccarone sia di destra o di sinistra. È come chiedersi se fosse di destra o di sinistra la Dc, e se è di destra o di sinistra Giulio Andreotti: di centro, di centro, echeggerebbe dall'oblio una folla di democristiani. Avrebbe mai potuto Sordi smentire questo centrismo consustanziale? La sua immagine era quella di un conformismo totale, temperato dall'inclinazione scettica. Grandi princìpi, pochi. La morale convenuta, una maschera per dissimulare peccati tutt'altro che imprevedibili. Il cattolicesimo, un clima respirato fra tonache, porpore, sacrestie. Risultato, l'esatta personificazione di ciò che è "cattolico e romano", sottolineando romano e aggiungendo trasteverino. Per lui, in quanto simbolo dei 12 milioni di albertosordi che assicuravano l'apparente eternità dc, il voto doveva essere semplicemente un automatismo, con il peso della scelta che si scioglieva attraverso una liberatoria croce sulla "Libertas". La cabina come un confessionale; più che una preferenza politica, un ex voto. Alla fine, non era più neanche il borghese piccolo piccolo: era l'uomo qualunque talmente qualunque da non suggerire vocazioni politiche neppure qualunquiste. Del giovane mattatore con i suoi exploit cinici e patetici, sentimentali e ricattatori, restava talvolta un'occhiata di sbieco: e a quell'occhiata bisogna rifarsi per immaginare che cosa avrebbe detto, in privato, dell'Italia che crede in tutto, nelle "tre i", nella mentalità "vincénte" e perfino, come avrebbe detto lui ai tempi dell'avanspettacolo, nella "devolusciòn".
L'Espresso, 13/03/2003
Laboratorio per apprendisti stregoni
I più sottili esegeti della Rai hanno sempre sostenuto che le rotture d'assetto nella televisione pubblica costituiscono il preludio di crisi politiche incombenti: come se nel consiglio d'amministrazione e negli organi direttivi le tensioni politiche fra i partner di governo si scaricassero liberamente, indifferenti alle alchimie di alleanza, rivelando la portata conflittuale implicita negli equilibri di maggioranza. In effetti il mondo apparentemente piccolo della Rai rappresenta un laboratorio per apprendisti stregoni, dove le guerre politiche si svolgono senza la schermatura degli accordi fra i partiti. Fino a qualche settimana fa sembrava che il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, e il suo partito, l'Udc, si fossero malamente incartati. Anziché provocare la caduta del Cda, l'uscita del consigliere centrista Staderini aveva determinato uno stallo penoso; gli osservatori più realisti pensavano che alla lunga l'unica soluzione praticabile sarebbe stata quella del reintegro del consiglio, alle condizioni di Berlusconi e Bossi, non a quelle dei postdemocristiani. Ma i realisti non tenevano conto di due aspetti complementari. Da un lato la pazienza temporeggiatrice di Casini, dall'altro il cupio dissolvi attivistico del duo Baldassarre-Albertoni. Al presidente della Camera è stato sufficiente dare retta alla sua indole politica, aspettando con fiducia l'incidente che avrebbe fatto cadere il Cda; mentre i due consiglieri residui hanno inanellato una serie di gaffe stralunate, ultima la decisione estemporanea di trasferire a Milano la direzione di Raidue, offrendo di fatto la propria testa. Una volta risolta la vicenda del Cda, resteranno nel corpo del centrodestra le ferite inferte da una battaglia cruenta. Non tanto l'incomunicabilità infastidita che ormai caratterizza i rapporti fra Casini e Pera, e nemmeno l'insofferenza aziendalistica di Berlusconi per le manovre dell'Udc: in termini politici, la battaglia della Rai ha messo in luce, più che la fisiologia dei rapporti contraddittori dentro la Casa delle libertà, la patologia dell'equilibrio complessivo con la Lega. Questa è l'eredità vera della partita-Rai. Lasciato a gestire da solo il patto con Bossi, Berlusconi (con la sua longa manus Tremonti) tende a concedergli praticamente tutto, squilibrando gravemente la coalizione agli occhi dell'Udc e di An. Bossi si ritrova un potere di ricatto fuori misura, temperato faticosamente solo dalle cene con il premier. Sotto questa luce, la Rai è stata solo un lungo