Nel corso della notte delle streghe, mentre dal Viminale affluivano lentamente i voti della Camera, Arturo Parisi rifletteva: «Che cosa significa vincere? Vincere vuol dire prendere un voto più degli altri». Era già scivolata via da un pezzo la souplesse con cui si attendeva un risultato dato per già acquisito, la larga vittoria dell’Unione attestata dai sondaggi, la sconfitta "fisiologica" della Casa delle libertà. Un gioco di miraggi che si era trasformato all’improvviso in un’incubo. Già il Senato se n’era andato, erano state perse regioni come il Piemonte e il Lazio, date per sicure al centro-sinistra. Ondate di panico politico si stavano diffondendo a Piazza Santi Apostoli, nel quartier generale di Romano Prodi. «Vincere vuol dire un voto in più». Ma in realtà ci si attaccava a una speranza esilissima, e cioè che il risultato della Camera si differenziasse da quello del Senato, come sosteneva uno degli analisti più quotati nell’entourage prodiano, il docente di scienza politica Roberto D’Alimonte. «D’Alimonte sostiene che alla Camera si può ancora vincere», anche se il margine si sta assottigliando in modo da far sbigottire, da far torcere le viscere per l’inquietudine. E perché mai ci dovrebbe essere un risultato diverso alla Camera? In parte per alcune superstizioni da Prima Repubblica, congetture sociologiche, con l’idea che il voto dei giovani contiene peculiarità: ci sono sette classi di età che, secondo alcune opinioni, potrebbero preferire il centro-sinistra. Fino al punto di rovesciare il pessimo risultato del Senato? Forse no, con un primo conto a spanne. Ma oltre alle congetture c’è anche un elemento più pesante, «l’offerta politica» diversa rispetto al Senato, con la presenza del simbolo dell’Ulivo, che rastrella più voti rispetto alla somma di Ds e Margherita. Tensione che mozza il respiro, Giulio Santagata che ansimando controllava i dati delle ultime 500 sezioni, i suoi collaboratori intenti soprattutto a frenare l’angoscia di un margine che si assottigliava via via che aumentavano le sezioni scrutinate. Non tiene. Non tiene, forse non tiene, tiene, oddio, speriamo che tenga. Tiene. Non si riesce neppure a gioire. Si conclude così una consultazione elettorale pazzesca, con il cuore che balla a forza di extrasistoli, le coronarie a rischio. Voglia di piangere, freddo nella schiena. La scena di Prodi, Fassino e Rutelli sul palco, Rutelli con un impermeabile vagamente incongruo. Lo scampato pericolo della rimonta che si trasforma in parole che dicono di una vittoria che ancora non c’è, o non c’è del tutto. Ci sarà da aspettare il voto degli italiani all’estero, il frutto dell’impegno del ministro postfascista Tremaglia, per avere una maggioranza anche al Senato. Sono i paradossi di una legge elettorale «sfascista» secondo Marco Pannella, approvata per limitare la sconfitta, per confondere le acque, per introdurre turbolenza in un risultato che veniva dato per scontato da mesi, da anni, dalle elezioni amministrative e regionali. Un attentato alla stabilità e alla razionalizzazione del sistema politico, qualcosa che ha rischiato di vanificare quindici anni di faticosissima, estenuante transizione. Ma in quella notte spaventosa, in quel finale da raccapriccio, non c’era il tempo di ragionare sulle questioni di sistema. Un voto in più era la vittoria, un voto in meno la sconfitta. Poi, naturalmente, a mente appena più fredda, la mattina seguente, si potevano fare altre considerazioni. Roberto Cartocci, uno degli studiosi meno conformisti della politica italiana, anche nelle sue dimensioni simboliche e psicologiche, le meno esplorate dai «positivisti» delle indagini demoscopiche, quelli che hanno creduto ai loro dati in apparenza così nitidi, fino al giorno prima aveva diffidato esplicitamente della vittoria "sicura" del centro-sinistra. Esattamente come il maestro della scienza politica italiana, Giovanni Sartori, che a ogni sondaggio trionfalistico si stringeva nelle spalle e mormorava: «Speriamo bene». Mentre Ilvo Diamanti segnalava sfasature fra il campione nazionale e le indagini