L’Espresso
L'Espresso, 03/07/2003
Chi non vuole la discoteca delle libertà
La polemica sulla chiusura anticipata delle discoteche è uno dei tormentoni che periodicamente riappaiono sulle pagine dei giornali. Funziona più o meno così. Di fronte all'ennesimo caso di "strage del sabato sera", viene fuori la proposta di porre limiti alla notte da ballo e da sballo. Subito dopo intervengono gli operatori del settore che negano l'utilità dell'eventuale provvedimento, e sostengono invece la necessità di controlli più accurati ed efficaci da parte della polizia stradale e autorità varie. Subito dopo, ecco il parere di sacerdoti impegnati nel sociale e nel mondo giovanile, i quali affermano che va bene la misura coercitiva, ma si tratta al massimo di un tampone, perché il problema vero è una questione di cultura: finché prevale il desiderio dell'eccesso, cioè un atteggiamento che cerca nella notte una trasgressione brada, i divieti avranno soltanto una funzione repressiva, che non tocca la struttura dei comportamenti giovanili. Dopo di che, di solito non avviene niente. Al massimo si parla di campagne di sensibilizzazione, cercando di trasformare i cultori dello sballo in altrettanti boy scout della notte, e tutto finisce in una vaga dichiarazione di intenti buonisti. Ma la settimana scorsa il consiglio dei ministri ha varato un disegno di legge piuttosto impegnativo, che contiene aspetti di qualche utilità presumibile (come il divieto di vendere alcolici dopo le due, e l'obbligo per i gestori di attenuare, dopo quell'ora, luci stroboscopiche e decibel) e il provvedimento più duro, vale a dire la chiusura delle discoteche alle tre. I difensori della notte libera sostengono naturalmente che il nuovo limite non serve a nulla: espulsi dai locali a metà del divertimento, fiumane di giovani invaderanno strade, spiagge, parcheggi, facendo comunque durare la loro notte fino all'alba, in condizioni ancora più precarie e disordinate. I proibizionisti dicono con chiarezza che se la repressione servirà a salvare anche una sola vita dal mattatoio stradale, vale la pena di vietare. Hanno dalla loro parte le statistiche, secondo cui in dieci anni la febbre della notte ha portato via seimila ragazzi. Posta in questi termini, la questione è indecidibile. Rappresenta un classico caso di contraddizione fra una visione libertaria, o semplicemente "liberista", secondo la quale è insensato che le istituzioni mettano il becco nei comportamenti individuali, e una posizione che sostiene di privilegiare un bene comune. La decisione a cui è giunto il governo si inserisce con nettezza in questo conflitto fra intento pedagogico e rispetto delle libertà private. Fra proibizionismo e laissez-faire. Insomma fra le due anime che continuano a esistere nello statuto ideologico del centrodestra. Di fronte allo strazio delle famiglie colpite negli affetti più cari, e di fronte all'inquietudine dei genitori che a ogni weekend aspettano ansiosamente il ritorno dei ragazzi, non è il caso di rilevare se il provvedimento sulla chiusura anticipata abbia anche un'intenzione volta alla ricerca di consenso. Piuttosto, ci si può chiedere se abbia davvero un senso razionale un provvedimento che si situa sull'ultimo anello della catena dei comportamenti giovanili. Cioè un messaggio implicito che dice: siete liberi di fare quello che volete, ma a una cert'ora tutti a letto. Il pragmatismo forse suggerirebbe di intervenire al margine, ovvero sui controlli nelle strade, anziché con una grida sull'orario. Anche perché non si vede per quale motivo occorrerebbe impedire a giovani maggiorenni di spendere la notte come desiderano. Sono faccende loro. Quanto ai minorenni, il controllo delle loro notti spetta alle loro famiglie, ma non ci sarebbe niente di strano e di irrealistico in provvedimenti restrittivi nei loro confronti. In sostanza: il disegno di legge sulle discoteche ha un sentore di moralismo, che sfuma nella demagogia, e in una concezione paternalista e poco tollerante. L'imperativo dominante è liberalizzare il lavoro, i consumi, l'economia: per quale motivo si dovrebbe allora irrigidire la sfera del divertimento? Non si avverte in ciò una contraddizione "ideologica"? Come tutti i mercati, anche il mercato della notte ha bisogno di regole: ma l'ultra-regola della chiusura alle tre, "il divieto per il vostro bene", non appare in linea con lo statuto della Casa, e della Discoteca, delle libertà.
L'Espresso, 17/07/2003
Silenzio nessun straparli
L'ordine di scuderia non si discute: sobrietà, labbra tirate nel silenzio. Non ci dev'essere nessun incidente fra la Commissione e la presidenza italiana del semestre. Da Romano Prodi in giù, a Bruxelles e nel Parlamento italiano, tutto il circuito prodiano è blindato. Ogni parola in più rischia di essere una mina, perché "Romano" non è solo il vertice della Commissione, ma è anche il candidato potenziale dell'Ulivo, l'unico uomo politico che Silvio Berlusconi confessa di temere alle elezioni del 2006. Quindi la parola d'ordine è: sterilizzare, minimizzare, troncare, sopire. Mordersi la lingua e alzare gli occhi al cielo. Salvo poi sospirare. Allorché a Strasburgo la situazione precipita con il "discorso del kapò" contro il socialdemocratico Martin Schulz, l'effetto è sconsolante. «L'avete visto tutti»: Prodi è allibito, Prodi è sconcertato. Altro che riscossa italica contro l'arroganza tedesca, come scrivono i giornali allineati: «Bastava osservare il tremendo imbarazzo di Gianfranco Fini», che ha visto andare in fumo il credito guadagnato nel lavoro della Convenzione. Sospiri, mormorii esalati a mezza voce dai fedelissimi. «A Bruxelles tutti hanno capito che il semestre è finito prima di cominciare». Fra l'altro in Italia si è avuta l'impressione, grazie alla compiacenza dei media, che l'exploit del Cavaliere fosse una reazione a caldo all'attacco di Schulz. Perfettamente sbagliata ma comprensibile. In realtà, sottolinea ancora incredulo chi era presente nell'emiciclo di Strasburgo, Berlusconi ha avuto due ore di tempo e ha ascoltato numerosi noiosissimi interventi prima di prendere la parola e di uscirsene nell'infausta storiella del film sui lager. Risultato? Pieno discredito per lo stile italiano. L'amicizia esibita dal premier con i leader confonde la goliardia con i rapporti istituzionali. «Ma ti pare possibile, "quello là" ha raccontato di nuovo la barzelletta del malato di Aids». Ha giustificato il suo facinoroso intervento a Strasburgo dicendo addirittura che in Italia si scherza da decenni sull'Olocausto. «Non male, come Weltanschauung». E come comprensione dello spirito tedesco: «Oltretutto, negli ultimi mesi, se c'era un partner che ci aveva dato una mano era proprio la Germania». Ma ammesso che il semestre sia fallito all'esordio, che farà in questi mesi Berlusconi? Poco, dice il coro prodiano. La presidenza greca aveva già tolto di mezzo due dossier importanti, quelli sulla politica agricola e il cosiddetto "pacchetto finanziario". Adesso i leader come Chirac e Schröder si impegneranno silenziosamente per far diventare quello di Berlusconi un semestre interlocutorio. Magari - à la guerre comme à la guerre - fino a rimangiarsi l'idea della scelta di Roma come sede per la firma del nuovo trattato. Molto dipende anche da come "quello là" gestirà la bozza della Costituzione europea nella conferenza intergovernativa. La Commissione punta a estendere la sfera del voto a maggioranza: come giocherà il Cavaliere? Si schiererà sulla linea minimalista inglese e sul filoamericanismo spagnolo? «Ma anche Aznar lo ha mollato». E l'Europa della destra classica prende le distanze: «Chirac ha detto con chiarezza a Berlusconi che rispetta chi era contro la guerra per ragioni etiche e politiche, così come chi era per l'intervento in Iraq per convinzioni morali e strategiche, ma che non rispetta chi ha scelto l'America per un calcolo di convenienza». Soprattutto, occorrerà osservare come Berlusconi si muoverà fra le coalizioni di interessi consolidate in Europa. Prodi lo ha invitato alla generosità politica, citando non proprio per caso Mitterrand e Kohl, che sull'Unione hanno messo in gioco la loro carriera politica. Obiezione: è il vecchio asse franco-tedesco. Risposta: Berlusconi faccia capire su quale schema agisce. Perché Schröder ha chiuso l'incidente italo-tedesco, e non l'ha riaperto dopo che le scuse erano diventate unilateralmente un «rincrescimento»; forse Romano «si augurava che il Cancelliere riaprisse il caso», perché per Prodi quella della Costituzione è una partita risolutiva per il futuro europeo, sicché ogni mezzo è buono per spostare equilibri verso un assetto federale e neutralizzare gli euroscettici. Fatto sta che per il momento Berlusconi continua a recitare a soggetto. Sull'allargamento insiste con le trovate sull'ingresso di Russia e Israele, al di fuori di qualsiasi procedura istituzionale. Il modello di Prodi rispetto ai paesi esterni all'Unione è sintetizzato dall'espressione "everything but the institutions", mettere in comune tutto, a partire dal mercato, fuorché le istituzioni. Il premier, invece, salta a piè pari queste sottigliezze: anche sul Piano per il Mediterraneo, che comprende l'istituzione della Banca mediterranea (un possibile motore dello sviluppo di un'area cruciale, con ovvie ricadute sul Medio Oriente), manifesta il disinteresse di chi si sente il portatore del verbo di George Bush. In sostanza, quale sarà il modello di Berlusconi? «Uno spot permanente». Chi ha potuto sbirciare nella cartellina dell'ambasciatore all'Ue Umberto Vattani giura di avere visto un titolo: "Eventi". Ecco, i prodiani sono convinti che l'interpretazione berlusconiana del semestre avverrà tutta in chiave estemporanea e spettacolare. Un semestre di coreografie sul teatro europeo. Con il commissario Prodi che dovrà interpretare la parte ingrata dell'uomo in grigio, di fronte al varietà di un Berlusconi convinto di poter ridimensionare la Commissione a ufficio di segreteria. E con il Cavaliere che si muove a tenaglia: mentre cercherà di prendere la scena in Europa, fra i confini domestici proverà a disintegrare il centrosinistra con la proporzionale. Anche se è fatta di sussurri, la guerra continua.