episodio. Un'altra vicenda intricata la si vede nelle estenuanti trattative per le candidature alle amministrative. È già innescata anche la mina della legge costituzionale sulla devolution. Ed è verosimile che sulla Convenzione europea Bossi, l'uomo che accusò l'Unione di essere una "Forcolandia", possa aprire un contenzioso ad alto potenziale ideologico. Ciò non significa che la Casa delle libertà sia un'alleanza in attesa di demolizione. Significa tuttavia che la solidarietà interna della coalizione di maggioranza non è una certezza teologica, bensì il risultato di una situazione continuamente patteggiata. È vero che Bossi controlla forze elettorali troppo esigue per poter rischiare avventure politiche distruttive come nel 1994. Ma è altrettanto vero che proprio per la sua debolezza numerica deve anche procedere a strappi, per riuscire a mostrare al suo "popolo" i trofei politici che riesce ad aggiudicarsi. Tutto sta nel vedere fino a che punto le forzature bossiane (come il tentativo di imporre in Rai un direttore generale leghista ignoto anche ai più strenui conoscitori del mondo televisivo) potranno essere tollerate dagli alleati. Fra i consiglieri più intimi di Berlusconi, qualcuno già da qualche tempo segnala che il ricatto della Lega dovrebbe essere messo allo scoperto con fermezza, anche senza escludere scenari politicamente audaci come un ribaltone a rovescio, un attacco preventivo, un 1994 anti-leghista. Che non sia fantapolitica lo dimostra proprio la guerra dei nervi, delle mezze verità, dei mezzi agguati e delle ritorsioni intere che ha segnato la defenestrazione del vertice Rai.
L'Espresso, 30/04/2003
Divisi si può resuscitare
L'aveva confessato a qualche amico: vorrei fare un piccolo botto nel centro-sinistra. Michele Salvati, docente di Economia politica a Milano, ex deputato ds, intellettuale di riferimento e militante della sinistra moderata e mugugnante, ha scritto in un pomeriggio le 14 cartelle del suo appello politico. Ha telefonato a Giuliano Ferrara, gli ha spiegato di che cosa si trattava, e il giorno dopo il manifesto "salvatico" per la ristrutturazione del centro-sinistra e il lancio del partito democratico campeggiava in una pagina del "Foglio". Tesi: bisogna spostare al centro l'equilibrio della coalizione. Sintesi: aggregare i riformisti moderati della Margherita e di una parte dei Ds, lasciare a sinistra i riformisti radicali, con cui stringere un accordo politico- elettorale successivo. Dopo di che, è cominciato il diluvio. Salvati, ma che cosa le è saltato in mente? Non si fa così, si coinvolgono gli organi, si presentano le mozioni, si discute nelle sedi dovute. «L'appello per il partito democratico è nato da un'irritazione formidabile, nata dalla percezione di un'impotenza. Avevo visto il documento preparato da Bruno Trentin per la conferenza programmatica dei Ds a Milano, e mi erano cadute le braccia. Non per la qualità del lavoro di Trentin, ma perché era il solito tentativo di tenere insieme tutto. Cioè fare sul piano del programma quello che Fassino fa sul piano del partito. Inoltre, secondo motivo, c'era stato il rinvio dell'assemblea ulivista del 13 aprile, e la rabbia è aumentata». E allora si è detto: squilli la tromba. Ma la politica non si fa con gli stati d'animo. «Tuttavia di fronte all'impotenza della coalizione ci voleva un cireneo che provasse ad alleviare il Calvario. Vede, la condizione del centro-sinistra è disastrosa per una quantità di ragioni, che interagiscono tutte: se manca il leader, e il leader in effetti è lontano, restano solo partiti e partitini, con le relative rendite di posizione. Prevale una logica da sistema proporzionale». Ammetterà che è difficile convincere il proprio partito che deve scindersi. «Gliel'ho detto, è stata una decisione d'impulso. Se avessi avuto modo di pensarci di più, se mi fossi consultato con qualche politico amico, se, se se: non l'avrei più scritto, il mio documento». Ma i dietrologi sostengono che dietro la sua operazione ci sia la mano del grande assente. «Chi, Romano? Prodi? Ma per carità. Se vogliamo parlare seriamente, le dico quali sono le