condotte su base regionale. La mattina di martedì 11 aprile, dopo la notte dei sondaggi zombie e dei voti resuscitati, Cartocci ragionava sui dati : «Dai primi calcoli la prova elettorale si può sintetizzare all’incirca così: c’è stato un milione di voti validi in più rispetto alle politiche del 2001, pur scontando una diminuzione di due milioni di aventi diritto, in seguito alla bonifica degli elenchi elettorali». È un risultato a suo modo spettacolare, che va riconosciuto in larga misura a Silvio Berlusconi. Il Caimano ha realizzato un’impresa straordinaria, superando colli pirenaici in grandissimo recupero, anche se sul traguardo ha perso la volata. Ha perso le elezioni, ma ha avuto ragione su tutto. Tutto. Aveva detto che oltre una certa soglia di partecipazione, superando l’80 per cento di votanti e spingendo il voto fin verso l’84 per cento, avrebbe potuto vincere, ed era nel giusto. Ne sapeva evidentemente più lui di tutti i sondaggisti; oppure i suoi analisti erano migliori. Ma un’intuizione di questo genere va sostenuta da una campagna formidabile, e Berlusconi è riuscito a imprimere una velocità parossistica al confronto. Condotto sempre in testa, imponendo l’agenda, fissando i temi in discussione, attaccando avversari via via più frastornati. Certo, Berlusconi ha potuto contare su un contesto televisivo che lo ha vistosamente favorito. Nonostante i distinguo degli snob, bastano i rilievi dell’Autorità per le comunicazioni e le multe inflitte per registrare uno squilibrio grave a favore del Cavaliere. Padrone del mezzo, come si dice, ma anche padrone dei mezzi. E tuttavia possedere e controllare gli strumenti non significherebbe molto se non ci fosse la presenza, la voglia, la determinazione, il senso del conflitto anche personale che Berlusconi è stato capace di attizzare. Mentre Prodi e tutto il centro-sinistra conducevano una campagna ora fiacca, ora manierista e ora quasi suicida (sulle tasse), o a essere buoni gravemente autolesionista, il Caimano ha dettato il suo populismo forsennato, con l’intenzione di snidare ogni elettore "deluso" dal miracolo non avvenuto, ogni evasore potenziale e reale, lanciando un messaggio a cui la società del nostro paese ha mostrato di essere sensibile: guardate che questi, la sinistra, vogliono farvi cacciare fuori dei soldi. A questo forcing di intensità mai vista, condotta con un dispendio anche fisico eccezionale, Romano Prodi ha risposto alla sua maniera. Appellandosi alla serietà, facendo ricorso alla necessità di unire un paese lacerato da cinque anni di governo del centro-destra. La via emiliana all’ulivismo. Ma anche lasciandosi incastrare sulla questione fiscale, cioè senza rendersi conto che il tema delle tasse era un argomento mobilitante: il Caimano stava stanando tutte le fasce sociali, tutti i gruppi, tutti gli interessi sensibili. Non poteva più promettere prodigi, dato che l’economia italiana è in condizioni degradate, ma è riuscito a fare interagire due paure: la paura dei "comunisti", valorizzando in modo quarantottesco una frattura storica e psicologica che evidentemente si fa ancora sentire nella cultura e nella psicologia degli elettori, e la paura del "furto socialista". Agli occhi di un’Italia che mostra un «egoismo pauroso e impaurito» (come ha scritto Rossana Rossanda), Berlusconi è apparso come il campione della gramsciana «plebe borghese», richiamando alle urne il popolo delle partite Iva, dei piccoli imprenditori mobilitati in chiave anti Confindustria, contro i poteri forti, contro i salotti buoni, contro l’aristocrazia industriale e gli establishment più sofisticati. Ha chiamato al voto «il figlio del professionista contro il figlio dell’operaio», lotta di classe purissima. Di fronte a questa offensiva, l’Unione e Prodi hanno barcollato, talvolta reagendo con durezza, ma di solito contemplando con sbalordimento la violenza dell’attacco berlusconiano, e rispondendo con genericità alle accuse più demagogiche: è passata l’idea che l’Unione volesse tassare addirittura i titoli di Stato (non i capital gain), e gli sbandamenti sulla