LA STAMPA
LA STAMPA, 03.12.1996, SOCIETA' CULTURA E SPETTACOLI
IL PAESE DEGLI ERRORI
Si fa presto a dire ignoranti: il fatto è, potrebbe dire un Ceronetti, che l'ignoranza vera è una virtù, una condizione ontologica che avvicina misteriosamente alla beatitudine e alla santità, allude in modo disarmante al divino e alle sue prerogative. Invece, quando Umberto Bossi, come è successo di recente, chiama in causa il gulasch ungherese intendendo il gulag sovietico, si possono fare matte risate, ma non è affatto detto che il capo della Lega sia un ignorante. Molto più probabilmente è uno che ha imparato troppo in fretta, che ha stratificato nella sua rete neurale una quantità eccessiva di informazioni: di tanto in tanto scatta un cortocircuito beffardo ed ecco il gulasch al posto del gulag, un lapsus formidabile perché sembra connaturato con la fisionomia di Bossi, studente fuori corso, inventore di mitologie, straordinario orecchiante e dominatore di pizzerie. Dagli strati dialettali del Bossi prima maniera usciva una volta la «gabina» elettorale, che ben presto divenne quasi una sua civetteria, una strizzata d'occhio ai militanti della Lega in quanto movimento «popolano», un segno di riconoscimento: gli altri sono gente leccata che parla con un birignao politico impregnato di falsità: la Lega parla la lingua dei suoi elettori, va dritta alla sostanza delle cose, parla come mangia. E se talvolta nel menù del giorno c'è il gulasch, ancora meglio, è un tocco di Mitteleuropa in più. D'altronde, quando Berlusconi dice «chiacchere», oppure «è un fatto prodromico», non usa proprio il linguaggio del nucleo duro del suo elettorato, dei promotori finanziari e dei venditori di pubblicità? È difficile quindi oggi riconoscere gli ignoranti «veri». Lo stesso Adriano Celentano, che si autoqualificò con la sigla di «re degli ignoranti», e quindi portatore di un messaggio di ingenuità contestatrice, non è un naïf sino in fondo: in quanto piuttosto è un teorizzatore, un rielaboratore di informazioni messe insieme alla rinfusa e assemblate in prodotti dottrinari. In qualsiasi bar si incontrano tipi umani cosiffatti, che svelano dietrologie colossali e macchinazioni cosmiche. Assistere a uno spettacolo di Beppe Grillo significa assistere alla estremizzazione scientifica di questo procedimento: si svelano nessi causali tra fenomeni apparentemente remoti, immaginando di conseguenza soluzioni meravigliosamente eccentriche, a cui nessuno pensa, o a cui pensano soltanto emarginati e misconosciuti, vittime designate della scienza e della cultura ufficiali. Per un paese con indici di lettura non europei, l'ignoranza comunque è un peccato (o una condizione) evidentemente meno grave dell'esibizione di cultura. La competenza è tollerata soltanto quando è limitata, settoriale, specifica, e quindi approfondita in una sola dimensione, che si tratti di terremoti, di entomologia o di paleoantropologia. In modo da dare al pubblico televisivo la possibilità di sbalordirsi per le conoscenze esoteriche dell'esperto, immediatamente configurato come attraente mostruosità, un freak della conoscenza. Nel caso invece di una cultura «generale» che si esprime con l'appropriatezza del lessico, e magari con una certa complessità nell'articolazione del pensiero, nasce subito l'insofferenza. Troppo complicato, commenta fra sé la Mara Venier di turno, i bambini ci guardano, e anche le nonne, e non possiamo fare crollare l'audience con certe esibizioni. Perché l'ignorante vero si rivela nella sua tenace indifferenza, e anzi per il suo rancore, verso la forma. Ciò che conta, per lui, è solo ed esclusivamente la sostanza. Il favore popolare verso Di Pietro è dato certamente dall'azione svolta nell'indagine Mani pulite, ma è sottolineato dalla consistenza autenticamente popolare dell'ex più ex d'Italia. Dallo storico «che ci azzecca», ai sette definitivi «basta!» delle ultime dimissioni, il vocabolario di Di Pietro è quello che ci vuole per solleticare la voglia di materialità: quando il Tonino nazionale dice «soldi» si sente ancora adesso il frusciare di lontane mazzette, quando parlava dei cantieri da riaprire sembrava di sentire il rombare di camion e il rumore delle betoniere. E tanto meglio se l'ortografia e la sintassi vacillavano, come dicevano i disfattisti del suo ministero: perché l'attivismo non si fa imbrigliare da troppe regole. Il fatto è che la forma è fastidiosa. Non appena Ernesto Galli della Loggia ha criticato sul Corriere della sera la qualità dei tre volumi del progetto per Roma olimpica, indicando puntigliosamente gli errori fattuali (fra cui le regioni italiane che sarebbero 19 anziché 20 e l'onnipresente Di Pietro designato come ministro degli interni anziché dei lavori pubblici) e gli strafalcioni formali della traduzione in inglese, che dà luogo a un «anglo-romanesco» tale da indurre Galli della Loggia a chiedere: «Come si può affidare l'organizzazione di una cosa complessa e irta di insidie come le Olimpiadi a chi dimostra di non essere neppure in grado di far eseguire una traduzione decente dall'italiano all'inglese?». Ma