Intanto, una premessa: se il futuro è dei quarantenni, se come dice il quarantenne Francesco Rutelli sono loro la nuova risorsa italiana, il senatore Di Pietro è fuori gioco, visto che i suoi cinquant’anni sono caduti il 2 ottobre. Quindi, out. Meglio così, perché la generazione nata fra il Giubileo del 1950 e il "miracolo" di fine decennio è un club del desencanto, di tipi che non hanno fatto in tempo a immaginarsi al potere nel Sessantotto, qualcuno si sentiva già fuori tempo nel Settantasette, molti hanno marcato visita rispetto alle grandi avanzate del Pci: figurarsi se potevano sentire il fascino dell’Italia country dei valori. Il valore primario, semmai, è una vocazione individualista, con le lealtà di bandiera surrogate da un certo senso del clan; e con il timore notturno che gerarchie ed élite abbiano bloccato il potere: davanti a loro, infatti, c’è la gerontocrazia italica, con i sessanta-settanta-ottantenni inschiodabili; ci sono la tigna tattica di D’Alema, le filiere accademiche di Giuliano Amato, le sperimentate facoltà equilibratrici di Antonio Maccanico e Andrea Manzella, le professionalità dei Visco e degli Spaventa, la felpa dei grands commis. All’ultimo minuto Quindi, provarci: forse è un last minute per una generazione intera. Anche se come generazione è un gruppo eterogeneo. In politica le foto sembrano meglio identificabili, a partire dal ticket familiare Rutelli-Palombelli: lui surfista delle tendenze politiche prevalenti, fino alla candidatura alla premiership. Irresistibile: come lei, l’ex reginetta di Montecitorio, ora confidente pubblica, chanteuse gozzaniana nella sua rubrica e nel suo sito, con una impareggiabile miscela di piccole cose e grandi incontri, navigatrice della Roma che si piace (in attesa dello sbarco fra gli over 40 della trentottenne Melandri, oltre che di Alfio Marchini). Primo fra gli altri quarantenni è naturalmente Walter Veltroni. Frenano i riduzionisti: al massimo, un talento per la mediaticità. E invece anche una insospettata capacità di manovra, prima a fianco di Prodi, e poi da solo, assistendo imperturbabile al tracollo del cinquantenne D’Alema, quindi intrigando fino a riuscire nella più improbabile delle soluzioni, cioè l’autoesclusione di Amato. Già pronto a distillare un progetto dalle essenze blairiane: un touch di socialità, il senso giddensiano della modernity mediato da un climi letterari alla Baricco&Tamaro, un venticello moraleggiante alla Michele Serra, un soffio partecipe della sua Africa (e pensare che Occhetto incassava ironie per il suo Pds "amazzonico"). Nel centrosinistra, le altre figure si possono dividere su due modelli. Il primo, di gran lunga in testa malgrado concorrenti come Pietro Folena o Enzo Bianco, è Pierluigi Bersani: il postcomunista più amato dagli industriali, il "doroteo rosso" secondo i nemici ma anche gli amici, il filosofo finito a mettere mano nelle infrastrutture, il cattolico (di famiglia) cresciuto nel pragmatismo socialista, furbizia piacentina e lessico in stile new wave, "dobbiamo fare ancora un paio di privatizzazioni, altre tre o quattro liberalizzazioni, e rock’n’roll", che nelle Feste dell’Unità viene inteso all’istante come un eccetera. Mentre l’altro modello è Livia Turco, romanticamente cattocomunista, catastroficamente battuta alle regionali in Piemonte da un altro quarantenne, il forzista Enzo Ghigo (una sorta di Bersani del Polo, l’ala duttile rispetto alle rigidità alla veneta di Galan). Più che un individuo, la Turco è l’autobiografia di un pezzo dell’ex Pci, cioè la solidarietà finita a misurarsi dolorosamente con il governo, dal che il dramma di dover mostrare fermezza nelle espulsioni mentre il credo personale sarebbe l’accoglienza tout court. E il problema (insignificante nel partito ma insidioso al ministero e al "Costanzo Show") di un lato estetico penalizzante, poi risolto con coraggiosi ritocchi del coiffeur, e consigli discreti delle amiche sottosegretarie che ogni tanto provano a trascinarla dalla Mariella Burani. A destra, vige lo stile Fini, ovvero il doppiopetto postfascista evoluto in colletti e cravatte abbinati sul precario, attacchi alla "Triplice", dipietrismo rimangiato, senso comune nazionalpopulista: con gli Storace e i Gasparri a rappresentare le pulsioni cattoliche di destra, anti Gay Pride, nonché slittamenti nel folk che non dispiacciono a Lady Daniela. E che rendono complicata la vita a Pierferdinando Casini, teorico