L'Espresso, 24/07/2003
Ci ritorni in mente
L'ombra del Maestro solitario aleggia ancora sulla Tribù. Manca qualche settimana al quinto anniversario della morte di Lucio Battisti, che cade il 9 settembre, ma la setta dei battistiani è già in fermento. Già, ma quale Battisti? Come si sa sul tema ci sono due partiti: da una parte la maggioranza rumorosa, gli adoratori del periodo Mogol e del mainstream battistiano, «le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi», cioè tutti quelli che associano Battisti alla propria educazione sentimentale, e in special modo ai primi petting in riviera; dall'altra i più viziosi, i sofisticati, gli idolatri del "corpus hermeticum", ossia i cinque dischi esoterici nati durante la collaborazione fra "Lucio" e il poeta imprevedibile Pasquale Panella, l'uomo che spiegò la sua estetica musicale con la dichiarazione: «Hegel è la canzone. È il pachiderma centrale, mediano, indeciso come la canzone». L'epicentro è il comune di Molteno, in cui si trova il Dosso di Coroldo, un complesso residenziale di 13 ville nella "Brianza velenosa" che era stato il protettissimo rifugio di Battisti con la moglie Grazia Letizia Veronese. Ma se le iniziative ufficiali e commemorative vanno sul classico, c'è un'invenzione spettacolare che non mancherà di sollecitare l'ormai infinita diatriba fra i sostenitori del primo e i fautori del secondo Battisti. Si deve all'inventiva di Franco Zanetti, 50 anni, professione "agitatore culturale" e direttore del quotidiano musicale online www.rockol.it. Zanetti ha inventato uno spettacolo basato su una selezione di canzoni del periodo ermetico, cioè da album come "Don Giovanni", "L'apparenza", "Hegel". Ha preso quelle 40 canzoni futuribili, ne ha scelte una quindicina, e ha costruito un concerto autenticamente radicale. Infatti i brani verranno eseguiti da un trio inedito di vocalist, denominati EquiVoci, due ragazze e un ragazzo provenienti da studi di conservatorio, mentre l'orchestrazione è affidata solo a un quartetto d'archi femminile. Lo spettacolo si intitola "Sinceramente non tuo" (da un verso di "Don Giovanni"), e si tradurrà in un disco che la Sony distribuirà ai primi di settembre. L'iniziativa di Zanetti è lievemente provocatoria, come lo spirito del suo inventore: che si era fatto conoscere qualche anno fa, il primo aprile del 1998, con un clamoroso scherzetto mediatico, annunciando una nuova opera di Battisti, disponibile solo su Internet e composta da pezzi semisconosciuti del suo repertorio, le cui iniziali componevano l'acrostico "pesce d'aprile". Lo stesso titolo dell'album, "L'asola", poteva essere inteso anche alla romana come "La sòla", quale in effetti era. Solo che i media ci si buttarono per l'appunto a pesce, tanto da ingannare anche un pontefice della critica pop nazionale come Mario Luzzatto Fegiz (il "Corriere della Sera" fu costretto a una precipitosa ribattuta nella notte). Questa volta la provocazione è più concettuale. Non fa perno su visioni medianiche, che sarebbero all'origine della canzone di Adriano Celentano "L'arcobaleno" («Io son partito poi così d'improvviso, che non ho avuto il tempo di salutare»: secondo le ricostruzioni meno controllabili il testo, una specie di lettera battistiana dall'aldilà, sarebbe stato suggerito a Mogol da una veggente di Sassuolo emigrata in Spagna). E non si affida nemmeno al tam tam sul presunto materiale inedito che la vedova Battisti conserverebbe gelosamente e di cui favoleggiano continuamente i newsgroup battistiani nel Web. Zanetti ha estremizzato forma e contenuto della produzione firmata Battisti-Panella: i suoni elettronici sono stati concettualizzati nell'atmosfera suggestiva degli archi; chi ha potuto ascoltare le prove giura che le parole misteriche di Panella si stagliano nel tessuto sonoro con una intensità inaspettata, addirittura "comprensibile". Ne viene fuori quasi un oratorio laico: «Non penso quindi tu sei / questo mi conquista / l'artista non sono io / sono il suo fumista». I versi di "Don Giovanni" e di "L'apparenza", che furono esaltati da Michele Serra («Dico solo che la parola "ossigeno" come la pronuncia Battisti, salendo di tono come l'aria fresca, non l'ho mai sentita pronunciare... Io credo che questo disco sia l'opera di un genio, o più probabilmente di due») compongono un mondo post-umano, fatto di detriti lessicali, «un oroscopo folle in cui brillano gemme in cui si condensa, raggelata, l'emozione di un tempo» (secondo un altro battistiano storico, Leo Turrini, autore di una delle prime biografie di Lucio Battisti). Ma il mondo battistiano è in subbuglio anche perché in coincidenza con l'anniversario della scomparsa la Tribù si aspetta sorprese e rivelazioni. Uno degli adepti più fondamentalisti, l'autore televisivo Michele Neri, sta finendo il suo monumentale libro su Battisti, centinaia di pagine di filologia accanita. Gli adoratori continuano a rileggere in qualche sito le pagine documentatissime che Mattia Feltri sul "Foglio" dedicò subito dopo la morte agli ultimi giorni di Battisti. Ci si aspetta un botto da Michele Bovi, l'archeologo della tv che su Raidue ha proposto diversi speciali battistiani, ogni volta rintracciando qualche reliquia filmata, uno spezzone dal vivo, un reperto scovato negli archivi televisivi di tutta Europa. I cultori della nostalgia sono disposti a cercare le tracce e gli echi di Battisti dappertutto. Si sono riuniti in un'associazione informale chiamata "I cavalieri del mare". Fanno raduni tematici qua e là per l'Italia. Qualche anno fa si erano appassionati agli Audio 2, una coppia patrocinata da Mina e Massimiliano Pani che clonava il magistero di Lucio in canzoncine futili e divertenti. Di recente sono stati sopraffatti sentimentalmente dall'apparizione di Roberto Pambianchi, un ex rappresentante romano che ha la voce praticamente indistinguibile da quella battistiana. Scoperto da Bovi, che l'ha utilizzato in tv per alcuni frammenti «più veri del vero, e più falsi del falso», Pambianchi è stato adottato da Ignazio La Russa, che l'aveva ascoltato alla festa per l'insediamento al Tg2 di Mauro Mazza, restandone sbalordito. Adesso, Pambianchi spopola nelle feste di Alleanza nazionale, dove gli ex camerati vengono presi da un soprassalto emotivo ogni volta che risentono il verso di "La collina dei ciliegi" che dice «planando sopra boschi di braccia tese», nella eterna autoillusione che Battisti fosse di destra, e che quelle mani levate rappresentassero una selva di saluti fascisti. Si vive comunque nell'attesa: di risolvere l'annosa questione del confronto tra la fase Mogol e la fase Pannella; che arrivi l'annuncio che il fantomatico album di inediti è sbucato miracolosamente intatto dalle segrete stanze della villa di famiglia; che il formidabile Vasco Rossi decida finalmente di realizzare il suo progetto di un disco tutto composto da cover battistiane. Nel frattempo, il gossip iniziatico fa filtrare la notizia che il figlio di Battisti, Luca, avrebbe consegnato alla Bmg un provino di canzoni eseguite in inglese, nelle cui melodie sembrerebbe indubitabile l'impronta del padre. Ed è prevedibile che nell'avvicinarsi della data fatale del 9 settembre ricominci la sagra della nostalgia. Destino singolare per un musicista ampiamente detestato dalla critica quando era in vita, e venerato post mortem con una partecipazione talmente unanime da risultare alla fine paradossale. L'iniziativa di Zanetti nasce con l'intenzione di recuperare proprio il Battisti più oltranzista e frainteso: con la convinzione che in quelle 40 canzoni-non-canzoni ci sia sepolta almeno una quindicina di exploit, capolavori misconosciuti che potranno essere portati in giro per l'Italia, nei piccoli teatri, negli auditorium, nelle chiese. Uno spettacolo minimalista ma a suo modo estremo. Per ricordare a tutti che il Maestro solitario non era più il cantante riccioluto dell'acqua azzurra, ma una sorta di intellettuale irriducibile, travolto in un suo progetto, perfettamente distante dal se stesso che era stato, e anche dal ricordo che ne hanno di lui, e della sua musica, quasi tutti.