ciò che è risultato più interessante è la risposta del sindaco Rutelli, il quale ha ammesso che la traduzione all'amatriciana era piena di errori e refusi. «Ma - ha aggiunto in modo apodittico - la bontà del progetto non viene messa in discussione». Vale a dire: la forma faceva schifo, ma la sostanza è buona, garantisco io. E il direttore del Comitato Roma 2004, Raffaele Ranucci, aggiunge con animo esulcerato che le critiche di Galli della Loggia gli fanno «melanconicamente intendere che il più importante e diffuso quotidiano italiano ha deciso di assumere una linea contraria al nostro progetto di organizzare a Roma i Giochi Olimpici del 2004». Dietro alle censure verso una traduzione deplorevole ci sarebbe quindi una macchinazione, o per lo meno una presa di posizione aprioristica: mentre noi, noi del comitato, «in questa candidatura crediamo». * * * Siamo agli atti di fede, dunque, e magari nei pressi di un conflitto tra fede e conoscenza. Credete voi...? Crediamo! Ed è un conflitto che si presenta quasi ogni giorno e su qualsiasi argomento, dato che negli ultimi anni gli italiani si sono dovuti sottoporre a un apprendimento a tappe forzate. Hanno dovuto fare un corso di recupero sul liberalismo, per anni disprezzato come l'espressione del privilegio «borghese». Ha scritto su questo giornale Enzo Bettiza il 24 novembre: «Chi liberale, chi liberista, chi liberal, chi liberalcattolico, chi liberalsocialista, pare che tutti, non solo a sinistra, siano animati dalla volontà di riportare nella pericolante società italiana della seconda Repubblica il soffio di una filosofia politica che ha avuto in Croce il più eminente capostipite». Tutti laureati in liberalismo (eventualmente con i corsi di sostegno reclamizzati negli spot televisivi, che lanciano il diseducativo messaggio che ci si può laureare senza fatica e senza frequenza). Così come fino a pochi mesi fa il termine dominante, il passe-partout del grand hotel politico era «liberaldemocratico». Logico che il passaggio accelerato dalla vulgata marxista a Popper e Hayek abbia prodotto qualche sfilacciatura. Anche perché il passaggio al liberalismo è avvenuto insieme alla riscrittura della legge elettorale e soprattutto al dibattito sulla riforma istituzionale, che ha imposto una full immersion in settori di competenza che prima erano pressoché tabù. Con il risultato che tutti si sono dati volonterosamente all'approfondimento dell'ingegneria costituzionale, studiando le leggi elettorali e le formule istituzionali nostre e altrui, salvo poi trovarsi spiazzati all'improvviso allorché un maestro come Giovanni Sartori citava lì per lì il presidenzialismo finlandese, gettando nello sconforto gli astanti. E anche adesso Sartori non perde occasione per sottolineare con la matita blu gli erroracci dei presunti esperti di riforme, smontando regolarmente le false convinzioni associate al sistema maggioritario e alle sue interpretazioni di comodo. L'altro settore critico, su cui ci si è dovuti fare una cultura fin troppo rapidamente è stato nell'economia. Dismal science, scienza triste (ma con una sfumatura in più, di malinconia, di depressione) nella definizione di Carlyle, l'economia è stata felicemente evitata ed evitabile negli anni della grande dilapidazione, quelli che coincidono con la fase finale della Repubblica dei partiti. Adesso invece ci si è dovuti dotare dei principali strumenti analitici, per poter circolare senza troppi timori tra le grandezze macroeconomiche. Ciò nonostante la differenza concettuale tra il deficit, cioè il fabbisogno annuale determinato dal saldo fra entrate e uscite, e il debito pubblico, vale a dire il montagna incantata dei due milioni di miliardi accumulata dallo Stato, questa differenza rimane ancora indistinta, incerta, ballerina. L'economia è piena di trappole. Si accende la tivù, la sera, e il telegiornale informa che l'inflazione si è ridotta. Dopo di che, servizio sul campo ai mercatini della frutta e verdura, in cui si chiede alle brave massaie che cosa ne pensano del calo dei prezzi: confondendo piuttosto fastidiosamente calo dell'inflazione, cioè il calo dell'aumento, con il calo vero e proprio: e quindi inducendo le massaie a legittime manifestazioni di sfiducia e talvolta di furore. Insomma, più che di ignoranza bisognerebbe parlare di inadeguatezza. Ce ne stavamo bene, qui, indifferenti ai parametri di Maastricht, al doppio turno alla francese, al modello Westminster, al federalismo tedesco, al rapporto fra deficit e Pil. Fino a non troppo tempo fa nel nostro paese si discuteva ancora se si sarebbe potuto realizzare il socialismo senza la dittatura del proletariato. Adesso ci si è adeguati, ma il passaggio è stato troppo repentino per essere indolore. È stato come passare dalla cucina della nonna, o della trattoria sotto casa, a un ristorante esotico, con proposte quasi incomprensibili. Alzi la mano quindi chi, all'estero, di fronte alle indicibilità della nouvelle cuisine o all'incomprensibilità delle portate non si è salvato indicando sul menù l'unica cosa che aveva capito: gulasch, e crepi l'ignoranza.