ragioni politico-culturali che stanno dietro la mia riflessione». Era più stuzzicante se c'era la manina. «Preferisco parlare di storia. E di architettura. Dunque, sul piano storico il documento sul partito democratico nasce da una lettura della crisi italiana dal 1992 in poi. Ma anche dalla mia storia personale. Da ragazzo ero un seguace di Lelio Basso, poi sono stato operaista, ho partecipato alla vicenda dei "Quaderni rossi", poi mi sono dato al radicalismo dei "Quaderni piacentini"...». Tutti sforzi tipici di stare a sinistra senza identificarsi con il Pci. «Può darsi. Sta di fatto che il Pci ha avuto un pesante ruolo storico nell'impedire la nascita di un partito socialista riformista. Era proprio la sostanza del partito comunista a impedire un'evoluzione socialdemocratica ragionevole e proponibile alla società italiana come alternativa elettorale e politica». Il Pci non c'è più, se quello era il problema. «Ma la storia lascia eredità importanti. Dobbiamo pensare che mentre Craxi tra la fine degli anni Settanta e l'avvio degli Ottanta abbandona il massimalismo, lancia il "progetto socialista", ovvero un'ipotesi di modernizzazione da sinistra, il Pci fa consociativismo, e nello stesso tempo difende le ragioni della propria diversità e si autoesclude». Vuole dire che oggi scontiamo ancora gli effetti di quello che Giuliano Amato e Luciano Cafagna chiamarono "duello a sinistra"? «Ma non c'è dubbio. Comunisti e socialisti arrivano al redde rationem mentre sono entrambi in sfacelo. Il Psi evapora, mentre Achille Occhetto sposa il populismo». Si riferisce a Tangentopoli? «Agli inizi dei Novanta nel sistema politico c'era un'autentica nevrosi, e si è scatenata una canea populista. Ora, nel populismo sai come entri ma non sai come esci: può andarti bene ma possono venirne fuori anche Berlusconi e Bossi. La divisione nella sinistra attuale è il frutto di un modello analogo: la contrapposizione fra riformisti e radicali rappresenta l'irriducibilità di alcune matrici politiche che tendono a perpetuarsi». Vada per la storia. Ma per quanto riguarda l'architettura? «Bisogna valutare fino in fondo se abbiamo capito il sistema maggioritario, anzi, il sistema dell'alternanza. Primo punto: si compete per vincere le elezioni, non per incrementare i propri voti al proporzionale. Secondo, sono convinto che il formato del centro-sinistra è anomalo perché ha il baricentro fuori asse. Perché il centro-sinistra possa vincere occorre un partito che sia un grosso dirimpettaio del partito di Berlusconi. Guidato da una personalità che non si sia formata nel vecchio partito comunista. In modo che il centro-sinistra non appaia l'ennesima metamorfosi del Pci». Detto così sembra che occorra solo una dichiarazione di resa. «No. Alcuni processi sono avvenuti. Il Partito popolare il suo sforzo lo ha fatto: è confluito nella Margherita e si è schierato a sinistra, nella massima chiarezza. Nei Ds invece non c'è stato nessun processo di rinascita, di cambiamento di sostanza. D'Alema aveva un progetto, ma era quello di tenersi il corpaccione del partito, con tutte le sue anime, pensando di risolvere i problemi in chiave di leadership e di azione governativa. È andato nel Kossovo, alla City ha annunciato una rivoluzione liberale, si è scontrato con il sindacato e Cofferati sullo stato sociale. Soprattutto il Kossovo, è stato importante perché i socialdemocratici con la guerra maturano dei crediti...». Fin da quando i socialisti tedeschi votarono i crediti per la Grande guerra. «C'è sempre una certa ironia nella storia: corsi e ricorsi. Ma se ci si illude di poter proseguire passo dopo passo, oggi un successino alle amministrative, domani il 22 per cento alle europee, dopodomani l'immancabile trionfo, si fa la fine della contadina che va al mercato con la ricottella sulla testa, immaginando di venderla e di diventare ricca con una serie immaginaria di successi commerciali a catena. Poi la ricotta si spiaccica per terra, e tanti saluti ai sogni». Fine del partito ricotta. «C'era una razionalità presunta, nei calcoli dalemiani, ma era tutta ipotetica: se mia nonna ha le