L'Espresso, 31/07/2003
Gli esami e le mazzette non finiscono mai
La vicenda degli esami comprati e venduti nella facoltà di giurisprudenza dell'università di Roma La Sapienza potrebbe sembrare una storia a suo modo classica, tradizionale, già vista decine di volte. Al massimo, rispetto ad altri casi analoghi, potrebbe colpire il numero elevato degli indagati e un aspetto organizzativo che suggerisce l'idea di una struttura corruttiva permanente e articolata, tale da coinvolgere docenti, apparati amministrativi, bidelli e studenti. Niente di nuovo sotto il sole, dunque, a parte la vastità ramificata dell'organizzazione? Chissà. Anche se è improprio trarre conseguenze generali da un caso singolo, dalla storiaccia dell'università romana sembra di percepire un sapore molto attuale, molto italiano e molto contemporaneo. A scorrere la cronaca degli ultimi mesi, infatti, si avverte che la vita pubblica è punteggiata da continui episodi di corruzione. Le tangenti di Luigi Odasso a Torino, le forniture delle valvole cardiache tarocche, le aste pilotate dell'Anas, le mazzette dell'Inail, il tutto fra intercettazioni telefoniche imbarazzanti e assessorati come centri di potere. Secondo alcuni, Antonio Di Pietro in testa, ciò significherebbe che Tangentopoli è viva e perdurante, e che c'è un "sistema" della corruzione soltanto scalfito dalle inchieste di Mani pulite. La diagnosi è infausta, ma non sembra congruente con la realtà. La grande corruzione, quella innestatasi sul mercato delle opere pubbliche tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, e messa allo scoperto dalle inchieste del pool di Milano, è stata stroncata. O perlomeno è stato abbattuto quell'oligopolio corruttivo fra grandi imprese e sistema politico che aveva provocato una drammatica distorsione del mercato, oltre a porre le basi del crollo della "Repubblica dei partiti". Ciò che si manifesta ora è qualcosa di diverso. Sembra di assistere infatti a un cedimento del tessuto civile, a strappi nella trama di regole che presiedono al funzionamento ordinato della società. Si tratta di indizi, naturalmente, e non vale la pena di gettare grida d'allarme apocalittiche. Eppure, questi indizi sono un sintomo. Segnano la traccia che la società italiana è stata esposta in modo tumultuoso al mercato, senza poter contare su quell'insieme di abitudini e di convenzioni che fondano le reti della convivenza e della fiducia collettiva. Il fatto è che oggi la nostra società è sottoposta a pressioni e a tensioni contraddittorie. Da un lato la concorrenza, e l'imperativo della competitività sotto ogni profilo, stressano le imprese, gli operatori, i lavoratori stessi. Per un altro verso, lo spettacolo del potere, del successo, del denaro espone le differenze sociali mostrando livelli inediti di ineguaglianza. Ancora: i modelli culturali prevalenti designano una sfasatura acuta fra i simboli del consumo e le possibilità reali degli individui. Per questo entrano in crisi i codici di lealtà: non si dovrebbe dimenticare il caso più vistoso, allorché gli assistenti di volo dell'Alitalia hanno "scioperato" presentando il certificato di malattia, con ciò rendendo esplicita una defezione formale dalle regole deontologiche e sindacali. Si ha la sensazione insomma che una comunità abituata al tepore dell'assistenza, ai particolarismi e ai rapporti clientelari dello stato sociale all'italiana, stia cominciando a ritrovarsi senza difese rispetto alla durezza del mercato, e incapace di reggere la spinta al consumo. Dentro questo quadro, in cui parole come "sobrietà" sono patrimonio solo di alcune minoranze, il tessuto civile si slabbra. L'individualismo sradicato dai valori condivisi deve fare i conti sia con la richiesta continua e faticosa di performance professionali crescenti, sia con la percezione sempre più diffusa che la diseguaglianza è un prodotto inevitabile della società "liberista". Prendere atto di questo contesto non è moralismo: significa piuttosto che sarebbe ancora utile mettere insieme programmi politici basati su alcune parole un po' vecchio stampo. Redistribuzione, per esempio. Coesione sociale. Se si vuole, anche solidarietà. Perché gli individui nel clima di lotta e di invidia sociale si arrangiano, ma le società devono governarsi con saggezza, guardando al proprio futuro e non solo al "qui e ora".
L'Espresso, 04/09/2003
E Fini ordinò: "Palla al centrodestra"
Secondo un osservatore come Ilvo Diamanti, è patetico lagnarsi delle interferenze della politica sul calcio: «Oggi il calcio "è" politica». Le società calcistiche si rivolgono ai partiti e ai loro uomini perché risolvano i problemi che esse non hanno saputo fronteggiare; uomini politici e governo si rivolgono al calcio «per catturare i consensi, che faticano a conquistare in altro modo». La sintesi del politologo è eccellente ma la sua obiettività "scientifica" rischia di renderla criptata. Mettiamola in chiaro, allora. Le istituzioni del calcio nazionale, Federazione e Lega, sono organismi di potere. In particolare la Figc, che per statuto raggruppa le associazioni che promuovono il gioco del calcio, è una specie di Coldiretti postmoderna, che fa gola per la sua capacità di plasmare consenso politico e ripartire potere. Non si spiegherebbe altrimenti la violenta polemica che il vicepremier e leader di An, Gianfranco Fini, ha aperto contro il presidente della Federcalcio, Franco Carraro: «Parlando da tifoso», cioè in chiave apertamente populista, e con il coro dei colonnelli del suo partito, Fini lo ha invitato alle dimissioni. Ora, Carraro non sarà una folgore, ma è un uomo legato a circuiti politici non proprio distanti dall'ambiente del capo del governo e di Forza Italia. L'errore del presidente della Federcalcio è stato di pensare che il tremendo bordello aperto dalla sentenza del Tar che riammetteva in serie B il Catania potesse essere gradito con i metodi tradizionali della Federazione, cioè di un'oligarchia abituata a trovare al proprio interno compromessi e risarcimenti in perfetto stile Prima Repubblica. Nell'impazzimento generale, e con la crisi calcistica accentuata dal caso delle fideiussioni truccate, si è capito che la soluzione sarebbe stata esclusivamente politica. Silvio Berlusconi ha pronunciato tutto compunto il suo «so che tocca a me» e il consiglio dei Ministri ha partorito la trovata del decreto "salvacalcio". Il ministro Giuliano Urbani, politologo anche lui, è apparso in tv per dire in modo non proprio convincente che la formula era stata trovata, e gli organi calcistici hanno capito alla perfezione quale fosse il messaggio governativo. Niente pasticci ulteriori, niente conflitti. Bisognava salvare Carraro e il Catania, Gaucci e la serie A, i bilanci e la pay-tv, le zone di influenza di Forza Italia e di An. Naturalmente, il decreto salvacalcio era un obbrobrio costituzionale, dato che interveniva sulla giustizia, fissando con un ukase il giudice naturale del calcio nel Tar di Roma; al punto che un liberale che di recente si ricorda spesso di essere tale, l'ex ministro del decreto "salvaladri" Alfredo Biondi (c'è sempre qualcosa da salvare, nel paese) si è dichiarato in disaccordo sul metodo e il contenuto del nuovo decreto di salvataggio calcistico. Dopo di che, nessuno sa quale sorte parlamentare avrà questo decreto; non si sa se la Lega voterà contro, come ha fatto nel Consiglio dei ministri, o se verranno introdotti emendamenti. Di sicuro il metodo di apparente ascendenza andreottiana adottato dal governo, con il decreto che decreta, e le strutture sportive (Federazione e Coni) che "autonomamente"agiscono, è già fallito. Restano le mezze frasi che sono circolate in queste settimane, quelle che attribuiscono a Berlusconi e alla maggioranza una preoccupazione acutissima per le questioni di ordine pubblico, nel caso di rinvio del campionato o di declassamento di alcune società per bancarotta. A questo punto, la complessità della situazione, con la rivolta della serie B, può giustificare anche il sacrificio azteco di Carraro. Nel frattempo, senza moralismi inutili, e senza richiamare l'attenzione ancora una volta sulla vistosa azione compiuta dal coordinatore di An Ignazio La Russa a favore del Catania (chi è senza peccato scagli la prima pietra), vale la pena mettere a fuoco l'interesse strategico del centrodestra verso il calcio. Ha ragione Diamanti, il "new football" è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Finora l'intervento del governo si è limitato alla cornice organizzativa. Ma che succederebbe nel caso di una striscia di decisioni arbitrali sfavorevoli a una certa squadra? Premier, vicepremier, ministri e coordinatori si limiterebbero a polemizzare, o additerebbero all'Italia intera, come nella fatal Verona, il "complotto dei fischietti"?