LA STAMPA, 02.12.1996
L’ALTERNATIVA NON E’ IL PASSATO
Malgrado l'alone di imprecisione che circonda i suoi orientamenti e le sue scelte, il governo Prodi ha puntato buona parte della propria credibilità politica sul raggiungimento di alcuni dei parametri di Maastricht, in modo da poter partecipare fin dal 1999 all'Unione monetaria. Quindi il governo di centrosinistra non ha vie di scampo: o centra l'obiettivo europeo, oppure è politicamente finito. Diverso sarebbe stato se, di fronte alla determinazione dei principali paesi europei di procedere verso l'Euro, si fosse valutata la partecipazione italiana alla moneta unica come un evento dai tempi troppo stretti e dalle modalità troppo rigide. Era stato Prodi stesso a dire e a ridire ai suoi critici che voleva portare in Europa «un paese vivo e non un paese morto», e quindi la soluzione di un ritardo programmato, concordato puntualmente con i partner europei, sarebbe stata tutt'altro che irrazionale. Ma poiché il governo ha deciso di tentare il tutto per tutto al fine di prendere parte all'unione monetaria fin dalla prima fase, la discussione sull'opportunità di ritardare l'ingresso italiano (in modo da alleggerire la pressione sulla società e l'economia del nostro paese) dovrebbe di per sé avere poco spazio, almeno se si prendono alla lettera i pronunciamenti di prodi e Ciampi. In realtà sulla fermezza di Prodi qualche dubbio è lecito, visto che parlando con lo Herald Tribune ha accennato alla possibilità di avvicinare, ma non di raggiungere, il parametro del deficit pubblico al 3 per cento del Pil. Questione di pochi decimali. Ma dietro quei decimali, che pure possono scavare un solco fra l'Europa e l'Italia, c'è anche una questione politica rilevante. Il governo dell'Ulivo ha compiuto infatti un investimento altissimo sulla dimensione europea. Ha chiesto ai cittadini un contributo pesante, non solo attraverso tasse specifiche, ma anche mettendo in conto un indebolimento della congiuntura economica, un rallentamento alla crescita del reddito, un raffreddamento dei consumi. Ma appunto per questo occorre mettere in conto un aspetto complementare. Si possono infatti chiedere sacrifici, imporre nuove tasse, si può imboccare un sentiero di estremo rigore; ma tutto questo a una sola condizione: che le misure adottate dal governo vengano percepite senza ambiguità dai cittadini come la fase decisiva e finale del risanamento. Se invece si rimane fra contorni di incertezza la situazione cambia, e cambia radicalmente. Perché se alla fine del primo trimestre ci si rendesse conto che i provvedimenti assunti fin qui non sono riusciti a mettere il deficit pubblico in linea con Maastricht, non ci troveremmo più dentro una questione contabile, in cui si tratta di ridurre i decimali alla ragione. Ci troveremmo invece dentro una questione duramente politica, dove quei decimali diverrebbero montagne. In sostanza, è difficile capire se il governo ha valutato sino in fondo le possibili implicazioni della sua scommessa europea. E soprattutto se ha messo in conto il contraccolpo bruciante che si avrebbe nel caso che la prospettiva europea restasse lontana malgrado gli sforzi richiesti al paese. Di qui a marzo, potrebbe diventare necessaria una manovra correttiva. Ma questo governo è in grado di affrontare una fase di ulteriore severità finanziaria? Oppure ha già bruciato sulla finanziaria e l'eurotax tutte le sue risorse politiche e la sua credibilità? L'opposizione, o meglio, le frange più movimentiste del Polo, incarnate dal Ccd, hanno già scommesso che il governo attuale non sarà in grado di reggere il peso politico della possibile nuova stangata. Fare politica significa anche disegnare scenari: e dunque Pierferdinando Casini si è fatto portavoce della possibile soluzione nel caso di una «maledetta primavera»: governo di unità europea, con l'esclusione di Rifondazione comunista, ma ancora presieduto da Prodi. Sorpresa. fino a ieri, il Polo chiedeva o si augurava la caduta del governo Prodi, considerandolo il responsabile di un plumbea recessione. Oggi i postdemocristiani del Polo sono disposti ad accettare anche un Prodi bis. A quale scopo? Ma di rientrare nel gioco politico, naturalmente; e auspicabilmente di far saltare la linea di divisione fra il Polo e l'Ulivo, cioè il crinale del bipolarismo. Tutti insieme per l'Europa significa rimescolare le carte, mettere la politica in un crogiuolo, forse provocare la fusione dei Poli per favorire la nascita di qualcos'altro, nuove ricomposizioni, nuove aggregazioni. È un disegno politicamente efficace: solo che per raggiungere il nobile approdo dell'Europa propone in cambio di rifare qualcosa di simile all'Italia della proporzionale. Per adesso, in realtà, è bene che ciascuno affronti gli esiti delle proprie azioni secondo un criterio vincolante di responsabilità. Quindi è bene che il governo affronti la campagna di primavera assumendosi tutto il peso dei risultati che avrà ottenuto, positivi o negativi. Dato che sulla questione europea ha impegnato tutto, sarà opportuno che interpreti il responso sull'efficacia delle politiche attuate come un giudizio definitivo. Lo ha detto lo stesso Prodi: «se non andiamo in Europa mi dimetto». Nella sua concisione era un ottimo programma, e c'è da augurarsi che venga interpretato con la coerenza che merita.