ruote, D'Alema dura vent'anni e di Ulivo non si parla più». E si deve ricominciare da capo. Il leader, il formato della coalizione, il programma. Con Cofferati che invece dice: prima il programma, poi il resto. «Guardi, non per cinismo, ma nel mio giudizio il programma è piuttosto indifferente. Ciò che conta è il messaggio. E la leadership. Sapere che cosa si vuole dire al Paese, e farlo dire a un leader che risulti persuasivo». Lei sostiene che Prodi deve diventare il segretario del partito democratico futuro, e di riflesso il capo dell'alleanza di centro-sinistra. Ma come si fa a impostare una politica su una sola carta, su un solo uomo? «È un rischio, come no. Ma le nostre carte al momento sono queste. D'altronde, le reazioni nel centro-sinistra sono state semiautomatiche. Rutelli per ora non si è fatto vivo. La base diessina come al solito parla della "fuga in avanti di Salvati". Cofferati sta zitto e sornione perché il mio appello gli va benissimo, dato che gli lascia in amministrazione tutto il patrimonio del radicalismo politico-sociale». E se non il programma, il messaggio quale sarebbe? «Meglio che non dica nulla, perché se fosse per me tirerei fuori un messaggio "azionista", e quindi perdente. No, credo che occorra essere capaci di enunciare un ventaglio di scelte radicali nell'impostazione e intelligentemente moderate nell'applicazione». In sostanza, i Ds si spaccano o no? «Ma neanche per sogno. Come succede spesso nei partiti, la leadership diessina è molto più sensibile ai militanti che non ai votanti. Il problema, forse, è tutto qua».
L'Espresso, 08/05/2003
Abolire il 1° maggio?
L'hanno già detto che alle manifestazioni del Primo maggio sono previste troppe bandiere rosse? Ce n'erano troppe nelle manifestazioni pacifiste, secondo l'acuta sensibilità cromatica della Casa delle libertà, e quindi è logico aspettarsi che anche la festa dei lavoratori sia inquinata dalla criminalità del comunismo e dei suoi residui. Il 25 aprile è soggetto ormai da tempo a un attacco "revisionista", ispirato dall'idea di equiparare anche politicamente le vittime dell'una e dell'altra parte. Quanto alla Costituzione, l'arguzia interpretativa di Silvio Berlusconi ne ha già messo in luce le infezioni sovietiche. Sembrerebbero boutade non perfettamente riuscite. Oppure pulsioni revansciste da parte della destra più pugnace. In realtà sono il frutto di un disegno politico, e anche piuttosto scoperto. Perché l'aggressività verso le date e i simboli della sinistra non risponde all'intento di ripristinare verità storiografiche su cui si sono inevitabilmente impressi retoriche e stereotipi: in sé non c'è nulla di sacrilego nel ripercorrere i momenti di frattura nazionale, di guerra civile, di scontro di classe, di crudeltà politica o privata che hanno costellato le vicende cruciali del nostro Novecento, di cui la lotta di liberazione è un esempio. Così come è perfettamente legittimo riconsiderare il confronto fra democristiani, laici e comunisti che portò alla stesura della carta costituzionale («Il primo compromesso», secondo Norberto Bobbio). Solo che la storia va interpretata e compresa, non brandita e usata. Mentre alcuni settori del centrodestra ne fanno un uso politico spregiudicato. Più ancora alcune frange di Forza Italia che non Alleanza nazionale. Il fatto è che dentro An il risentimento anticomunista e antipartigiano trova una sua origine nelle vicende che hanno coinvolto i progenitori di quel partito, e nel lascito di memorie e rancori di una guerra civile combattuta dalla parte sbagliata, che Gianfranco Fini cerca di coprire con il silenzio. E non va dimenticato che il Movimento sociale è stata l'unica forza politica esclusa, salvo imbarchi strumentali, dall'arco costituzionale e dalle tessiture politiche "consociative", cioè dalla fondazione e dalla prassi politica della Repubblica: e anche su questo argomento An non ama passare per un plotone di guastatori. Risulta più interessante sul piano politico l'anticomunismo di Berlusconi, che ormai assomiglia sempre più all'antisemitismo dei giapponesi. Eppure sarebbe sbagliato attribuire l'animosità