L'Espresso, 11/09/2003
Vladimir e il Timoniere
Il dilemma dominante è che qualcuno prenda sul serio il Cavalier Berlusconi. Insomma che qualcuno della vipperia politica mondiale non smentisca il suo preteso ruolo internazionale e la sua statura diplomatica. Vabbé che il presidente di turno dell'Ue sfigura fisicamente in Sardegna, sarà lo stress, rispetto alla silhouette sfoggiata a luglio da George Bush nel ranch texano di Crawford, quando ricevette l'amico italiano. I glutei scolpiti di Dabliù l'Irakeno sono una meraviglia progettuale, mentre l'addome berlusconiano, sotto la camicia alla marinara con gli alamari, pare la sintesi di un disagio psicosomatico. Lo prende sul serio Vladimir Putin, il judoka dalle mammelline bianche e flosce. Si fa accompagnare nel parco dei cactus di Villa La Certosa, con il Berlusconi Driver alla guida della vetturetta da golf. La camicia del piccolo zar è un residuato dei grandi magazzini sovietici, e a vederli insieme i due Schwarzy formato mignon sembrano la prova di come si sostituisce la fitness con l'indulgenza sfrontata per il proprio declino fisico. Ecce homo, anzi eccone due. Eppure sulla diplomazia l'ex uomo Kgb non si tira indietro. Accetta l'incontro informale, in un luogo irrituale, con i turisti che vengono a vedere e a fotografare i rappresentanti del potere geopolitico davanti all'imbarcadero più o meno come andavano a veder scendere Flavio Briatore a Poltu Quatu. Solo che lì non c'è la barca briatorea, e non c'è neanche "Naiomi": a Santo Stefano staziona l'incrociatore Moskva, mentre a pochi metri dai due piccoli machos è in osservazione la motovedetta dei carabinieri. Lo Stato, cioè la Benemerita, e il Privato, ovvero i sei metri del gozzo del Capo, riuniti nell'istituzione-governo, con il Grande Timoniere che per l'appunto sta al timone, perché se non guida non è più lui. Si ha la sensazione che i post-sovietici siamo noi, altro che l'agente Vladimir. Noi che siamo venuti fuori faticosamente da una cinquantennale dittatura comunista (d'accordo, non una dittatura ma l'egemonia sì). Noi che possiamo alternare il doppiopetto da statista alla tenuta da svacco agostano, compreso il berrettino blu della marina che fa tanto Potemkin, e compresa la passeggiata a piedi nudi nel parco. Noi che possiamo invitare lo zarino a fermarsi per un Campari soda al bar del villaggio Palumbalza. E può mancare, mentre secondo le cronache «spira un ponente frizzante», un posticino tranquillo, nel golfo di Marinella, una caletta dove fare un bagno insieme? Sono amicizie fortemente virili, molto americane, molto russe. Ma evidentemente Putin gli dà corda, al piccolo timoniere. Così come gliene danno tutti quelli in lista d'attesa per Porto Rotondo dopo Putin: Aznar, Raffarin, Erdogan. Perché magari l'Italiano potrebbe essere uno che vende mercanzia altrui; ma se poi la transazione funziona? Dice a Putin che auspica un forte avvicinamento della Russia all'Unione europea. Fa comodo al judoka pensare che lo spirito italico possa favorire un'«intesa special», una entente molto cordiale con l'Unione europea, un colpo di prestigio internazionale capace di oscurare il dramma ceceno, le lotte fra gli oligarchi, le fazioni militari, e anche un'immagine in cui della Russia spiccano soprattutto i magnati della ricchezza post-comunista come Roman Abramovich, il padrone-spettacolo del Chelsea. L'uomo che a ventre in fuori indica i cieli di Sardegna si presenta come il Tessitore del riavvicinamento fra la Casa Bianca e il Cremlino, l'Auspice di un mandato dell'Onu sull'Iraq, condizione di un coinvolgimento russo sotto il comando americano. Tutto assai ipotetico, assai fragile, assai virtuale. E tuttavia all'ora di pranzo telefonano a Bush, «su iniziativa italiana», anche se non si capisce niente sul contenuto della telefonata a tre. Potrebbe essere andata male, dieci minuti irrilevanti di cui la metà per le traduzioni: ma se invece fosse il varo informale di una road map per dare peso alla "Comunità delle democrazie", una partnership in progress fra Usa, Ue e Russia? Oltretutto, l'autunno del geopolitico Berlusconi è frenetico. Deve andare a New York il 22 settembre per partecipare all'assemblea generale delle Nazioni Unite. In ottobre avrà il compito di presiedere l'inaugurazione della conferenza intergovernativa di Roma, quella che dovrà mandare al largo la costituzione dell'Unione europea. Si alzano i sipari di uno spettacolo continuo. Le gaffe come quella del kapò al socialdemocratico tedesco Schulz e l'accusa di "turisti della democrazia" al Parlamento europeo sono il passato. Adesso c'è la possibilità di trasformare in una successione di eventi glamour la politica estera, per esibire ogni giorno la credibilità internazionale di colui che i suoi nemici si ostinano a considerare come un vecchio chansonnier. Il fatto è che così come fa politica estera nella spiaggia di casa, indifferente alle forme e ai rituali classici, mischiato alle guardie del corpo e mostrando la soddisfazione incontenibile di considerarsi un giocatore planetario, allo stesso tempo non ha codici e schemi intoccabili. Ha già contribuito a spezzare la solidarietà europea convenzionale sull'Iraq, ha inventato la non belligeranza attiva, è largamente indifferente ai processi istituzionali dell'Unione, sprizza soddisfazione nell'essere accolto nel club dei potenti, e nel poterli invitare fra barche ed elicotteri, proponendosi come primattore e regista, presidente operaio, giardiniere e plenipotenziario dell'Occidente. C'è qualcuno che può smentirlo a priori? Certo, sullo sfondo della vecchia Europa rimane la distanza stilistica da Berlusconi rimarcata da Jacques Chirac, e la freddezza ribadita di Gerhard Schröder. Ma intanto da parte russa non ci sono rilievi sulla qualità dell'intrattenimento, né insofferenze estetiche per il lato tragicamente cheap delle seratine in villa. Pazienza per i fuegos y musica durante la cena del sabato. Ma poi, come si fa, uno invita il Moscovita e gli propina Tony Renis che dedica a Vladimir la riesumata "Quando quando quando", oltre al coautore napulitano Mariano Apicella, che coinvolge il premier italiano in certe loro creazioni (avranno cantato "'A gelusia"?). E di seguito arriva l'infortunato Andrea Bocelli, precettato sempre da Renis, che non va più in là di due strofe di "Tu ca nun chiagne" perché ha la bua dopo un incidente con il surf. E l'ultimo stenda un velo sull'esito di una serata che si conclude con un coro italo-russo sulle note di "Oci ciornie". Sicché nel disfarsi del protocollo si fissa una domanda strategica: qual è il tono dominante della tre giorni sarda e quale ne sarà il risultato? Se va male, il successo del progetto "global" di Tony Renis, ovvero l'incisione del cd Berlusconi-Apicella sotto il patrocinio dell'Unicef. Ma se invece si afferma la kitsch-diplomazia, lo show tipo Mirabilandia di chi ha vera pratica di mare, e soprattutto se il mondo va secondo le speranze di Berlusconi, tranquilli che il Cavaliere si appropria della geopolitica, se la infila nel taschino della camicia, esce dalla cronaca e si consegna alla storia. Dopo di che, qualcuno lo smentisca.