LA STAMPA, 30.09.1996, SOCIETA' E CULTURA
MA IN ITALIA SERVIREBBE IL GARANTE
Scoraggiare vivamente l'idea di fare il dizionario degli intellettuali italiani. Perché bisognerebbe innanzitutto creare un comitato di intellettuali per definire chi sono gli intellettuali, nominare il relativo Garante, dare l'incarico a un accreditato centro studi. E poi: per i francesi è facile, gli intellettuali li hanno inventati loro, ne hanno fatto una professione, un ceto, una figura sociale, un interlocutore del potere, uno stereotipo. Da noi invece l'intellettuale è una figura indistinta. Un eclettico, un versatile: è effettivamente il «tecnico dell'universale», una specie di meccanico dei grandi sistemi, meglio se grandissimi e irriducibilmente complicati. Lo si chiama sul cellulare quando il sistema è in panne, e lui porta la cassetta degli attrezzi per smontarlo ed emettere la diagnosi. Max Weber poteva permettersi di consigliare a chi chiedeva «visioni del mondo» di andare al cinema. Oggi invece il mercato chiede senza ironia solo fotogrammi di Weltanschauung. In cui, protagonista o comparsa, l'intellettuale comunque compare. Compare Veltroni che manipola da giocoliere i suoi generalismi veltronici. Ed ecco Cacciari, passato rapinosamente dall'angelologia al federalismo. O preferite una lettera semiseria di Arbasino, un reportage rock di Baricco, una bustina polemica di Eco, un'interpretazione storica di Vassalli, un giudizio politico di Velasco, un'intervista a Modigliani mediata da Beppe Grillo? C'è, basta chiedere. È caduta ogni paratia. Non avevamo avuto il banchiere umanista, e di recente, per strani scherzi delle ferrovie ai danni della letteratura, il Boiardo assimilato al Magnifico? Confusione, confusione. Sulle colonne dei giornali Giovanni Sartori non propone scienza politica, ma la veritiera e ultimativa formula a due turni per governare l'Italia. Scienziato? No, intellettuale. Simmetricamente, gli intellettuali politicizzati da Forza Italia, i Colletti, Melograni, Pera, Rebuffa, Vertone, sono l'iperbole dell'impolitico, nel ruolo presunto di fornitori di idee al Principe, e nel ruolo reale di propugnatori di interpretazioni liberali non negoziabili, lievemente ossessive. E quindi come si fa a circoscrivere e individuare lo status di un tecnico così generalista? Impossibile. La categoria comprende il tassista engagé, l'inviato alla Spezia, Bertolucci e i suoi adoratori, Santoro e i suoi sollaboratori, lo scrittore Siciliano e il giurista Scudiero, ma anche il leghista che proclama la secessione al Caffè Commercio e il signore in età che citando De Felice insiste sulla tesi della grandezza di Mussolini «se non fosse entrato in guerra». La Francia è cartesiana, razionale, enciclopedica, illuminista. Per noi italiani, cultori della insondabile complessità del moderno, il dizionario servirebbe solo a dire «c'è questo, c'è quello», e soprattutto per controllare se ci siamo tutti noi, e infine per gioire con felicità insensata se le pagine gialle dell'intellighenzia avranno dimenticato qualcuno di quegli altri.
LA STAMPA, 30.12.1997, SPETTACOOLI
MODERNITA’ CON UN’ECO MEDIOEVALE
senza descrizione
LA STAMPA, 04.12.1997, CRONACHE
NATURALE VOCAZIONE ALLA LIBERTA’
All'inizio degli anni Ottanta il settimanale Panorama pubblicò una piccola enciclopedia della satira politica, conducendo anche una indagine chiedendo ai direttori di giornali e riviste di indicare chi fossero i tre migliori disegnatori di satira. Di Jacovitti non si ricordò praticamente nessuno: l'unico a citarlo, al terzo posto della sua classifica personale, fu Livio Caputo, allora direttore della Notte. Chiaro, no? L'unico a indicare un disegnatore di destra era un giornalista di destra. Sfortunato, dal punto di vista politico, Jacovitti. A partire dal nome, Benito, affibbiatogli da un padre che aveva fatto la marcia su Roma. Sfortunato durante il ventennio fascista, se è vero che a 19 anni, nel 1942, meritò già la convocazione di Alessandro Pavolini, ministro della cultura popolare del regime, che lo invitò a essere più rispettoso verso le istituzioni fasciste. E sfortunato anche dopo. Perché il liberale Jacovitti, «anarchico liberale» secondo Forattini, era in realtà una specie di Democrazia cristiana: la massa comprava milioni di copie del Diario Vitt e votava Cocco Bill, ma le avanguardie arricciavano il naso di fronte alla perfetta, totale, esemplare irresponsabilità politica e culturale di Jacovitti. Oggi i disegnatori di sinistra, da Staino a Chiappori, piangono il maestro. Ma allora, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, Jacovitti era un reprobo. La sinistra vignettara discuteva in modo piuttosto acceso sulla libertà della satira. Oreste del Buono nel 1976 aveva lanciato il dilemma in un editoriale di Linus: «deve la satira politica limitarsi a colpire il potere oppure può rivolgersi anche all'interno della sinistra e affrontarne le contraddizioni?». E giù riflessioni pensose. Figurarsi come poteva essere vista allora la presenza su Linus di Jacovitti. Uno senza coscienza di classe, anzi, un inno all'incoscienza pura. Che si divertiva a satireggiare sulle fazioni di destra e di sinistra, senza le dovute distinzioni. Un affronto vivente e operante alla correttezza politica. Un «fascista». Anche perché in quegli anni Linus non era solo una rivista di comics. Era anche un rifugio epistolare, un luogo di dibattito politico, una palestra di esercitazioni letterario-rivoluzionarie, una comunità virtuale in grado di scomunicare i non allineati. Jacovitti dava fastidio sapendo di darlo. Quando a metà dei Settanta pubblicò su Linus la storia di Johnny Lupara, con le sue insopportabili facezie sugli opposti estremisti, i lettori più animosi insorsero, riempiendo la redazione di lettere di protesta. Lui, dopo un po', lasciò perdere la collaborazione. Ma accettò di riprenderla qualche anno dopo, suscitando un nuovo vespaio. La storia questa volta aveva per protagonista Joe Balordo, detective impegnato in una surreale questione di corna, niente di politicamente discutibile, ma ancora una volta il popolo dei fumetti insorse contro il «fascista» Jacovitti. Forattini ha ricordato che lui rese ancora più problematica la sua posizione di «maestro che sbaglia» pubblicando su Linus una vignetta in cui si vedeva proprio la rivista pendere dal gancio della carta igienica. Non era una vendetta, ma uno sberleffo. Un'irrisione non priva di complicità. Solo oggi possiamo riconoscere appieno la qualità del conformismo di allora, e la razionalità della vocazione di Jacovitti al «lasciatemi divertire». Adesso sarebbe sciocco trasformarlo in un maestro di democrazia. Ma sarà bene riconoscere che ciò che lo rendeva insopportabile allora, era soltanto una irresistibile propensione alla libertà.