e pratico del centrismo sulla tonalità Biancofiore, cioè pericolosamente rétro, e pure al coetaneo Marco Follini, che comunque è l’autore del più definitivo epicedio sulla Dc come partito-mamma. Eclettici in economia Tutto piuttosto facile, finché si resta in politica. Bipolarismo netto, identità definite. Invece la mappa del potere generazionale diventa più frastagliata non appena si entra in economia. Certo, c’è il presidente della Confindustria, l’eversore dal basso di Carlo Callieri, cioè Antonio D’Amato, che non perde occasione per aprire il manuale liberista, sostenuto dai piccoli imprenditori, dal Nordest di Nicola Tognana, in esplicita contrapposizione ai vecchi poteri targati Torino. E sul versante opposto la carriera fino alla presidenza dell’Enel di Chicco Testa, simbolo di una sinistra euforizzata dalla conquista del quartier generale, poi terrorizzata dall’idea di dovere sloggiare, infine rivitalizzata dall’ingresso in campo del vecchio compagno di strada Rutelli. Ma queste contrapposizioni sbiadiscono non appena entrano in scena i poliedrici, gli eclettici, i "nouveaux". Da che parte sta Diego Della Valle, con le sue folgorazioni di marketing, già pronto a scarpinare in borsa con le Tod’s? E quale sarà il pensiero politico di Renato Soru, l’inventore di Tiscali, cattolico praticante e ospite nel gennaio scorso al congresso Ds del Lingotto, la new economy come religione, così indifferente all’old power che interrogato su Hdp risponde: ci sono ottime spremute d’arancia? Varrà la pena di informarsi sulle affiliazioni politiche del genovese bocconiano Alessandro Profumo, il deus ex machina di Unicredito, definito prodiano ma rivelatosi soprattutto per le sue fulminee campagne acquisti? No, meglio concentrarsi sul loro essere figure di snodo, personalità di rete, imprenditori, tecnici, manager che possono permettersi di esercitare la loro technicality con una prudente indifferenza rispetto alle parti politiche. E anche i consiglieri del principe cambiano: mentre D’Alema contava sull’abnegazione intellettuale di Nicola Rossi, che si era calato "totus tuus" a Palazzo Chigi, oggi una figura di riferimento potrebbe essere quella del torinese Domenico Siniscalco, editorialista del "Sole 24 ore", consigliere d’amministrazione Telecom per conto del Tesoro, direttore della fondazione Eni "Enrico Mattei" (parola d’ordine modernista, "sviluppo sostenibile"): attivo già nella squadra di Amato nel 1992, all’epoca della finanziaria monstre, poi connesso gli ambienti governativi, al Tesoro, a Palazzo Chigi. Uno che sfugge alle sigle, ma che incarna alla perfezione il consulente della post-politica: relazioni personali, amicizie, collaborazioni, ma niente vincoli esclusivi di appartenenza. Il segreto, insomma, consiste nell’essere nodi di una rete possibile. Come Ilvo Diamanti, il politologo vicentino che perlustra il territorio fra la politica e il tessuto industriale del Nordest, e che dovrebbe essere il primo analista che il romano Rutelli dovrebbe incontrare per non arretrare davanti alle vertigini nordiste. Quell’altra rete che tiene insieme buona parte dei quarantenni del giornalismo di tendenza italiano, da Giuliano Ferrara a Gad Lerner, con la partecipazione esterna di Enrico Mentana, la tessitura diplomatica di Lucia Annunziata, le punzecchiature di Gianni Riotta (mentre più isolato e istituzionale, anche se alla fine più stylé, è il modo in cui interpreta la sua direzione al "Corriere della sera" Ferruccio de Bortoli). Quarantenni, comunque, eccoli qua. Magari incerti su quale sarebbe il modello estetico: lo stile hard boiled di Marco Tardelli o il genere baby face di Giorgio Gori? La voracità di Luca Barbareschi o il sarcasmo di Vittorio Sgarbi? Il baudismo di Carlo Conti o il dinamismo di Paolo Bonolis? Tuttavia disponibili, pronti a giocarsela, come l’accortissimo Gori che giunto al bivio professionale ha scommesso la carriera a Canale 5 con il "Grande Fratello". O come Roberto Giovalli che ha fatto la sua acrobazia, dalla direzione della polista Italia 1 alla criptoulivista Tmc. Tutti con la percezione che la partita è cruciale. Perché se vince il sessantaquattrenne Berlusconi, lo spazio è occupato per tutti, anche per i colonnelli del Polo. Mentre se vince la banda Rutelli, per i versatili di centrosinistra è sicuramente l’occasione della vita; ma anche per i quarantenni del centrodestra c’è una inconfessabile prospettiva in più.
12/10/2000