L'Espresso, 02/10/2003
Due o tre cose che l’Ulivo dovrebbe fare
I vertici del centrosinistra sono impegnati in una partita di movimento e stallo sulla questione sottilissima della lista unica, e dell'eventuale partito riformista. Affascinante per i corridoi di partito e, a essere ottimisti, per i militanti che affollano il lunghissimo settembre di feste di partito, il dilemma se uniti si vinca o si perda è già stato risolto dall'opinione pubblica. I dati dei principali istituti di ricerca mostrano infatti che gli elettori votano tendenzialmente per lo schieramento e non per il partito; il problema dell'identità rimescola i sentimenti di assessori, consiglieri comunali, funzionari di partito, e di una parte degli iscritti: ma l'onda dell'elettorato silenzioso e ragionevolmente distratto ha già mostrato la sua direzione. Lista unica e partito unico costituiscono in sostanza un approdo semi-obbligato. Si tratta di individuare tempi e procedure, ma non la sostanza. Piuttosto, il centrosinistra ha di fronte un problema concreto e insidioso, reso più complicato dal clima di lieve euforia riguardo alle future consultazioni elettorali. Se la vittoria è sicura, inutile darsi da fare. E invece no. Nel sistema bipolare all'italiana, non ancora secolarizzato, non ancora laicizzato, e caratterizzato da una perdurante animosità di una coalizione contro l'altra, non sono ipotizzabili spostamenti significativi di quote di elettorato. I risultati futuri saranno influenzati con ogni probabilità da fattori tecnici, da situazioni locali, dalla resa dei candidati nei collegi. E anche da un fattore tutt'altro che trasparente, ma importante e virtualmente decisivo per i riflessi che può avere sulle categorie produttive, sulle articolazioni dell'industria e della banca, sull'informazione, sulle aggregazioni professionali. Si tratta dell'atteggiamento dell'establishment. In particolare del potere economico e finanziario. Una ristretta fascia di persone che suggerisce o addirittura detta la tonalità politica ai piani alti della società italiana. Ora, è noto che i rappresentanti dell'élite economica fanno generalmente tutti lo stesso discorso, riassumibile nei termini seguenti: è vero che il governo della Casa delle libertà si è rivelato una chiara delusione; ma è vero che dall'altra parte il centrosinistra è una coalizione scarsamente affidabile, incerta, conflittuale, confusionaria. Questo verdetto negativo e simmetrico ha la forza di un automatismo infallibile. Sarebbe quindi il caso che gli esponenti di punta dell'Ulivo si dessero da fare per sbloccarlo, altrimenti il "quaeta non movere" potrebbe diventare lo schema fisso dell'establishment. Senza garanzie a sinistra, tanto vale tenersi la destra. Già, ma come interrompere questo riflesso pavloviano? Quali sono gli strumenti e le modalità per indurre il potere reale dell'Italia contemporanea a valutare un'alternativa possibile? Scartate le idee eroiche come il governo ombra, scarsamente praticabile da un'alleanza poco disciplinata in cui tutti continuerebbero a esibirsi in un cicaleccio continuo, varrebbe la pena di adottare strategie più modeste quanto potenzialmente efficaci. Ad esempio, non sarebbe incongruo pensare a un "road show" degli esponenti più accreditati nell'ambiente economico: figure, tra gli altri, come Enrico Letta, Pier Luigi Bersani, Giuliano Amato. Dai quali dovrebbe venire un messaggio ai "poteri forti": d'accordo, il centrosinistra è un bailamme, ma i suoi eventuali ministri sono altamente professionali; e in grado di comporre una compagine capace di rimettere in sesto il paese dopo il probabile definitivo fallimento del centrodestra. Non è solo un'operazione autopromozionale. Si tratta di incidere in un settore delicatissimo della vita nazionale, segnalando anche i rischi che le élite di potere possono assumersi appiattendosi su un governo dal destino incerto. L'obiettivo minimo è di ottenere, da Umberto Agnelli, da Marco Tronchetti Provera, da Cesare Romiti, e in ogni caso dai gangli principali del potere italiano, un atteggiamento equilibrato. L'obiettivo massimo è di vedersi riconosciuta una credibilità. In fondo alla strada, c'è il grande partito riformista; ma intanto, la politica ha sentieri intermedi che sarebbe ingenuo non esplorare.
L'Espresso, 09/10/2003
Istruzioni per post-schizzati
Chi è il professor Giulio Cesare Giacobbe, e perché si parla di lui? Semplice, è l'autore di un pamphlet (edito da Ponte alle Grazie), 124 pagine e 9 euro che promettono di rovesciarvi l'esistenza. Appena apparso in libreria ha bruciato la prima tiratura. Sarà per il titolo: "Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita". Letteratura trash? Manualistica cheap? «Una sciocchezza», secondo l'autore: «A giudicare dal titolo, questo libro sembra una belinata». Dal che si capisce che Giulio Cesare Giacobbe opera a Genova. A Genova si è laureato in filosofia, poi ha studiato psicologia in California, e adesso sempre all'Università genovese ha la cattedra di Fondamenti delle discipline psicologiche orientali. Belinata o no, il libro è «un manuale pratico di autoprevenzione e autoterapia delle nevrosi». E qui bisogna storicizzare. Perché la vicenda degli ultimi quarant'anni è costellata di autori eccentrici, sulle cui opere diverse generazioni hanno cercato e smarrito un equilibrio mentale. I pre e post-sessantottini si sono perduti nelle teorie di Wilhelm Reich, altri si sono divertiti con gli estremismi simbolici di Groddeck. Ma forse il testo più classico è quello di Robert Pirsig, "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta": il quale, con la scusa di raccontare viaggi, esperienze mentali e motociclette, divulgava tutta la storia della filosofia. Ma opere di questo tipo andavano bene allorché la figura sessantottesca del "giovane" era altamente culturalizzata. Ma con le generazioni di oggi, con gli "addict" della sega mentale che affollano le università, ci voleva un testo sacro diverso. Eccolo a voi. «Questo libro l'ho scritto sollecitato dai miei studenti», dice Giacobbe. E in effetti l'opera ha una storia singolare. Era circolata nelle librerie genovesi in forma di dispensa, vendendo semi-clandestinamente qualche migliaio di copie. Alla fine, richiamato dal tam tam, uno scopritore di talenti editoriali lo ha portato nel gruppo Longanesi. Il tempo di stamparlo e di farlo uscire, e il libro è stato preso d'assalto. Evidentemente le seghe mentali sono una malattia diffusa. Anzi, diffusissima. Il professor Giacobbe si rivolge a un target medio di studenti, le cui seghe mentali medie sono del tipo semplice. Lei me la darà? Lui mi tradisce? Di suo, Giacobbe ci mette una propensione per le spiritosate, una voglia goliardica esplicita, un retrogusto forse paternalista del tipo "istruisce e diverte". Che cosa siano le seghe mentali è presto detto. Pensare fa male. Il pensiero si rivela fin troppo spesso una sega mentale. È vero che ci sono seghe mentali positive, quelle che generano l'arte, la scienza, la letteratura. Ma sono rarità. In genere la sega mentale è malefica. È un pensiero ossessivo che genera sofferenza, è la concezione autistica secondo cui il mondo è un'illusione, e la realtà esiste solo in quanto noi la pensiamo. Diciamolo meglio: «Le seghe mentali non sono altro che la riproduzione iterata e automatica di pensieri portatori di una qualche tensione, cioè di sofferenza, generata da uno stato di paura, ossia di allarme nei confronti di qualcosa, che il nostro cervello ritiene pericoloso per la nostra incolumità, il più delle volte non reale, ma simbolica». Resta solo da vedere qual è la ricetta per smettere. Be', è facile. Bisogna fermare il pensiero. Ci si concentra su un oggetto, sulla realtà circostante, si diventa "osservatori", e l'ossessione si allenta. Dopo di che, ci sono passi successivi, che sono quelli classici della meditazione orientale. I mantra, la respirazione, l'ascesi spirituale buddista, lo Yoga. Sempre con una dose d'ironia, perché anche lo scopo ultimo della contemplazione può risultare controverso: «Se ti accanisci a raggiungerlo, crei tensione e ricadi nella trappola della nevrosi: cioè delle seghe mentali». Il successo del libro di Giacobbe implica un pubblico ricettivo. Si può quindi presumere che esistano larghe fasce di italiani, giovani e adulti, afflitti dalla varia fenomenologia delle seghe mentali. Tutta gente che sta cercando di sopravvivere nella turbolenza contemporanea, e nel tentativo di riuscirci si inventa fantasmi intellettuali e fissazioni neurotiche. Per questi soggetti clinici, "Come smettere di farsi le seghe mentali" risulterà un saggio imperdibile. Perché offre terapie in apparenza semplici, come se la felicità, o la cessazione del dolore, fosse a portata di mano. E poi, come ricorda proprio l'autore, tutti i mantra vengono potenziati se hanno un contenuto religioso o evocativo. Ripetere "Mio Dio" anziché "Coca-Cola" funziona meglio e produce migliori risultati, se ci si crede. E l'autore, per l'appunto ci crede. Logico allora che la verità trovi un pubblico. Se l'autore ha fede, avranno fede anche i suoi studenti. Ci crederà una platea più vasta di afflitti dalla sindrome della sega mentale. Ci crederanno coloro che pensano che la nostra civiltà deterministica è tutta sbagliata, i no global in chiave new age, gli spiriti romantici, gli ayurvedici. Magia che funziona. Perché l'importante è smettere di farsele, le seghe mentali. Oppure, aggiungerne una nuova. In attesa del prossimo manuale, e della prossima inevitabile ossessione.