tassa di successione hanno spaventato molti piccoli proprietari. Ancora: il centro-sinistra è perfettamente adeguato per segnalare i guasti pubblici prodotti dal governo Berlusconi, a partire dal bilancio dello Stato; mentre il Caimano è efficacissimo nel descrivere e promettere soddisfazioni private. Il Professore accusava l’azzeramento dell’avanzo primario, entità inafferrabile; il Cavaliere parlava tutto ispirato della ricchezza individuale, case, auto, telefonini. Per rispondere all’offensiva del premier sarebbe stata necessaria una campagna propositiva, mentre le molte pagine del programma dell’Unione contenevano tutto fuorché gli slogan per indicare obiettivi aggreganti. Mentre Berlusconi parlava, e qualche volta gridava, a un paese reale, Prodi e l’Unione avevano in mente un paese largamente immaginario, dedito alla sobrietà e al rispetto delle regole. La vittoria dell’Unione era interiorizzata come un riscatto perfino etico dopo la distorsione prodotta dalla Cdl in cinque anni di leggi ad personam e trucchi contabili, senza parlare delle riforme unilaterali come la revisione costituzionale e l’approvazione dello sciagurato "Porcellum", legge elettorale su misura (anche se catastroficamente ritortasi contro chi l’aveva progettata e realizzata). Le illusioni del centro-sinistra erano alimentate da una serie di illusioni minori, esemplificate dal risultato deludente della Rosa nel pugno. Che nelle aspettative della bolla mediatica in cui talvolta sembrano vivere dirigenti e tifosi dell’Unione si erano dilatate oltre misura. Il risultato finale è un bagno di realismo, che deve fare i conti con alcuni dati di fatto. Lo sconquasso nel centro-destra non c’è stato. Anche le due mezze punte, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini hanno portato a casa la pelle. Ma ciò che più conta è che la classe politica si trova davanti due Italie, divise da un soffio di voti e da un abisso di ostilità. I segni di una campagna elettorale trasformata in un’ordalia medievale potrebbero restare a lungo nella società, lasciando tracce difficili da eliminare. È superfluo ripetere che la responsabilità di avere trasformato un confronto elettorale in un giudizio di Dio, in uno scontro fra antropologie irriducibili, ricade sul Caimano. Ora si tratta di vedere se un’affermazione elettorale risicatissima, dilatata alla Camera dalla formula tecnica, può essere tradotta in prassi istituzionale. Dovrebbe essere evidente che per tener fede a una qualche razionalità delle regole occorrerà che l’Unione formi il suo governo: anche se Prodi si è indebolito, anche se il centro-sinistra sembra un esercito che era partito per Austerlitz e si è ritrovato a Stalingrado e ha rotto l’assedio con un combattimento all’ultimo uomo. Senza abusare della retorica, dopo avere evitato per un soffio l’implosione del sistema, come sarebbe avvenuto nel caso di due maggioranze diverse fra Camera e Senato, è necessario condurre la politica e il paese intero su un sentiero di linearità politica e istituzionale. Non solo: proprio tenendo conto della inquietante spaccatura della società italiana, occorrerà cercare di portare sul piano delle istituzioni il successo del centro-sinistra, ma con un’attenzione supplementare a quella parte d’Italia e a quella parte politica che sono risultate tecnicamente soccombenti. In passato si era scherzato sulla fortuna di Prodi e sulla sconfinata grandezza del suo posteriore. La fama non è stata smentita: vittoria all’ultimo respiro alla Camera, affermazione rocambolesca al Senato grazie all’invisa legge del ministro Tremaglia. E in ultimo il tempismo della cattura di Bernardo Provenzano, che se fosse avvenuta qualche ora prima avrebbe forse fornito al governo la briscola decisiva: il governo "amico dei mafiosi" secondo chi demonizza la Cdl, che prende il capo della mafia, ma con un giorno di ritardo. Adesso, dopo la fortuna, ci vuole rigore istituzionale, intelligenza politica, e quella serenità a cui il Professore si è sempre appellato. Ne ha bisogno l’Unione, e ne ha bisogno tutto il paese. n
20/04/2006