gli articoli L'Espresso/

Super Luca for president

02/02/2006

Il gioco politico preferito dei corridoi e nei salotti dell’economia nazionale, mentre ricorre il terzo anniversario della scomparsa di Gianni Agnelli, è riassunto dalla domanda: «Che cosa direbbe l’Avvocato?». Già, come si pronuncerebbe adesso, alla fine del quinquennio berlusconiano, quel formidabile inventore di battute che erano verdetti, sentenze praticamente inappellabili? Dunque, nel 1994 l’Avvocato convoca a Roma il neofita governante Berlusconi, insieme alla "haute" dell’economia nazionale, e tutti insieme decidono che non sa usare le posate: pollice verso, e Silvio cadrà. Poi nel 1996 lascia capire che con il centro-sinistra di Prodi le cose andranno meglio, perché si adotteranno misure «europee» e quindi impopolari senza gente in piazza. Quando l’assemblea "vota Antonio", cioè il rutilante D’Amato, contro il candidato di famiglia Carlo Callieri, fa la faccia schifata, «hanno vinto i berluschini». Poi dà il via libera al Cavaliere, messo in croce dalla stampa estera, con la celebre affermazione secondo cui «non siamo una Repubblica delle banane». Ma quando Berlusconi e Bossi licenziano il suo fiduciario Renato Ruggiero, affonda il colpo: altro che banane, «siamo il paese dei fichi d’India». Adesso, quello che Alcide De Gasperi definì nel 1947 «il quarto partito» (come ha ricordato Giancarlo Galli nel volume "Poteri deboli", appena uscito da Mondadori), si guarda in faccia. Ogni protagonista controlla le mosse dell’altro. Ci si scruta e ci si interroga. Già qualche mese fa "L’espresso" aveva rivelato che nel consiglio direttivo di Confindustria prevaleva largamente un giudizio negativo sul bilancio del governo del Cavaliere: «Inferiore alle aspettative». Il presidente Luca Cordero di Montezemolo aveva aggiunto che un governo di fine legislatura «può ancora fare cose importanti», ma le ultime due Finanziarie erano state disarmanti: quella di Domenico Siniscalco aveva rapidamente accantonato l’intervento progettato a riduzione dell’Irap, e l’ultima di Giulio Tremonti aveva concesso soltanto un taglietto di un punto degli oneri sul costo del lavoro. Un passo nella direzione giusta, detto in pubblico. Una inezia, detto in camera caritatis. Quindi ecco la valutazione dominante su Berlusconi: cinque anni di obiettivi spacciati per risultati. Crescita zero, o zero virgola. I conti pubblici, meglio non parlarne. La spesa pubblica, decollata, che per un governo di destra e sedicente liberista è un controsenso. In qualsiasi occasione Montezemolo ripete il grido di dolore: «La politica ha abbandonato l’industria. Negli ultimi cinque anni abbiamo visto la mancanza più totale di politica industriale». Non sembrerebbero esserci molti margini a sostegno di Berlusconi e del centro-destra. Eppure a un esame meno superficiale viene fuori che i "partiti" dell’economia sono più di uno. A parte il partito berlusconiano fondamentalista, l’establishment economico si divide almeno in altre due fazioni. Quelli di sinistra, o che accettano il centro-sinistra e Romano Prodi come il male minore, ed eventualmente come l’anticipazione di quel Partito democratico che dovrebbe finalmente deideologizzare il confronto politico, allontanando i turbamenti che comporta l’avvicendamento al governo. E il "partito del presidente", raccolto intorno a Montezemolo, attentissimo a ogni risultato che possa scomporre il panorama politico, e a mettere in campo ipotesi diverse. Gli "idéologue" berlusconiani in questo momento sono quelli che soffrono di più. Sono sodali del Cavaliere come Fedele Confalonieri, le cui visioni politiche appaiono inestricabilmente avvinte alle sorti dell’impero economico che fa capo al premier. Oppure sono esponenti come la presidente dell’Assolombarda, Diana Bracco, e figure di riferimento come Gianmarco Moratti, che considerano impraticabile ogni altra scelta. Si vota a destra, perché il mondo dell’industria è conservatore, liberista, sbrigativo, poche storie. Se il «nostro» governo non è stato all’altezza, e se uno dei nostri, Silvio da Arcore, che nel 2001 alle assise confindustriali di Parma parlando dalla «comune trincea del lavoro» infiammò gli entusiasmi esclamando «il vostro programma è il mio programma, governiamo insieme», è andato sotto le aspettative, l’idea non muore. L’economia deve stare da questa parte, la sinistra è un mondo alieno. Ed è logico che possano continuare a pensarla così i liberisti più convinti, come il desaparecido D’Amato, e come il "competitor" strabattuto da Montezemolo nella corsa per viale dell’Astronomia, il veneto para- leghista Nicola Tognana. Non è una posizione che raccolga in questo momento molti consensi. Come avrebbe detto l’Avvocato, la Fiat è storicamente governativa. E quindi ci si deve preparare al possibile trapasso di potere. Anche se uno dei grandi vecchi dell’élite industriale, il presidente onorario di Rcs Mediagroup, Cesare Romiti, prende le distanze e invita a non fare il tifo: «Il compito di banchieri, manager e industriali non è quello di fare politica. Quando si hanno responsabilità aziendali ed economiche, magari con migliaia di dipendenti, ci vuole rispetto. Non condivido