L'Espresso, 16/10/2003
Giustizia partigiana
Su un argine del Piave, in un campo di erba medica, un cippo reca questa scritta: "In questo luogo il 1° e il 15 maggio 1945 vennero trucidati 113 militari italiani della Rsi. A vent'anni di distanza i sopravvissuti li ricordano". Quella pietra grigia può essere presa a simbolo del nuovo libro di Giampaolo Pansa, "Il sangue dei vinti", che Sperling & Kupfer manda in libreria il 14 ottobre (382 pagine, 17 euro). Quel cippo, e quella lapide, testimoniano in modo tragicamente dimesso i morti dimenticati, i morti della guerra civile, i morti del dopo-Liberazione. Sono morti più morti degli altri. Fascisti, «o ritenuti tali». Uomini, donne. Soldati, civili, ausiliarie. Uccisi nel vasto massacro delle giornate dopo il 25 aprile 1945, nei «lunghi mesi feroci» seguiti alla fine della guerra. Il libro di Pansa racconta questa storia con un realismo quasi insostenibile. Dominato da due parole che oggi destano la nostra ripulsa linguistica e morale, "prelevare" e "sopprimere"; parole che nelle notti della guerra civile significavano talvolta una vendetta, e talvolta una strategia. «Ho cercato di offrire un quadro sufficiente a restituire il clima del tempo, così come lo vissero e lo subirono gli sconfitti della guerra civile», scrive Pansa rivolgendosi al lettore. Ma il proposito così enunciato sembra quasi un eufemismo. "Il sangue dei vinti" infatti non è soltanto un libro prevedibilmente drammatico: è un libro terribile. Perché nel racconto di «quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile», si agita una moltitudine di uccisioni anonime e brutali, di torture, di sevizie, di stupri, di inganni, di violenze estreme e talora innominabili. «Fatti che la storiografia antifascista ha quasi sempre ignorato di proposito, per opportunismo partitico o per faziosità ideologica». Eccolo, il cortocircuito politico. Un'altra prova di revisionismo, questa volta praticata da sinistra? Sarebbe una definizione fuorviante. Pansa non è uno storico accademico e dichiara di aver voluto soltanto «contribuire a spalancare una porta rimasta sbarrata per quasi sessant'anni». Già, ma questo contributo è offerto come uno shock angoscioso al lettore contemporaneo. Uno sguardo sull'orrore, e con la coscienza che quell'orrore è nostro, della "nostra" parte, di coloro che hanno riconquistato la libertà, ripristinato la democrazia, e fondato la Repubblica. Il racconto vero e proprio comincia alla Biblioteca nazionale di Firenze, di fronte a quella che sarà la sua interlocutrice, Livia Bianchi, immaginata come figlia di un partigiano comunista vicino alla Volante rossa, il gruppo di quelli che "dopo" volevano fare giustizia a modo loro. E dal confronto con questa donna si dipana la narrazione, a cominciare dagli ultimi giorni di guerra. Mussolini e i gerarchi di Salò immaginano soluzioni sempre più illusorie, come l'estrema resistenza nel ridotto in Valtellina. Con lentezza, come il lembo di un corpo sfinito, i reparti tedeschi si ritirano verso il Nord, lasciando dietro di sé l'ultima scia di terrore: eccidi, fucilazioni di partigiani e di "traditori", rappresaglie sugli ostaggi civili. Non appena svanisce la protezione dell'esercito germanico, per i dirigenti di Salò, per i militi della Guardia nazionale repubblicana, per le brigate nere è la fine. Ma è la fine anche per molti civili, per chi aveva aderito al fascismo in tragica buona fede, per i fascisti della prima e dell'ultima ora. Dopo Dongo e piazzale Loreto comincia una tragedia immane. Milano, capitale di fatto della Repubblica sociale, rifugio dei fascisti in fuga dalle zone conquistate dagli alleati, si rivela un mattatoio: «Sino alla fine di maggio, non ci fu più alcun luogo sicuro per chi veniva considerato un fascista o in rapporto con la Repubblica sociale». Da Milano comincia un viaggio senza requie nel cuore della guerra civile. Con la scoperta immediata e stordente che i partigiani commettevano atrocità analoghe a quelle dei loro nemici (sbigottisce il racconto di come una decina di prigionieri vennero uccisi all'ospedale psichiatrico di Vercelli: «Con le mani legate da giri di filo di ferro, vennero fatti sdraiare sul piazzale del manicomio e schiacciati dalle ruote di due autocarri che passarono e ripassarono sui loro corpi»). Già, il racconto di Pansa è traumatico intellettualmente perché toglie i morti fascisti dagli automatismi della storia convenzionale che ci siamo raccontati per decenni. Le violenze dei liberatori come il frutto dell'indignazione popolare, o come vendetta di popolazioni straziate dalla spietatezza dei tedeschi e delle brigate nere. Sottratta al determinismo, alla necessità iscritta nella storia, ogni singola uccisione diventa qualcosa di intollerabile umanamente, un prezzo troppo alto preteso dagli sconfitti. Torino è «una specie di orrendo piazzale Loreto itinerante», in cui l'impiccagione del federale Giuseppe Solaro trasforma la forca in uno spettacolo di massa. Giorgio Amendola scrive sull'edizione torinese dell'"Unità" il 29 aprile parole spaventose, che sembrano l'incitamento al furore: «Pietà l'è morta... I nostri morti devono essere vendicati, tutti. I criminali devono essere eliminati...». In Liguria la resa dei conti è sanguinosa. A Genova si assiste a «una strage compiuta notte dopo notte». Nel Veneto ecco una tragedia notturna fatta di torture, prelevamenti, eccidi, esemplificata dalla cartiera di Mignagola, nei pressi di Treviso, «un luogo infernale per i fascisti in fuga». Con la popolazione che sussurra, disillusa, «a sostituire le bande nere, sono venute le bande rosse». Queste vicende sono estratte a fatica da una storia rimossa o sedimentata nel rancore. Pansa le ha ricostruite attingendo e selezionando da pubblicazioni semiclandestine, dai martirologi della Rsi, da libri perduti e memorie dimenticate, da pamphlet revanscisti. E anche dalle ricerche di qualche storico antifascista, che non ha avuto pudori ideologici nel documentare gli avvenimenti e nell'esprimere il suo giudizio fuori dagli schemi politicamente ovvi. Sotto il profilo storico, l'acme della violenza, e il suo lato più significativo sul piano politico, è dato dalla situazione in Emilia. Se la Romagna in cui agivano i partigiani di "Bulow" (il dirigente comunista Arrigo Boldrini), è stata un esempio di come la guerra civile tendeva a trasformarsi in guerra di classe, contro agrari, possidenti e preti, contro la classe dirigente non comunista, il clou nefasto fu raggiunto nel Modenese e nel Reggiano. Vale a dire nei luoghi del "triangolo della morte", ma soprattutto dell'ora X, della spallata finale, della rivoluzione come completamento della resistenza, e del terrore come intimidazione verso i dirigenti dei partiti antifascisti moderati. Il punto politicamente più delicato è che le strutture del Partito comunista erano significativamente coinvolte nel "verminaio" popolato da ex partigiani violenti e ramificato attraverso le strutture del partito nel territorio. Così la partita la chiude in prima persona, in modo spettacolare, Palmiro Togliatti, che piomba a Reggio Emilia il 23 settembre 1946, e si chiude in una stanza con il sindaco comunista Campioli, insieme a due altri sindaci rossi, Giuseppe Dozza di Bologna e Alfeo Corassori di Modena. Togliatti fischia la fine con un celebre discorso al Teatro municipale, passato alla storia con il titolo "Ceti medi ed Emilia rossa", e poi con il siluramento alla muta della federazione reggiana. È il ritorno alla normalità. Ma è una normalità in cui i vincitori sanno di avere smarrito qualcosa di sé: «Chi vince, e soprattutto chi vince sotto le bandiere della libertà e della democrazia, avrebbe il dovere della clemenza, della generosità, non dovrebbe infierire sui vinti». Per 20 mila persone, «travolte dalla resa dei conti», il prezzo è stato il medesimo: «Un colpo alla nuca per il torturatore come per la casalinga che aveva preso soltanto la tessera del fascio». Un prezzo troppo alto e troppo uguale. «Sono i desaparecidos totali di una guerra brutale, tutta italiana». Il libro di Pansa lo leggeranno i vincitori e i vinti, nonché i loro figli, coloro che hanno visto pagare un prezzo e coloro che di quel prezzo sono gli eredi e hanno memoria. Rinnoverà un dolore antico, scuoterà certezze indiscutibili. Non c'è da perdere nulla a scommettere che il dibattito sarà furibondo.