LA STAMPA, 01.12.1997
IL PREMIO DELLA STABILITA’
Per come si stanno profilando, i risultati di questa tornata di elezioni amministrative sembrano in quasi perfetta linea con le previsioni. Nelle grandi città i sindaci del centrosinistra trovano una conferma che ne consolida la posizione. Leoluca Orlando e Enzo Bianco passano al primo turno, mentre a Genova Giuseppe Pericu rimedia nel ballottaggio alla non brillante prestazione dell'Ulivo dovuta alla mancata ricandidatura dell'ex sindaco Adriano Sansa. Si può dire insomma che i dati di ieri sera confermano e completano il quadro delineatosi due settimane fa. Oggi possiamo osservare un'Italia delle grandi città che esprime una coerente vocazione governativa: salvo poche eccezioni, di cui Milano è la più significativa, le aree metropolitane hanno scelto i candidati e le alleanze che ruotano intorno all'Ulivo. Le ragioni di questa scelta erano affiorate con una certa chiarezza anche quindici giorni fa, e dipendono in misura sostanziale dalla debolezza delle candidature del Polo ma anche dal consenso guadagnato dai sindaci uscenti, e in misura forse minore ma non insignificante anche da un effetto di riverbero del governo Prodi sulle amministrazioni locali. Anzi, una volta di più si può verificare che nella situazione politica attuale c'è un fattore da rilevare, ed è il «premio di stabilità» che viene consegnato a chi governa. Non è detto che ci sia una relazione diretta fra il buon rendimento elettorale dei sindaci del centrosinistra e il consenso al governo dell'Ulivo. Tuttavia se si considera in parallelo anche la fragilità dei programmi e dei comportamenti politici del Polo (continuamente in bilico fra la tentazione di inasprire la propria opposizione, come è avvenuto contro il decreto sull'Iva, e una prassi invece molto più moderata), viene da pensare che nei prossimi mesi sarà difficile impedire che il governo centrale si rafforzi e che guadagni un favore più diffuso nella società. Sembra quindi che il Polo sia destinato a perdere ulteriormente competitività politica. Se questo fosse vero, non si porrebbe forse un problema di leadership, dal momento che qualsiasi candidato esterno alla successione di Silvio Berlusconi è un candidato soltanto virtuale, mentre il candidato interno, Gianfranco Fini, è stato indebolito dal cattivo risultato nel voto di lista del primo turno, un dato che potrebbe cominciare a mostrare per An limiti fisiologici di sviluppo. Ma se è opportuno abbandonare gli esercizi divinatori sul futuro capo del Polo, rimane invece sul tappeto una questione di alleanze. È evidente infatti che il centrodestra può tornare concorrenziale soltanto rimettendo insieme le «tre destre», cioè ricomponendo in forme nuove la coalizione del 1994. Ma è possibile venire a patti con una Lega che dimostra di essere in grado di mantenere le proprie roccaforti, e che comunque conserva quote di elettorato consistenti anche se politicamente poco utilizzabili? Esponenti di Forza Italia come Tremonti e Frattini hanno lanciato da tempo proposte e messaggi alla Lega. Soprattutto il primo è riuscito anche a trovare uno slogan piuttosto efficace, secondo cui «la secessione l'ha già fatta l'Europa», in quanto determina cessioni di sovranità così consistenti da rendere sorpassata e inutile l'idea «ottocentesca» del separatismo. Ma abbiamo già visto tre anni fa che un'alleanza politica non deriva da una semplice sommatoria di elettorati, e occorre considerare che eventuali accordi con Bossi potrebbero avere pesanti ripercussioni dalle parti di Fini. Il centrodestra si trova quindi dentro la maledizione di un triangolo scaleno che in questo momento appare come una figura troppo irregolare per poter fare da base alla politica futura del Polo. La contraddizione fra An (ma anche i postdemocristiani della coalizione) e la Lega non sembra infatti mediabile. Se le cose stanno così, è probabile che toccherà a Bossi inventarsi la prossima mossa. Ma poiché non ci sono a breve scadenza occasioni elettorali per rendere efficaci invenzioni o reinvenzioni politiche clamorose, ci si può aspettare che la Lega cercherà in Parlamento di movimentare la situazione, proprio come ha fatto nei giorni scorsi, per recuperare visibilità. Più che sulla legge finanziaria, il banco di prova potrebbe venire col nuovo anno, cioè con l'avvio della discussione sul progetto della Bicamerale. La discussione sulle riforme costituzionali può diventare la prova tecnica del rinovo del centrodestra. Potrebbero andare a rischio le riforme, se il prezzo fossero innovazioni come una soluzione «confederale». Ma potrebbe entrare in discussione anche il Polo così com'è: perso per perso, chi l'ha detto che le alleanze, e i triangoli, devono essere eterni?
LA STAMPA, 28.11.1997, SOCIETA' E CULTURA
PRESIDENTE ALLA FRANCESE O ALL’ITALIANA?