permanente del capo del governo contro un nemico scomparso a una sua nevrosi culturale. Tutt'altro. È più probabile che si tratti di un calcolo a freddo. Il leader di Forza Italia infatti ha un interesse primario nel fissare in chiave ideologica la divisione politica fra gli elettori. Di qua ci siamo noi, la Casa delle libertà. Dall'altra parte c'è tutto quello che noi odiamo: lo statalismo, il professionismo politico, i funzionari sindacali, il richiamo irritante alle regole, i giudici, il settore pubblico, il sociale. Basta riunire tutto questo sotto l'etichetta del "comunismo", per scavare una trincea nel bipolarismo. Si tratta di lanciare un messaggio martellante ai cittadini, per rievocare vecchie pregiudiziali e per rinfocolare l'idea che da una parte c'è il culto e la virtù della libertà, e dall'altra il vizio dottrinario. D'altronde, è vero o no che nel centrosinistra sono rimasti soltanto quei cattolici che erano più disposti a patteggiare con il Pci? È vero o no che partigiani comunisti si sono macchiati di imprese esecrabili? È vero o no che la Costituzione risente di mediazioni sociali tali da renderla un documento non ascrivibile all'integralismo liberale? È tutto quasi vero. In quel "quasi", tuttavia, è racchiusa la pesantezza e la drammaticità della storia. Nella verità rivendicata dai berlusconiani è implicita la strumentalizzazione del passato per rovesciarlo sul presente. Hanno ragione loro, naturalmente: è utile e conveniente ricordare che il movimento operaio non è mai stato un campione di liberalismo: troppo rossi, i lavoratori, troppo legati a un'idea di riscatto egemonizzata dai comunisti. E allora, se riscrivere la Costituzione è un'impresa troppo complicata, se riadattare i libri di storia richiede tempo, forse è il caso di abrogare il Primo maggio. O almeno di trasformarlo in una parata di reduci e di sconfitti, insieme a quell'Italia minoritaria che si ostina a non credere alle grandi ricette ideologiche della destra superliberale.
L'Espresso, 15/05/2003
Cgil, amore e tormento
Quando la lotta si fa più aspra, la vita sindacale è una strana miscela di passione, sudore, vertenze infiammate, cortei e picchetti, faccia a faccia con industriali e poliziotti: «Per settimane ho viaggiato con una ventina di bandiere rosse, cartelloni bianchi, pennelli e un bidoncino di vernice rossa nel portabagagli della mia R4». Sono parole di Adele Grisendi, la "bellezza in bicicletta" del suo fortunato libro precedente, che raccontava un'infanzia e un'adolescenza in un paese dell'Emilia più profonda e vera. Questa volta invece sono storie di sindacato, raccolte in un nuovo libro, "La famiglia rossa", che Sperling & Kupfer manda in libreria il 13 maggio (320 pagine, 14 e). Si può raccontare la vicenda della Cgil guardando al vertice. L'organizzazione di Lama, Trentin, Cofferati, oggi di Epifani. I loro dilemmi, le loro strategie. Grisendi ha scelto invece di raccontare una storia volutamente minore, in cui una donna descrive «passioni, contrasti, vendette» in cui è stata coinvolta. Vendette: una parola cattiva. Già, talvolta le traiettorie individuali si scontrano con le logiche di potere presenti anche nella massima organizzazione dei lavoratori: «Per motivi politici e di politica sindacale, e poi per ragioni di potere interno, per antipatie e inconciliabilità caratteriali o per gelosie reciproche». E anche perché nel sindacato a volte «gli scontri sono duri e non sempre vengono combattuti in modo leale, tanto da creare grandi sofferenze». Qualcuno ci lascia un po' di sé, della propria vita, del proprio sentimento, delle proprie speranze. Da poche settimane Grisendi è fuori dalla Cgil. «Ne sono uscita in pace, con serenità», confessa agli amici con un sussurro. Era entrata nella "famiglia rossa" giovanissima, dopo avere rinunciato all'idea di frequentare l'Isef, con il padre che aveva sbottato: «Ho cominciato a tirarmi il collo come un grande che non avevo ancora sette anni, e dovrei mantenerti ancora?». E allora, «al diavolo la ginnastica»: per orgoglio, per rabbia, per mettersi in gioco entra subito in fabbrica. Lo sfondo è la "Città