Silvio Ultimo, o Penultimo, ovvero l’eterno rifiuto della normalità. Il Caimano non può essere normale. Deve puntare sempre sull’eccezionalità. «Sovrano», dice Carl Schmitt, teorico della politica come mobilitazione totale, «è chi decide sullo stato di eccezione». Già, ma l’eccezionalità va creata, sollecitata, aizzata. E Berlusconi è riuscito a crearla. Il suo recupero in campagna elettorale, quando da almeno due anni tutti lo davano per sconfitto e si preparavano al dopo, è stato realizzato proprio puntando sulla divisione del paese in due parti avverse, addirittura antropologicamente irriducibili. Due Italie incompatibili, ostili, sovraccariche di inimicizia. Come sia riuscito in questa impresa ha quasi dell’incredibile. Ha giocato tutta la prima parte della campagna elettorale sui suoi temi più classici, a cominciare ovviamente dall’anticomunismo. Nell’ultima parte della campagna, via via che il voto diventava incombente, ha sollevato il tema delle tasse, cioè dell’esproprio delle "sinistre" ai danni della borghesia berlusconiana, i presunti moderati. Lotta da ultima spiaggia contro i rossi, ed esorcismo ideologico sulla "robba", la proprietà, la successione: è riuscito a fare un Quarantotto sul Settequaranta. Ma non basta: secondo il suo ex sondaggista Luigi Crespi, colui che inventò il Contratto con gli italiani, il Cavalier Caimano ha evocato paure profonde, «miseria terrore morte», e ha scosso la società italiana sulla tassa di successione, «che implica un evento luttuoso». Era l’ultima possibilità che gli rimaneva: ha quasi settant’anni, poco da guadagnare e molto da perdere. Come tutte le personalità fuori dall’ordinario, i grandi mercenari, i condottieri disperati, i giocatori che incarnano insieme il re e il giullare, il "king" e il "fool", Berlusconi non ha né inibizioni né tabù. Ha deciso consapevolmente di reinnescare una specie di guerra civile a bassa intensità, convinto che solo il grande caos e pulsioni più profonde potevano ravvivare la sua leadership, in quanto condottiero di un fronte impegnato in uno scontro di civiltà. Gli è andata male. Malino o malissimo dipenderà dai prossimi giorni, settimane, mesi. Bene o benissimo dall’impazzimento della politica. A posteriori, dopo il voto al fotofinish, può apparire incredibile la successione degli eventi, quella rincorsa pazzesca, senza respiro, che lo ha condotto a meno di 25 mila voti di distacco dall’Unione. Gli è mancato un niente, un sospiro, un sogno, un naso di Cleopatra. Quasi incredibile che la storia possa decidersi nella casualità ineffabile dei piccoli numeri; che il perfezionista per autodefinizione Silvio Berlusconi si sia dovuto arrestare di fronte a quel diaframma fragilissimo. È per questa sensazione di frustrazione impotente, o di onnipotenza frustrata, che il giorno dopo i risultati detta il suo comando: «Il voto deve cambiare». Il sovrano getta il peso dello scettro sulla bilancia della democrazia liberale? Oppure sta semplicemente giocando ai bussolotti con il sistema politico? Calma e sangue freddo. Il Caimano è un rettile, sangue arterioso e venoso un po’ mischiati, temperatura del corpo fredda o calda a seconda del clima esterno. Qualche volta il maestro Giovanni Sartori lo ha chiamato sarcasticamente «il Cavalier Traballa», ma per una volta aveva frainteso le acrobazie berlusconiane. I traballamenti non dipendono infatti da scarso equilibrio, ma dall’adeguamento alle condizioni ambientali. Ci vuole aggressività, furore, addirittura ferocia? Re Silvio digrigna, schiuma, si inarca e inveisce. Occorre invece pacatezza e persuasività? Le labbra si spianano nel sorriso, la dentatura si ingentilisce, e il "fool" si trasforma in un mostro di simpatia e di buone maniere. In fondo, è sempre rimasto un imprenditore. Sa quando deve attaccare; e sa benissimo, allorché viene respinto, come arretrare. In questo momento tuttavia, è drammaticamente combattuto. Le persone a lui più vicine, da Fedele Confalonieri a Gianni Letta, lasciano capire che il Cavaliere è nelle sue fasi altalenanti. Traballa, direbbe il solito Sartori? No, non traballa: ma oscilla, il suo umore barcolla. Un giorno, a Portorotondo, si lascia andare, il pessimismo lo invade, pensa al «governo delle sinistre» e confida: «Questi dureranno