Un faccia a faccia tra costituzionalisti, politologi, uomini politici ed esponenti delle istituzioni. In discussione, il presidenzialismo: quello francese, reale, e quello italiano, virtuale. Il tema del Primo convegno italo-francese, che si tiene oggi e domani a Bologna, organizzato dalla Facoltà di scienze politiche insieme con il Servizio culturale dell'ambasciata di Francia, è infatti «L'istituzione presidenziale: caso francese e ipotesi italiana». Che la discussione del progetto uscito dalla Bicamerale sia scivolato all'anno venturo non toglie niente all'attualità dell'iniziativa, che per la parte francese si avvale della sigla culturale della rivista Pouvoirs e di Le Monde, affiancati per il nostro Paese da il Mulino e La Stampa. È previsto infatti uno schieramento ragguardevole di esperti di sistemi costituzionali: fra gli altri, Piero Ignazi, che aprirà i lavori (una sintesi della sua introduzione è pubblicata in questa pagina), Augusto Barbera, Carlo Guarnieri, Oreste Massari, Angelo Panebianco, Gianfranco Pasquino, mentre sul versante francese spiccano i nomi di specialisti come Hugues Portelli, Yves Mény e Jean Luc Parodi. Sabato mattina invece sarà la volta del confronto esplicitamente politico, con la presenza di Leopoldo Elia, Domenico Fisichella, Stefano Passigli, Giorgio Rebuffa, Cesare Salvi e il presidente del Senato Nicola Mancino. Forse nulla come la soluzione presidenziale rappresenta un discrimine cruciale fra il passato e il futuro della Repubblica. E il modo rocambolesco con cui essa è prevalsa nella Commissione per le riforme (con l'intervento decisivo della Lega a scombinare i giochi), insieme ad affannosi tentativi di stemperarne la portata, la dicono lunga sulle aspettative e sulle paure che essa induce. Non c'è in discussione soltanto un passaggio formalistico tra assetto parlamentare e regime presidenziale. Le ricadute sull'intero sistema politico potrebbero essere infatti molto consistenti. Perché il sistema presidenziale non si limita a spostare il baricentro del potere, riducendo e talora marginalizzando il ruolo del Parlamento: concentra l'azione politica nella leadership, la personalizza, tende a rimodellare i partiti in funzione del capo. È per questo che una parte significativa della Bicamerale, e specialmente quella collocata nel centrosinistra, ha cercato strenuamente di temperare il presidenzialismo, limitando i poteri del capo dello Stato e mantenendo al Parlamento molte prerogative. Inoltre fuori dalla Commissione è stata concordata una ulteriore riforma della legge elettorale, che sembra pasticciare ulteriormente la formula maggioritaria e sottolineare nuovamente il potere dei partiti. Detto questo, bisognerebbe mettere a fuoco che probabilmente la soluzione presidenziale non appare più un «mito palingenetico» (come l'ha chiamata Mauro Calise nel volume curato da Ilvo Diamanti e Marc Lazar Stanchi di miracoli. Il sistema politico italiano in cerca di normalità). Anche in Francia il modello presidenziale viene ridiscusso, tanto che il sociologo Michel Crozier ha segnalato le distorsioni intrinseche in un sistema che consente certo la decisione politica, anche quelle autodistruttive come il coup de poker con cui Jacques Chirac ha sciolto l'Assemblea nazionale finendo per consegnare il potere ai socialisti di Jospin; ma poiché la decisione politica avviene in un «ambiente» sociale che non riesce a trasmettere il comando (perché poco strutturato, privo di corpi intermedi) la risposta ricorrente è l'insurrezione di piazza, la rivolta fragorosa dei ceti investiti dalle misure del governo. Oggi in Italia diversi fattori giocano contro riforme istituzionali incisive. La stabilizzazione politica, i risultati macroeconomici ottenuti dal governo, la prevedibile durata dell'esecutivo attuale attenuano la sensazione di urgenza. Prima che la riforma della Costituzione venga considerata poco più che una scorciatoia per ottenere ciò che la politica per prove ed errori può invece ottenere da sola, vale la pena di misurare da vicino la distanza fra le «ideologie» costituzionali di casa nostra con l'esperienza istituzionale effettiva della Repubblica francese.