rossa", cioè Reggio Emilia, l'anno è il 1968: mentre una generazione prova a immaginare la rivoluzione, la ventenne Grisendi, apprendista operaia, si ritrova a ritagliare con le forbici modelli di abiti per bambine, 11 ore di lavoro al bancone, le mani che «facevano un gran male». Però niente piagnistei. C'è piuttosto un minimalismo narrativo che non nasconde la durezza del lavoro, ma la assimila come una prova costante per la propria volontà. E che con pochi tratti riesce a dipingere il clima di quella stagione, mentre incombe l'autunno caldo, in cui uomini e donne, nelle aziende, cercano insieme di sfuggire a «un retroterra di sfruttamento e di fatica». L'ingresso nella Cgil arriva quasi subito, con l'assunzione in ospedale come «impiegata archivista del reparto di radiologia, ma con la qualifica di inserviente». Dequalificata, insomma. Senza tessera di partito, che arriverà poco più tardi con l'iscrizione al Pci di Enrico Berlinguer, ma già combattiva; e subito appassionata all'idea di condividere le angosce e le speranze della sua comunità, la vicinanza con le persone che rivendicano gli stessi diritti. Perché «c'è chi nasce con la propensione per gli affari, chi con la vocazione religiosa e chi con il genio dell'artista. Ma c'è anche chi scopre di provare interesse per i problemi degli altri, per farsene carico senza perseguire utili personali», nel nome di un «comandamento laico» che si oppone alle ingiustizie. Scritte oggi, nell'età della felicità privata, dell'egoismo esibito, espressioni come questa sembrano un anacronismo. Archeologia della moralità del lavoro. Sentimenti usurati dalla modernizzazione vertiginosa dell'Italia dell'anti-politica. Ma è inutile indulgere al rimpianto per quegli anni in cui la solidarietà collettiva rappresentava un terreno su cui praticare la politica direttamente, con la percezione immediata dei ruoli e degli schieramenti. Era un mondo più semplice, certo. Destra, sinistra, padroni, lavoratori. Tuttavia anche quel mondo era difficile, irto, ricco di continue sfide anche personali. Basta seguire la "carriera" dell'autrice, divenuta nel 1976 sindacalista a tempo pieno, per condividere talora con commozione le sue ansie, il desiderio di mettersi alla prova, il tremore ma anche la consapevolezza con cui accetta incarichi che le appaiono superiori alla sua preparazione, e quindi la dedizione assoluta verso la "famiglia rossa" e le persone da essa riunite. Il suo soprannome è Niki Lauda, per la sua velocità nella pista cigiellina. Funzionario a tempo pieno nella Val d'Enza, dopo un corso di formazione di 20 giorni nel centro della Cgil ad Ariccia. Comizio d'esordio, il Primo maggio del 1977, dopo giorni di terrore al pensiero di salire su un palco. L'impegno femminista, nello sforzo di aprire il sindacato ai problemi delle donne, la lotta contro i turni di notte, la battaglia per la legge sull'aborto anche contro le prudenze del Pci. La crescita nei ranghi del sindacato, fino all'assunzione di un ruolo di rilievo nella Fiom locale: una donna (una donna!) a capo dei metalmeccanici. Poi succede qualcosa. Qualcosa di indefinito. Un dito lasciato inavvertitamente nel rapporto fra la componente comunista e la minoranza socialista della Cgil. Mezze calunnie come refoli di vento fra i corridoi del sindacato. Troppo "di destra", la Grisendi? Un capo che le nega la fiducia, l'emarginazione, gli sguardi distolti dai compagni, il saluto dissimulato. È la parte del libro destinata a suscitare più discussione, forse fastidio: per la sincerità con cui è raccontata, ma anche perché apre uno squarcio su una realtà di gelosie, di acredini, di giochi e trappole che colpiscono non solo una sindacalista ma una persona. Se nei primi capitoli il libro non si negava qualche ricordo scanzonato, venato di simpatia e di ironia sulle amicizie, sulle donne conosciute nel sindacato, sulle giornate passate alla libreria Rinascita della Città rossa, sulla grande politica e gli esponenti nazionali che illuminano con il loro carisma le feste dell'Unità (le figure di Amendola, Nilde Iotti, Lama, Bertinotti), dopo c'è solo il buco nero