Come diceva il "maestro solitario" Lucio Battisti, «questi stanno a fa’ solo dell’accompagnamento». Eppure il segreto dei cantautori consisteva nell’essere in sintonia con lo spirito del tempo. Accadde negli anni Settanta, quando il pubblico si ritrovava meravigliosamente dentro le strofe di Fabrizio De André e degli altri. Ma adesso? Già negli anni Ottanta e Novanta i cantautori non hanno proposto grandi significati e nemmeno troppi piccoli slogan; inoltratisi nel primo decennio del 2000, viene anche voglia di capire che cosa stanno raccontando, e se ci raccontano qualcosa. A Bologna, come al solito, Francesco Guccini adotta i tempi lunghi: traduce Plauto, ha trovato e portato in italiano dal dialetto una canzone della Resistenza emiliana, che inserirà nel prossimo disco, e che potrebbe essere "La locomotiva" del nuovo secolo: chi l’ha ascoltata dice che si tratta di un pezzo "fenogliano", in cui l’epica si dispiega su un tessuto antiretorico. Immagini scabre, paura, sudore, fatica. Ma Guccini è un caso a sé: con gli anni è riuscito a crearsi un consenso privo di obiezioni, in cui la sua fisionomia culturale e la sua figura fisica coincidono alla perfezione. La sua è la tendenza Guccini: tracce di Dylan, echi dei Nomadi ai tempi di Augusto Daolio, "Noi non ci saremo" più il ricordo di Guevara, e talvolta un intimismo vivificato dalla cultura e dalla padronanza del lessico. Ma allora la tendenza, ammesso che una tendenza ci sia, dove sta? Nel panorama di questi mesi si stagliano ancora una volta due protagonisti sulla scena da oltre un trentennio. Sono Francesco De Gregori e Ivano Fossati. Il primo sta pubblicando un disco dopo l’altro, e l’ultimo, "Calypsos", suona bene, morbido, avvolgente. Quanto ai contenuti, bisogna andare a cercare il messaggio con il lanternino: «Ma guarda la gente che salti mortali che fa / E quanti nani sui trampoli», potrebbe essere un ritratto dell’Italia del "Caimano", e del "Caimano" stesso, cioè di un paese passato dalle meraviglie romantiche della donna cannone ai fenomeni da baraccone divenuti capipopolo. Ma più che un messaggio sembrerebbe un messaggino, un sms, con cui De Gregori si tiene in contatto con i suoi amici e gli aficionados. Mentre Fossati, eh, Fossati. Il compositore più musone e celebrato d’Italia, che fu uno straordinario autore di canzonette e ha cercato in tutti modi di farle dimenticare, viene monumentalizzato in una biografia scritta da Andrea Scanzi ("Ivano Fossati. Il volatore", quasi 300 pagine in uscita da Giunti il 5 aprile). Sarà l’occasione per ripercorrere la vicenda di uno dei più bravi costruttori di musica che siano apparsi in Italia, gravato dal peso di dimostrare in ogni album la sua caratura intellettuale, e che forse non ha mai percepito fino in fondo che la qualità culturale non si esprime soltanto con la ricerca, ma anche con la disponibilità a sintetizzarla nello standard, in canzoni fatte e finite, quelle che si ricordano perché mettono a confronto la dignità musicale con il piacere del pubblico, e con la grazia dell’ascolto. E invece l’impressione è che Fossati stia ancora ricercando una legittimazione sul piano della critica politica, come nella canzone più citata del suo ultimo disco ("L’arcangelo"), che com’è noto si intitola "Cara democrazia", e che si concede il gusto di mettersi in posizione terzista, «io sono un uomo libero, né destra né sinistra» quasi à la Gaber (anche se prestata a Celentano). Questa volta, invece, a proposito di democrazia: «Cara gemma imperfetta / Equazione sbagliata / Non scritta e mai corretta», e «Ahi, che pessime orchestre / Che brutta musica che sento» (come antidoto, si può scaricare dal Web "Lo scrutatore non votante" di Samuele Bersani, secondo il quale il disimpegnato «è come un ateo praticante seduto in chiesa la domenica»). Quanto agli altri, si tratta di intendersi: anche Luciano Ligabue mantiene una venatura cantautorale, che in passato si era espressa in pezzi come "Ho messo via" e "Metti in circolo il tuo amore" (buona anche nella versione di Fiorella Mannoia); ma il "Liga" punta soprattutto a definirsi come grande autore popolare, un Battisti dei tempi nuovi. Antonello Venditti resta fedele soprattutto a se stesso, e forse è una scelta coerente, quella di una canzone che sfida la ripetitività di refrain come «che fantastica storia è la vita». Dopo di che, è una faccenda di nicchie. C’è la nicchia di Vinicio Capossela, che persegue in modo radicale la propria diversità "patafisica". Il giardinetto di Michele Salvemini in arte Caparezza, quello di "Fuori dal Tunnel", che ora ha proposto un disco "postumo": «Io sono il cadavere di me stesso e canto "Non mi fregio di un feretro che mi dia stima e buona nomea, non mi piace la bara Versace, mi piace la bara plebea, mia l’idea di comperarla all’Ikea"». Per scaramanzia, si può ascoltare l’ultima produzione di Gianna Nannini, un’altra che non sarà proprio una cantautrice classica ma tiene dritta la barra e continua imperterrita a miscelare tradizione e pulsazione. Oppure Simone Cristicchi, quello di Biagio Antonacci, uno che sa che cos’è l’ironia. E per i veri reazionari c’è sempre l’opera omnia di Max Pezzali, che non fa nulla per sofisticarsi, ma che è pur sempre il migliore autore di parole per le canzoni che esista in circolazione (quando se ne accorgerà qualcun altro, brindisi per tutti). n
06/04/2006