LA STAMPA, 27.11.1997, TUTTOLIBRI
L’UNIVERSITA’ BORGHESE NON SI ABBATTE E NON SI CAMBIA
senza descrizione
LA STAMPA, 24.11.1997
LA VERA CRISI DELLA DESTRA
I risultati alle elezioni amministrative hanno scatenato la turbolenza nel Polo. La posizione di Berlusconi è tornata sotto tiro, anche perché nel frattempo Cossiga si è dichiarato pronto a guidare una formazione alternativa al Polo e all'Ulivo. L'iniziativa dell'ex presidente della Repubblica è nata male, dato il troppo evidente tasso di reducismo, ma sicuramente è stata il segnale che si è riaperto il mercato per quell'elettorato centrista che finora accasatosi, per convinzione o rassegnazione, in Forza Italia. Ma è giusto considerare le convulsioni nell'area centrista come «il» problema dello schieramento di destra? È giusto se si guarda alla cronaca politica spicciola: la dissoluzione di Forza Italia sarebbe effettivamente un evento politico di prima grandezza. Ma da un punto di vista «di sistema» non ci sarebbe poco di sconvolgente. Dell'elettorato di Forza Italia infatti si conosce piuttosto bene il profilo. È buona parte di quel paese sommerso che votava per la Dc e il Psi e che ha visto in Berlusconi un salvagente. Un'Italia che forse non crede del tutto nel mercato ma sicuramente crede meno nello Stato. Liberale senza avere una cultura liberale. Comunque, un segmento di società senza segreti, che aspetta semplicemente un soggetto politico in grado di rappresentarlo efficacemente. Che sia Berlusconi o Cossiga, il capo di questo soggetto politico, e che quest'ultimo che si chiami Forza Italia o «partito democratico», non fa troppa differenza. Certo occorrerà un programma politico coerente e qualche idea chiara. Se si pensa che Berlusconi in un'intervista a Bruno Vespa pubblicata sull'ultimo numero di Panorama spiega come «scontato» il successo dell'Ulivo nelle grandi città perché «già nel 1993 Bassolino, Cacciari e Rutelli erano stati eletti al primo turno con maggioranze schiaccianti di oltre il 55 per cento» (mentre in realtà erano finiti in ballottaggi difficili) si capisce che c'è un gran bisogno di argomentazioni migliori. Ma questo riguarda la qualità della leadership politica, non la qualità degli elettori e la qualità delle ispirazioni politiche di fondo. Dov'è allora la crisi vera del centrodestra? Forse vale la pena di rivolgere lo sguardo più in là nel Polo, verso Alleanza nazionale. Un partito il cui pesante arretramento elettorale (nove punti percentuali persi rispetto alle politiche del 1996) è giunto inaspettato, dato che tutti si attendevano che An continuasse ad avere successo per le stesse ragioni per cui lo aveva ottenuto da quando Gianfranco Fini era entrato in campo contro Rutelli a Roma nel 1993. Ragioni in realtà non troppo autoevidenti. Fondate soprattutto sulla felicità di espressione del suo leader, e che hanno fatto pensare che dietro la sua capacità retorica ci fosse una chiara visione politica, una serie congruente di obiettivi, e in fondo una cultura. In realtà Fini era la faccia televisivamente efficace di una trasformazione politica affrettata. Se An avesse dovuto affrontare tutti gli esami di democrazia e di liberalismo a cui è stato sottoposto il Pci-Pds, la svolta di Fiuggi sarebbe apparsa una trovatina estemporanea. In ogni caso non si è capito verso quali ulteriori tappe An avrebbe condotto la sua trasformazione. Fini ha continuato a imperversare nella tattica, a sbaragliare molti avversari in tv, ma senza fare intendere che cosa voleva. Giocando su un equivoco, ha suscitato aspettative che inevitabilmente sono state frustrate. Battezzata come un partito capace di coniugare libertà e autorità, liberismo di mercato insieme a un'inclinazione «sociale e cristiana», An è capace di fare sentire le sue impazienze quando c'è di mezzo l'immigrazione, ma sul resto, sulla giustizia come sulla riforma del welfare non sembra avere una linea chiara. Tanto è vero che, nell'imbarazzante silenzio del Polo sulla riforma delle pensioni, Fini è riuscito a bocciarne l'unico elemento qualificante, cioè l'equiparazione fra lavoratori pubblici e privati. A seguire le evoluzioni annunciate di An, le idee non si chiariscono. Prima si annuncia un destino thatcheriano, e protestano i capifila della destra sociale, poi si profila un programma di destra americana, quindi si recupera in ritardo Karl Popper e la società aperta, per concludere con il «modello Giuliani», dal nome del sindaco di New York teorizzatore della «tolleranza zero» verso l'illegalità. In queste condizioni la «Fiuggi 2», il nuovo appuntamento programmatico previsto a Verona il 20 febbraio, potrebbe avere una portata molto limitata, proprio a cagione delle profonde incertezze sulla fisionomia da assumere. Certo, è difficile trasformare un partito nazionalista, populista, protezionista, percorso da vibrazioni ribellistiche e da emotività antisistema, in un partito davvero liberale, in una destra moderna in quanto omologata. Per questo, di qui all'appuntamento veronese, può darsi che il vero punto di debolezza per i liberali di centrodestra venga individuato proprio in An. Il che non implica necessariamente rotture traumatiche fra il centro e la destra, ma più pragmaticamente la messa a fuoco che la competitività del Polo (o di quello che sarà) va giocata tutta sul centro dello schieramento, scontando come fisiologica una certa marginalizzazione degli ex missini, e mettendo da parte le illusioni che Fini possa essere il cavallo di riserva per la leadership dello schieramento. Per recuperare quello che Berlusconi chiama enfaticamente «lo spirito del '94», ma che più semplicemente essere definita un'egemonia liberale su un programma proposto senza equivoci a tutta la società italiana.