del conflitto interno, qualcosa che assorbe tutte le energie, che umilia e svuota. Verso la fine del suo racconto, Grisendi è sopraffatta da una sconfitta immeritata, anzi, insensata: «Non avevo più nulla a cui aggrapparmi. Il capo della Cgil della Città rossa aveva vinto la sua guerra contro di me. Una piccola dirigente che contava poco, che non poteva fargli ombra, ma che si rifiutava di prendere ordini e che, infine, era una donna». Già, una donna. Ma una donna ambiziosa, "frazionista", sotto accusa perché additata come segno di divisione. «Tutto questo», scrive Grisendi, «non si vede quasi mai (...). Vige la ferrea legge del silenzio, perché l'interesse della famiglia viene prima di tutto, a volte prima del rispetto che si deve a ogni persona». Qualcuno potrebbe usare la parola "stalinismo". L'autrice non lo fa. Il suo libro si chiude con il 1983, l'anno in cui lascia l'Emilia per un ruolo con la Cgil nel Veneto: «A restituirmi la mia casa, fu la serenissima Venezia». Oggi, con questa confessione pubblica, una piccola storia può gettare luce anche sulle regole e le abitudini di una grande organizzazione, sulle sue incoerenze, sulle «umane debolezze di molti suoi dirigenti»: e sulla speranza non completamente tradita né perduta di una ragazza rossa che nonostante tutto non ha smesso di appartenere al suo mondo.
L'Espresso, 22/05/2003
Tutto è crollato tranne il cattivo gusto
Di volgarità non si può parlare, dato che gli schemi dell'eleganza imposta dall'alto sono saltati. L'establishment è volgare come il popolo, e il galateo si è ridotto al manuale di sopportazione reciproca fra esponenti dello stesso clan, prima di passare alla caciara del dopocena e al trenino della Mara Venier di turno. Inutile cercare di definire un'Italia coatta, marginale, esclusa per ignoranza delle buone maniere, ignorante dell'estetica: conviene piuttosto identificare quell'aggregato sociale e culturale interclassista che fa sfoggio della sua autenticità. Cioè il Paese autentico, reale, esatto, tautologico, uguale a se stesso nei quartieri di classe come nell'hinterland, negli atelier del lusso come nelle periferie sottoumane. La comunità è crollata, visto che i partiti sono evaporati, le ideologie sono svanite, la cornice etica si è scassata. E quindi, come dicono i sociologi, quando la comunità collassa viene fuori l'identità. Non importa come si è, quanto esserne orgogliosi. Se prima l'essere emarginati era una privazione, adesso è una possibile rivendicazione. Siamo così, senza schermi. Pronti a rubare la fidanzata al magistrato cattivo, come predica il Cavaliere. O a suggerire alla strafiga candidata bresciana Viviana Beccalossi: "Fagliela vedere". Questo è lo stile di palazzo Chigi subito recepito con sghignazzi dal popolo implicitamente forzista. O comunque dotato di sfrontatezza innata come Floriana del "Grande fratello". Animato da un craxismo fiammeggiante come quello dell'Elefantino tornato "Cicciopotamo, socialista islamico". Un popolo ora di iene, ora di corvi, ora di avvoltoi, un po' Platinette, un po' Cristiano Malgioglio, con un pizzico di Antonio Socci. Non c'è più un Altrove, un Oltre, un Eventualmente. Il Paese eccolo qua, hic et nunc, e se è un Paese "e'mmerd" va calpestato con tutta la suola, in modo da sollecitare la porca fortuna. Si potrebbe sostituire il vecchio simbolo, lo Stellone, con una materia più bassa, più terrestre (salvo che se poi qualcuno, un Luttazzi o un altro, la mangia, è disfattismo e sabotaggio, se non vilipendio al simbolo). Autentici, dunque. Con il petto depilato, con le tette figurative, con la tinta e il riporto: autentici e autentiche anche con il piercing, il vintage avariato, il muscoletto scolpito, ma anche la ciccia che deborda, chissenefrega. Non è l'acme del kitsch e nemmeno del trash, che sono parametri troppo intellettuali: piuttosto è il ritorno in incognito del vecchio Hegel, ciò che è reale è razionale. Esisto, quindi sono. Così è se mi pare. E alla fine, del tutto disinibiti, possiamo cantare di nuovo il nostro inno nazionale, l'inno del signor Rossi, dei fratelli d'Italia qualunque: «Siamo solo noi».