L'Espresso, 23/10/2003
Cento fotografi per fare l’Italia
Queste foto le abbiamo già viste. Sono il portfolio di un'identità. Se non le abbiamo viste possiamo riconoscerle. C'è dentro la realtà profonda della storia (meglio, dell'esperienza) italiana dal 1943, a partire da quando Robert Capa fissa per sempre con l'obiettivo l'immagine di un soldatuzzu che smobilita in via privata, sullo sfondo di una Sicilia aspra e riarsa, con al suo fianco un'ausiliaria che gli conduce a mano la bicicletta da uomo, e tutti a casa. Le fotografie le ha raccolte una specialista come Giovanna Calvenzi, in un volume pubblicato da Contrasto. Si intitola semplicemente "Italia". sottotitolo: "Ritratto di un Paese in sessant'anni di fotografia". È una galleria della grande, vertiginosa trasformazione della nostra società. Ed è difficile aprire le pagine del volume senza avvertire una specie di involontario tuffo al cuore. Per la bellezza delle immagini, non c'è dubbio. Ma soprattutto perché la prima emozione viene procurata dalla contrapposizione immediata e violenta fra un'antropologia che appare ancora arcaica e un paesaggio che rimanda già i riflessi della società contemporanea. L'icona rivelatrice può essere lo scheletro di un aereo incenerito nella campagna laziale, fotografato da Federico Patellani, un relitto della tragedia mondiale osservato da una ragazza ciociara sdraiata sul prato; o la figura di una contadina che si staglia sul profilo apocalittico, sui crateri lunari di Montecassino; ma anche, sempre di Patellani, la distesa di teste che raffigurano con un forte contenuto anche simbolico e sociale, oltre che politico, la dimensione autenticamente sterminata della Milano post-bellica, con la folla ripresa dall'alto durante il comizio di Achille Grandi. Comincia subito a trasformarsi, l'Italia, e l'impressione è che cambino prima le persone che non gli ambienti, i luoghi, le case. Nelle vie e nelle piazzette di Trastevere raffigurate da Herbert List la gente sperimenta una sua prima modernità, negli abiti e negli atteggiamenti, mentre il porfido e le mura della città storica vengono a malapena segnate dai manifesti politici, dai manifesti che annunciano il comizio di Togliatti per la festa della Repubblica. A quel tempo l'Italia è effettivamente un paese, e un paese diviso. Al Nord sembra di assistere davvero ai primissimi passi di un'area europea, dove i treni e le Topolino sono l'indizio della grande immigrazione e di una industrializzazione tardiva quanto furibonda nei suoi ritmi e nelle sue conseguenze anche comportamentali: sicché ancora prima del miracolo economico le coppie fotografate nelle strade delle periferie mostrano qualcosa che ricorda nel bianco e nero della pellicola l'estetica popolare e radicalmente intellettuale di Ermanno Olmi. Mentre l'aula poverissima di una scuola nel Mezzogiorno rimanda l'immagine di un villaggio che si sta "nazionalizzando" con estrema fatica, riemergendo da una miseria secolare; il Sud è un catalogo irripetibile di marginalità maschili, con gli uomini che ballano fra loro, i cantastorie per strada, gli asini nelle vie di Corleone, i bambini che mimano con irresponsabile felicità e furente realismo una esecuzione a Palermo. E così le aree depresse, come il Delta padano e il Polesine, mostrano i volti e le radici materiali di un'Italia contadina che fa da controcanto implicito alle opere civili e alle prime infrastrutture moderne. Siamo ancora in quegli anni Cinquanta così ambigui, nel pieno della stabilità centrista, sbarcati i comunisti nel 1947 e goduto del Piano Marshall, che già prelude a qualcosa di politicamente diverso e inevitabilmente innovatore. Allorché nel 1958 Arno Hammacher immortala un operaio che sta lavorando sui ponteggi più alti del grattacielo Pirelli, la sua istantanea sembra rappresentare la cuspide del boom, esemplificato visivamente da un'epopea dei tubi Innocenti; ma a guardare con più attenzione, ciò che colpisce di più è il panorama della Milano che si disegna in basso durante quei venti mesi di crescita furibonda, ai tempi dell'Oscar delle monete per la lira. Perché è una Milano già moderna, proiettata verso il benessere, l'industria, la finanza, le sfilate di moda a cielo aperto e on the road in via della Spiga, con la folla che gode dell'eccitazione che si diffonde nell'aria. Miracolo. Il paese non si modernizza solo con l'Iri e con l'Eni, le partecipazioni statali, l'economia mista, Enrico Mattei e la tecnocrazia post-dossettiana. Cresce con la luce azzurrina della televisione, con tutta la città di Carpi che si raccoglie davanti al nuovo totem per assistere alle prestazioni del professor Degoli, l'"eroe del controfagotto" a "Lascia o raddoppia?". Osserva se stessa nella foto di Mario De Biasi che inquadra di spalle una specie di top model ante litteram, e inevitabilmente formosetta comme-il-faut, davanti a una schiera di operai e impiegati, fra biciclette, lambrette e il muso di un'utilitaria. E si rispecchia nella foto di Giovanna Falck, in cui si vedono gli operai delle acciaierie Falck, a Sesto San Giovanni, che sciamano di corsa fuori dalla fabbrica per la pausa pranzo, in una scena che è insieme fordista e paesana, antica e carica di una modernità impressionante. Come segnala Carlo Bertelli in uno dei saggi che accompagnano il volume, l'uso della macchina è concepito dai maestri contemporanei americani ed europei come un'"azione" che prosegue per intrinseca forza propria dopo lo scatto e lo sviluppo; mentre per gli italiani la fotografia è un evento "a lato" della realtà. Qual è allora il significato a suo modo politico della fotografia, «sottrazione, arresto, sosta», e quindi assenza di storia? Forse la storia si ricostruisce osservando queste interruzioni del flusso degli avvenimenti, quasi un lascito delle catastrofi meridiane della pittura metafisica, sistemandole una di seguito all'altra, ricomponendo così la successione storica. In questo modo, gli immigrati di Walter Battistessa alla Stazione centrale di Milano, con le valigie di cartone piene di arance e le irriducibili camicie fantasia, possono restituire un frammento di storia così come lo fanno le immagini di Aldo Bonasia che testimoniano con intrinseca urgenza lo scontro politico degli anni Settanta, o il postmoderno di Olivo Barbieri che iscrive una Citroën Ds nella cornice neoclassica di Sabbioneta; oppure anche una mimesi di Tomb Raider allo Smau di Milano, che mostra tutte le risonanze della globalizzazione techno. Eppure non è un caso che uno degli aspetti più significativi dei questa raccolta sia data dal confronto fra quegli artisti italiani e internazionali che si sono esercitati sugli stessi luoghi o su soggetti simili. Si può notare la nitidezza di Henri Cartier-Bresson nella raffigurazione degli esterni di Scanno in avvio di anni Cinquanta, mentre Mario Giacomelli negli stessi luoghi muove l'aria intorno alle persone, le soffonde di invenzione, perché «Scanno è un paese da favola, di gente semplice, dove è bello il contrasto fra mucche, galline e persone; tra strade bianche e figure nere, tra bianche mura e neri mantelli». Allo stesso modo è suggestivo il confronto fra Paul Strand e Gianni Berengo Gardin. Si ricorderà che Strand, fotografo già celebre a livello internazionale, aveva conosciuto nel 1949 Cesare Zavattini, e gli aveva proposto di collaborare alla realizzazione di un volume su un paese italiano «nel quale sopravvivessero consuetudini e ritmi legati alla terra e alla natura». La scelta era caduta sul paese natale di Zavattini, Luzzara, e il volume che ne uscì, «una sorta di Antologia di Spoon River visiva», divenne una sorta di libro di culto, in parte poema fotografico, in parte «spaccato di storia locale». Più tardi Berengo Gardin raccolse la sfida del confronto, e ripercorse le orme di Strand ("Un paese vent'anni dopo"): «Strand racconta Luzzara attraverso l'analisi attenta dei visi e delle cose, Berengo racconta il paese attraverso la vita e gli ambienti, e le due visioni, lontane e parimenti emozionanti, concorrono a fissare nel tempo un microcosmo». Altre suggestioni si possono trarre dal confronto fra William Klein e Mario Carrieri, fra gli "asylums" manicomiali di Carla Cerati e Raymond Depardon, fra la Sicilia marinara ed epica di Sebastião Salgado e la rivisitazione che ne ha fatto nei suoi exploit Giorgia Fiorio. Ma proprio perché ciascuno di noi può riconoscersi in queste fotografie, può riconoscere luoghi, fabbriche, manifestazioni pubbliche, reliquie religiose o reperti di superstizione, fondali di teatro-verità, scene di vita quotidiana, paragone fra il passato e il presente, si capisce anche che l'intenzione di questo libro è assai più sottile di quanto solitamente traspare dalle raccolte fotografiche più o meno accademiche, più o meno di maniera. Alla fine si tratta di fare i conti con la realtà, con la vertigine del cambiamento di un paese e della sua gente. Eppure in background c'è un problema di secondo livello, che consiste nel fare i conti con la tradizione realista, con il suo acme raggiunto durante il neorealismo. È una scommessa culturale impegnativa, che mentre parla di noi ci parla della fotografia, di un'arte applicata, e di come si riproduce, distorce, manipola il dato apparentemente oggettivo dell'immagine. Per raccontare come siamo, come siamo stati, e soprattutto come abbiamo creduto di essere.