LA STAMPA, 22.11.1997, ECONOMIA
IL CETO MEDIO SI DISSOLVE NELLE TRAPPOLE DEL WELFARE
Spina dorsale del paese o aggregato parassitario? I ceti medi sono una di quelle figure convenzionali che si usano per indicare la maggioranza del Paese, uno stile di vita prevalente, comportamenti socialmente dominanti. Tutti e nessuno, insomma; qualcosa di simile alla galassia dei «moderati» in politica. Ma con una caratterizzazione lievemente ma sensibilmente negativa: si dice ceti medi e si forma l'idea di una stratificazione amorfa, un macchia d'olio che galleggia sulla società. Ceti medi sotto tiro. Medi e spensierati. Medi e spendaccioni. In due interviste pubblicate sulla Stampa giovedì e venerdì, Gad Lerner ha raccolto la severa riflessione critica prima di Giuliano Amato e poi di Massimo D'Alema. Divisi forse sull'effettivo potenziale riformista del centrosinistra, ma accomunati in un giudizio crudo sui ceti medi. Dice Amato: «Vi è un'anomalia nei ceti medi italiani, gli unici al mondo che hanno consumi simili ai ricchi. Altrove la frugalità è una virtù... Non faccio del moralismo sui telefonini. Ma è chiaro che se proponiamo ai ceti medi italiani di autogestirsi liberamente il risparmio in vista della vecchiaia, ciò comporterà una riduzione dei livelli di consumo quotidiano. E che sarà mai, un'estate senza crociera? Meno file al ristorante?». Il segretario del Pds sottoscrive: «È vero che il ceto medio italiano è ricco», ed è lo specchio di un Paese «conservatore» perché «abituato fino a ieri a vivere al di sopra delle proprie possibilità», propenso a difendere lo status quo nel nome di «un diffuso tessuto corporativo e particolaristico». In realtà i ceti medi dovrebbero essere tutt'al più una generica concezione statistica. E invece appaiono intrisi di valori negativi, o non-valori. Qualche mese fa Giuseppe De Rita ha pubblicato un volume, Intervista sulla borghesia in Italia, in cui sosteneva che nel nostro Paese non esiste un vero ceto borghese: c'è invece una «enorme bolla di ceto medio», priva di quelle nervature e di quei canali di selezione che danno luogo invece alla borghesia classica. Eppure non troppo tempo fa, all'inizio degli anni Novanta, Romano Prodi glorificava il «modello renano» sulla scia dell'analisi-manifesto dell'economista Michel Albert (Capitalismo contro capitalismo). Cioè capitalismo europeo contro capitalismo anglosassone. Stabilità sociale contro supermobilità. Possibilità di investimenti «a redditività differita», come si dice oggi, contro l'obbligo a rendimenti immediati. Ma soprattutto, a vantaggio dei «renani», una prestazione redistributiva di lungo periodo tale da creare ceti medi più estesi: con l'idea naturalmente che ciò fosse uno strumento di riduzione delle differenze e di distribuzione del benessere. La formula italiana per temperare il vantaggio sociale attraverso la redistribuzione del reddito è stata in genere di tipo compromissorio. In ogni caso ha predisposto la tutela senza mai riuscire a creare slancio. «Meno ai padri e più ai figli», ha sostenuto in un libro recente e provocatorio uno dei consiglieri economici di D'Alema, l'economista Nicola Rossi: occorre sbloccare la società, darle dinamismo, puntare sulla formazione, selezionare gli interessi da premiare rispetto a quelli da colpire. In una popolazione che subisce la deriva demografica dell'invecchiamento la tesi è sembrata provocatoria anche perché colpisce una platea strategica di elettorato. Ma anche uno dei migliori politologi della nuova generazione, Maurizio Ferrera, che ha vissuto l'esperienza frustrante della commissione Onofri, non si stanca di segnalare le «trappole del welfare», quei meccanismi che contribuiscono a irrigidire la struttura sociale e che vanno aggrediti per liberare risorse. Il fatto è che la propensione al consumo privato che irrita Amato non cade dal cielo. Si è assistito a un processo a doppia dinamica. Da un lato una «proletarizzazione» dei ceti medi, avvertibile soprattutto nel settore impiegatizio, nell'amministrazione pubblica, fra gli insegnanti (il sociologo Alessandro Cavalli sottolinea che non si sono ancora valutati i costi sociali derivanti da un'istruzione affidata a un ceto mortificato, che ha maturato un forte risentimento verso lo Stato). Lo schiacciamento verso il basso dei salari fa sì che oggi una famiglia operaia difficilmente potrà consentirsi più di un figlio, dato oltretutto che tutte le ricerche mostrano che il «costo» dei figli si ritaglia quote sempre crescenti nel bilancio famigliare; ma anche una coppia di insegnanti farà una fatica improba a mandare i figli sino all'università. Dall'altro lato, ecco una proletarizzazione analoga anche dei consumi, che sono divenuti progressivamente disponibili anche alle fasce di basso livello di reddito: vacanze fuori stagione e a prezzo contenuto per gli anziani, viaggi popolari a Santo Domingo, charter disponibili per tutte le tasche. Sta di fatto che la curva dei consumi ha sempre il profilo all'insù (l'unico buco negli ultimi quindici anni è del 1993, calo del 2,4 per cento; perfino il 1996, che sembrava essere un'annata raggelante ha conosciuto secondo l'Istat una seppur piccola crescita (0,7 per cento). La contrazione delle risorse determina redistribuzioni nei consumi: si spende meno per l'alimentazione, anche in seguito ai prezzi della grande distribuzione; meno in vestiti e più in viaggi. Amato descrive il ceto medio come una fascia sociale dai guadagni limitati ma che ha un tenore di spesa da ceti superiori. La condizione (e il prezzo) di questo miracolo perverso è rappresentato da un welfare forzoso, sottratto alla responsabilità individuale, che sovraccarica lo Stato. D'Alema critica il particolarismo corporativo che crea sacche di privilegio. Resta da dire che i ceti medi sono e saranno il principale riferimento sociale per gli schieramenti politici che puntano al governo. E allora, o si ha alle spalle la rivoluzione thatcheriana o non la si ha. Tony Blair può puntare esplicitamente sull'istruzione e su obiettivi «postmaterialisti». E i suoi ispiratori, come Anthony Giddens, possono teorizzare il «centro radicale» e un'era della «post-scarsità», in cui è una società sostanzialmente libera dai vincoli economici a plasmare autonomamente forme e ritmi dello sviluppo. Oppure le riforme possono essere solo molto graduali, molto lente, non risolutive, continuamente ridiscusse. Il ceto medio italiano è stato creato anche dal ceto politico che oggi governa. Quindi rivoluzionare il profilo di un'Italia educata ai consumi «irresponsabili» è un'impresa che richiede una credibilità inedita. Il dilemma forse è tutto qui.