L'Espresso, 05/06/2003
Chi ha paura del rocker cattivo
La piccola storia milanese e stupida su Marilyn Manson è finita come doveva finire, cioè in una bolla di sapone. La mozione presentata in consiglio comunale da alcuni esponenti di Forza Italia "di area ciellina" (come dicono le cronache) non è neppure stata discussa, e quindi il 7 giugno il rocker satanico si esibirà, salvo nuovi imprevisti, al Mazda Palace di Milano, per la soddisfazione dei suoi fans italiani. La vicenda è del tutto inessenziale, ma come molte storie inutili possiede un suo accertabile valore simbolico. Marilyn Manson sarà un cantante in odore di dannazione, un performer cattivista, un cattivo esempio sul filo dell'horror, soprattutto quando si esibiva con i denti d'acciaio e la benda nera sull'occhio sinistro, e se si vuole anche un individuo che gioca sinistramente con l'ambiguità sessuale ed erotica: insomma l'emblema di una trasgressione mercantile e programmatica, dichiarata esplicitamente a cominciare dallo pseudonimo, che richiama volutamente la figura di Charles "Satana" Manson, il massacratore di Sharon Tate. Ma detto tutto questo, il suo successo e i suoi tour sono una faccenda che riguarda il mercato e il suo pubblico, e non la tutela dei minori o la pubblica moralità. Se mercato e pubblico amano quella prevedibile miscela di trash e di kitsch, affari loro. Soltanto un residuo di pedagogismo lievemente autoritario, o più semplicemente fessacchiotto, può indurre la politica a metterci il becco, a prospettare mozioni di censura, per preservare la purezza etica dei giovani lombardi e italiani. Il che però rivela qualcosa della presunta egemonia liberale che avrebbe ormai educato in profondità l'Italia contemporanea. Va bene che il sindaco di Milano, Gabriele Albertini, ha avuto il buon senso di dichiararsi subito per «la libertà di pensiero, di opinione e di stile di vita se non ci sono violazioni di legge», contribuendo così a sgonfiare il tremendo caso Manson, ma la prima conseguenza che se ne può trarre è che il liberalismo non è una proprietà privata di uno schieramento politico. Vale a dire che nella Casa delle libertà allignano ancora numerose figure che al liberalismo sono arrivate con un corso troppo accelerato, e quindi con notevoli buchi nel curriculum. Potrà sfiorare la comicità che il concerto diabolico abbia poi ricevuto il patrocinio di Rifondazione comunista, dal momento che Marilyn Manson ha tutto l'aspetto, dal satanismo all'ambiguità sexy, e anche per essere il prodotto di una spregiudicata pianificazione commerciale, di non risultare particolarmente congruente con lo statuto ideologico neocomunista. Sono incerti della cultura postmoderna. Tuttavia nello stesso tempo si può anche mettere a fuoco che a Bologna il sindaco Guazzaloca ha dato il suo via libera al rave antiproibizionista che per il settimo anno attraverserà le strade di Bologna. In attesa di sapere se il suo avversario alle comunali dell'anno prossimo sarà effettivamente Sergio Cofferati, Guazzaloca si è comportato come si comporta un liberale senza fisime: prendendosi anche il rischio di qualche contraccolpo politico, dato che gli esponenti di Alleanza nazionale, suoi alleati in consiglio comunale, hanno parlato subito di "grave errore" del sindaco. Conclusione. Sarebbe il caso di piantarla con i proclami di liberalismo unilaterale. Dovrebbe essere chiaro che la patente liberale non viene rilasciata in seguito a pronunciamenti epocali contro il comunismo e i comunisti, e a esorcismi sulla minaccia alla democrazia portata dalle sinistre, bensì in seguito a comportamenti pratici sul campo. Il significato di piccole storie come quelle di Milano e di Bologna è che il gusto per la libertà non dipende dalle collocazioni d'area politica. Ogni decisione che implica tolleranza comporta anche modesti sacrifici politici, e un gusto per la convivenza civile che trascende l'enfasi dei valori irriducibili. I valori si praticano giorno dopo giorno. E sono proprio le scelte quotidiane che offrono ai cittadini la possibilità di giudicare se i liberali sulla scena politica sono autentici, o se sono taroccati, come talvolta sembra.