L'Espresso, 30/10/2003
Sindrome svizzera
La vittoria elettorale del miliardario xenofobo Christoph Blocher è la fotografia perfetta della sindrome svizzera, un'isola immune accerchiata dall'Europa contaminata di Schengen. Nello stesso tempo, il successo dell'Unione democratica di centro appare come l'altrettanto perfetta metamorfosi del populismo di destra: abiti perbene, «non abbiamo niente contro gli immigrati regolari e con un contratto di lavoro, ma la gente ne ha piene le palle dei clandestini e dell'illegalità»; con una sbrigatività che sembra confermare a puntino le analisi di politologi come Piero Ignazi, che avevano diagnosticato per tempo la trasfigurazione della destra europea. Ecco, niente più folklore nazista, revival hitleriani, razzismo esplicito, intolleranza verso tutto ciò che è altro: piuttosto, una miscela di legalitarismo e mano dura, con la mobilitazione elettorale delle fasce sociali più impressionabili dal "disordine sociale" introdotto dall'immigrazione. Dopo di che, l'altro termine di confronto è dato dai viaggi della morte, i barconi che arrivano nelle acque di Lampedusa offrendo spettacoli raccapriccianti, cadaveri in coperta, gente allo stremo delle forze, bambini gettati in mare in quanto «erano già freddi». Tutto questo aiuta a comprendere che il fenomeno immigratorio non è, o non è tutto, controllabile attraverso la legislazione e le misure di ordine pubblico. Così come il problema non si risolve configurando gli immigrati come lavoratori ospiti, "Gastarbeiter" alla tedesca. La legge Bossi-Fini connette la regolarità dell'immigrazione alla condizione lavorativa dell'immigrato. Una scelta apparentemente ragionevole, in realtà una fonte implicita di diseguaglianza etica e civile. Se io, io ghanese, magrebino, senegalese, pachistano, vengo qualificato prima di tutto in base alla mia qualità di lavoratore ospite, ciò significa che la mia è una cittadinanza di serie B, se non meno. E sotto questo profilo la proposta di Gianfranco Fini sull'estensione del diritto di voto amministrativo agli immigrati regolari non è stata discussa come meritava. Fuori dalla Casa delle libertà molti hanno rilevato la strumentalità del contropiede finiano, che ha inserito un cuneo tra Forza Italia e la Lega portando a una tensione mai osservata finora i rapporti politici nel centrodestra. Tuttavia il problema sollevato da Fini è più sottile. Perché non si capisce in base a quale criterio la cittadinanza deve essere divisa in due: se un immigrato lavora in Italia, paga le tasse in Italia, rispetta le leggi italiane, iscrive se stesso in un circuito di diritti e doveri che lo qualificano come cittadino, e non come ospite, non si capisce perché avrebbe il diritto di mettere becco nell'elezione del sindaco e invece non nell'elezione della Finanziaria, e delle leggi generali dello Stato, con il voto alle elezioni politiche. Vale a dire che più che qualche forma di chance elettorale, limitata e circoscritta, l'obiettivo semmai è quello di definire il momento e le forme in cui un lavoratore ospite diviene a tutti gli effetti un cittadino di questo nostro paese. Altrimenti, c'è una piccola sindrome Svizzera anche per noi, e per tutti quelli che pensano che l'immigrato possa essere esclusivamente un cittadino transeunte, figlio di divinità minori, inabilitato a contribuire alla vita politica di un paese moderno e civile. Di sicuro noi sappiamo solo che da un lato vediamo le barche dell'orrore, segno che le migrazioni sono fenomeni estremamente complessi e sostanzialmente irriducibili al "law and order" marittimo; e dall'altro lato vediamo la risposta irriflessa di fasce sociali che ripiegano nella xenofobia intendendola come un'autodifesa. Fra questi due estremi, c'è una varietà di condizioni: l'immigrato come forza lavoro, come risorsa per le aziende e l'economia, e come marginale attratto dai circuiti illegali. Manca solo l'immigrato in quanto cittadino. E solo un moderatismo convenzionale e ottuso può pensare di evitare questo tema e di ritenerlo accessorio o superfluo: quando in realtà è l'unico che introdurrebbe una principio radicale di razionalità nei processi sempre più difficili della convivenza.
L'Espresso, 06/11/2003
Il Grande Paroliere
Questa è la storia di uno che forse avrebbe voluto essere Celentano, che ha fatto l'intrattenitore nelle crociere, che ha improvvisato al pianoforte "La vie en rose" davanti a Mitterrand, e che è diventato capo del governo anche per poter sfogare la sua vena canzonettistica. Oggi infatti si materializza nei negozi di tutta Berluscolandia, pubblicato dalla Universal, "Meglio una canzone", l'album di Mariano Apicella che si avvale della collaborazione del super-paroliere Silvio Berlusconi. Fatte le debite proporzioni, è come se si ritrovasse un reperto con De Gasperi impegnato a cantare "La montanara uhè". Ora, siccome Apicella è un buon comprimario, sconosciuto alle cronache fino a quando non apparve in coppia con il premier nelle serate sarde in villa, l'evento è dato com'è ovvio dai frammenti del discorso amoroso del premier. Sono 14 canzoni, metà in italiano e metà in lingua napoletana, in cui il capo di Forza Italia lascia sgorgare il sentimento. Bontà e purezza sono le doti di Berlusconi, secondo il suo cantore Sandro Bondi; ma in quest'opera il leader apre le porte soprattutto all'amore, anzi all'"ammore". Il Cavaliere implora baci, anela labbra da baciare: «Vasa 'sta vocca bella ca cchiù bella nun ce sta», «tenevo 'a voglia pazza 'e te vasà», e lo ripete anche in italiano, «ho sulla bocca tutti i baci tuoi», «ma come fai a darmi questi baci che mi dai». Baci, baci, baci. E ammore. Ma sotto sotto il pensiero dominante è "'A gelusia", quella che «'a notte me turmenta... E sto perdendo 'o suonno». «È un pensiero che non vuole andarsene, sto male quando penso che... che tu... forse ora tu...». Non esiti, Cavaliere, direbbe uno Schifani, faccia sentire tutta la sua umanità: qual è l'angoscia, qual è il sospetto, che tu, che tu... «mi puoi mentire». Ecco, l'ha detto. Il leader ha confessato. Idea dominante, quella del tradimento possibile, angoscia lancinante, che erompe in brani come "Ammore senza ammore", i cui versi sono altamente indiziari: «Me tiene 'a mano mmano, ma nun me pienze maie, e finge 'e me penzà, ma pienze a chillu llà». E chi sarà mai il rivale? Potrà essere il gelido Fini, il neoguelfo Follini, l'istituzionale Casini? O, Dio non voglia, il barbuto e sinistro Cacciari, povera donna, ma povero anche il Cavaliere, roso dal tarlo, estenuato dal dubbio? Cose normali, quando l'amore è ammore, e il cuore diventa «geluso pure si te tocca 'o viento». Sì, ma se poi lei, quella femmena bugiarda, immaginabile nella spontaneità vesuviana e nelle forme eruttive di Sophia Loren, vuole lasciarlo, che fare, che dire? Il Cavaliere non ci crede, non vuole farsene una ragione: «Dimmi che non è finita qui, che non vuoi gettare via così questo nostro strano amore». L'orchestra ci mette il clima, grazie agli arrangiamenti di gente del mestiere come Renato Serio, passato alla storia come autore dell'inno di Forza Italia. Apicella ci mette le musiche e 'na voce e 'na chitarra. Singolare storia, la sua, trattato dalle cronache come «l'ex posteggiatore napoletano" miracolato dalla vocazione canora del Capo. I repertori della musica leggera lo ignorano, e le note biografiche ufficiali segnalano solo che per lui, chitarrista già a dodici anni, la musica è un affare di famiglia: il nonno era «un tassista poeta», mentre il padre (anche lui di casa nelle tenute del premier) negli anni Settanta ha spopolato nell'ambiente musicale napoletano, grazie a uno stile interpretativo "alla Aznavour". Di Apicella circolavano in realtà precarie musicassette antologiche con i classici partenopei, da "Cerasella" a "Malafemmena". Ma adesso, a 39 anni, giunto finalmente al suo primo cd, gli è toccato il compito supremo di vestire di note il lato sentimentale dell'uomo più potente d'Italia. Potente, ma anche malinconico, quando ha da passà 'a nuttata senza l'amor suo: «La notte senza te non passa mai, anche se so che stai pensando a me, ti stringo e ti accarezzo come se fossi qui». E ancora, al colmo della mestizia: «Notte ca nun vuò passà, notte ca me faie suffrì», perché ha perduto la sua bella fatalona, e la seratina in villa con Fedele e gli altri è stata un succedaneo modesto, con la musica che è filata via triste triste: «Aggio cantato 'e ccanzone c'a vocia velata e 'a chitarra stunata». Restano gli amici, certo: no, non l'amico Putin e l'amico Bush, e forse neanche l'amico Tony Renis. Gli amici veri, che si raccolgono intorno all'infelicità amorosa: «Nuie ca facimmo 'e nuttate cantanno l'ammore pe' l'innamurate». E finisce subito nell'autobiografia di gruppo, con questi uomini veri e duri che non esitano a confessare la loro vocazione sentimentale: «Nuie, pure a nuie succere accussì, ca ci annamurammo overo». Overo! «Nuie ca cantammo co' core che chiagne», perché quelle femmene belle accussì dentro l'anima non tengono ammore. E loro, i maschietti, alle Bermuda o a Villa La Certosa, in quella Camelot virile, loro, Confalonieri, Galliani, Letta, Dell'Utri, si guardano int'all'uocchie e confessano che «nuie simme 'e prime a suffrì, ma pecché, ma pecché ce credimmo ancora!». Creduloni. Si sa che quasi sempre gli amori finiscono male, con un tradimento, con un'infedeltà, con una fuga. E allora? E allora «cerco 'na distrazione... 'nu prestesto... 'n'occasione pe' nun te penzà». Fosse facile. «Leggo tutt'o ggiurnale» (sarà "il giornale" di Belpietro?), «guardo 'a televisione» (e qui non c'è che l'imbarazzo della scelta duopolistica). Ma l'unica consolazione è nella fantasia, «e me vene 'e immaginà ca ce staie pure tu, proprio vicino a me!». Perché in questo caso «'o cielo se fa blu». Cioè Azzurro. Come i cieli di Forza Italia. Oppure, e il cerchio si chiude, come Celentano, tanti anni fa.