cinque anni». Poche ore dopo Fausto Bertinotti produce alcuni degli effetti pirotecnici, «Mediaset deve dimagrire», e allora Berlusconi richiama all’ordine il suo esercito, lo schiera di nuovo in formazione di battaglia contro quello che i giornali di destra chiamano «l’esproprio proletario». Politica, affari, proprietà, il solito groviglio inestricabile. Ma intanto Re Silvio torna a fare politica. Prende tempo. Rallenta i meccanismi istituzionali. Intima che non sia Carlo Azeglio Ciampi a conferire l’incarico di governo. E intanto intravede la possibilità di sparigliare la situazione creatasi in Parlamento. Il progetto Andreotti. Difficile stabilire con esattezza dove sia nata l’idea della candidatura alla presidenza del Senato del divo Giulio. Di sicuro chi l’ha enunciata con maggiore precisione è stato Rocco Buttiglione, al consiglio nazionale dell’Udc: «Se eleggiamo il senatore a vita Andreotti, che può prendere voti anche fra i senatori dell’Unione, si dimostrerà che Romano Prodi non ha una maggioranza, e il presidente della Repubblica non potrà dargli l’incarico di formare il governo». È la via più breve all’implosione della legislatura. La sterilizzazione del premio di maggioranza con un riequilibrio anomalo al Senato. Il grande incubo di sistema. In ogni caso l’apertura di una fase politica illeggibile: da un lato ci sarebbe una estenuante trattativa su modelli di larghe intese, inciuci, "schema Monti", la Bocconi al governo; e dall’altro la pressione di organismi internazionale come il Fondo monetario per avere un governo di rassicurazione dei mercati. Qualcun altro si incaricherebbe di ventilare la possibilità di votare nuovamente soltanto per il Senato: «Un’ipotesi accademica», secondo un costituzionalista come Augusto Barbera, mentre Sartori si è già schierato contro il «rivotismo», sintomo di una malattia infantile del maggioritarismo imperfetto. Eppure le larghe intese sono state il primo espediente messo in campo da Berlusconi dopo l’esito del 9-10 aprile; anche con sceneggiate formidabili, come quella di accusare Prodi di insensibilità democratica e di irresponsabilità civile perché non aderiva all’invito della Grande coalizione. In realtà la Grosse Koalition è un’ipotesi particolarmente complicata, perché spaccherebbe le due alleanze elettorali. Piace naturalmente a Pier Ferdinando Casini, perché riporterebbe in auge quel processo di scomposizione e scongelamento dei poli che i postdemocristiani hanno sempre auspicato. Probabilmente non dispiace a Gianfranco Fini, nonostante i maldipancia che potrebbe provocare dentro An, in quanto creerebbe le condizioni di fondo per il transito del partito tra le file del Partito popolare europeo. Ma più di tutti piace naturalmente al Caimano. Il quale sarebbe messo in difficoltà da un governo di legislatura. Certo, potrebbe esercitare il suo ruolo di capo del maggiore partito della Cdl, mettersi di traverso sulle decisioni governative più fastidiose, trattare cocciutamente su tutto, fare ostruzionismo, bombardare il paese con campagne ossessive. Ma è una prospettiva guerrigliera. Implica che il Cavaliere si rintani nella foresta e organizzi la resistenza "anticomunista" convincendo di nuovo l’opinione pubblica che i suoi affari privati e pubblici coincidono con quelli del paese (è stato il suo capolavoro più fantastico, finora, persuadere i poveri a sostenere i ricchi). Ma se la situazione politica dovesse evolvere verso un governo istituzionale, o di garanzia, o qualsiasi formula di solidarietà nazionale, Berlusconi potrebbe trovare un’altra incarnazione, un altro ruolo da interpretare in modo sublime. Padre nobile della Grande coalizione, uomo disinteressato capace di gesti spassionati come il passo indietro, animatore della riscossa nazionale nel nome delle riforme indifferibili. Eccetera. Con un ennesimo colpo magistrale, il Caimano si trasformerebbe in un altro animale. Deporrebbe la ferocia, abbandonerebbe i suoi istinti più selvaggi, ed eccolo pronto a ripresentarsi sulla scena. Suadente, affabile, pragmaticamente irresistibile. Dietro l’ombra di Andreotti, delle larghe intese, della caduta preventiva del governo delle odiate sinistre, sembra già prendere forma e colore la silhouette del grande Camaleonte. n
04/05/2006