le dichiarazioni di coloro che si definiscono di destra o di sinistra. Io ho sempre ritenuto opportuno astenermi». In realtà le dichiarazioni latitano. Occorre procedere per indizi, segnali impliciti. Ad esempio, molti guardano con interesse alla posizione di uno dei vicepresidenti confindustriali, il torinese Andrea Pininfarina, «un rigorista». Cioè un esponente di cultura liberal-conservatrice, ma puntuale intellettualmente, a cui si attribuisce un ragionamento vincolante: se nella sua valutazione la Casa delle libertà ha fallito, non serve immaginare scenari inciucisti, grandi centri, prospettive neotrasformiste. In politica si gioca con le carte che ci sono, non con le fantasie, e quindi al fallimento del centro-destra si risponde mettendo alla prova il centro- sinistra. Senza sconti ma anche senza elusioni. Il "partito" del centro-sinistra vede invece all’opera alcuni grandi banchieri, notoriamente filoprodiani, come Alessandro Profumo, Enrico Salza, Giovanni Bazoli, Corrado Passera. A cui si affiancano i sostenitori espliciti del partito democratico capeggiati naturalmente da Carlo De Benedetti e una pattuglia, in crescita, di leader stimati nel mondo imprenditoriale come Vittorio Merloni (a cui si aggiunge per via di relazioni personali il presidente delle Ferrovie, ex Ibm Italia, Elio Catania) e un ulivista storico come Mario Carraro. E se l’ulivismo di Annamaria Artoni, attuale presidente della Federindustria emiliana, non è mai stato in discussione, al punto che si prevedono per lei candidature (improbabili) e ministeri (probabili), nel mainstream di centro-sinistra figurano nomi importanti come quelli di Roberto Colaninno, Emma Marcegaglia, Alberto Tripi, oltre all’ex StMicroelectronics Pasquale Pistorio. I più informati sostengono che anche un duro come Alberto Bombassei starebbe dimostrando un atteggiamento da realpolitiker non troppo dissimile da quello del Pininfarina giovane, e forse anche il responsabile della Federmeccanica, Massimo Calearo, reduce dal complicato accordo (13 mesi di conflitto e negoziato) con i metalmeccanici, a cui gli oltranzisti rimproverano di avere lasciato ai sindacati la bandiera dei 100 euro. Un’incognita è rappresentata da uno dei grandi protagonisti sullo sfondo, Marco Tronchetti Provera, il quale tuttavia sembra incline a guardare alla politica in chiave sistemica, e con simpatia alla dimensione "professionale" di molti ministri virtuali del centro-sinistra, a cominciare da Enrico Letta e da Pier Luigi Bersani. Senza contare il ruolo che può avere nella definizione dei suoi orientamenti Riccardo Perissich, che ha avuto una carriera nella Commissione a Bruxelles, e di cui è nota l’insofferenza per le pulsioni anti-europee di parti della Cdl. Tutto ciò ha una razionalità se il risultato elettorale sarà netto. Ma se invece il pasticciato sistema proporzionale rimescolerà le carte, dando luogo a un risultato contestato o difficilmente leggibile, ecco che lo scenario si complicherebbe. Per ora si tratta di una subordinata, ma c’è tutto un mondo che silenziosamente ha guardato con favore alle soluzioni neocentriste delineate dall’ex commissario europeo Mario Monti. Che si chiami Grande Centro o altro, è un’ipotesi che non scompare mai. Se la politica fallisce, se gli schieramenti non ce la fanno, se il bipolarismo chiude la propria parabola in una implosione, se, se, se. A forza di ipotetiche, la figura di Montezemolo acquista una visibilità e un rilievo impressionanti. È lui l’uomo che può raccogliere il potere nel caso di un no contest? «De Gaulle diceva che il potere non si conquista, si raccatta», ammiccano a viale dell’Astronomia. A dispetto di qualche attrito più pubblico che privato in seguito ai suoi attacchi violentissimi a Berlusconi, anche Diego Della Valle è uno dei potenziali grandi elettori del "partito del superpresidente", il Cavaliere bianco capace di rimettere in sesto i cocci che la politica lascerebbe sul terreno. E intorno a Super-Luca non si schiererebbero soltanto gli amici di sempre, come Nerio Alessandri e Paolo Borgomanero, nonché tutto l’ambiente dei confindustriali "dal basso", con gli emiliani in testa, ed eventualmente, dall’alto, i grandi sauri della Fiat, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens. Guarda con simpatia a queste suggestioni anche il gruppo degli ex presidenti di Confindustria (Luigi Abete, Giorgio Fossa e, sorpresa, il vecchio liberale Sergio Pininfarina), con l’aggiunta del petroliere Edoardo Garrone. Per ora è poco più che un gioco. Ma alcuni fanno rilevare l’accento che Montezemolo ha sempre posto sulla necessità di una classe dirigente costituita «dalle persone per bene», di un governo che affronti i problemi del paese al di là delle divisioni ideologiche. Qualcuno ricorda il sostanziale via libera a Capri, convegno dei Giovani di Confindustria, sulla legge proporzionale, poi corretto parzialmente dopo qualche protesta interna. Per adesso, insomma, il partito del presidente è un altro partito che non c’è. E che però potrebbe esserci, fiorire all’improvviso, mobilitare risorse mediatiche. Se poi il 9 aprile dodici anni di bipolarismo finissero davvero nella palude, le ipotesi assumerebbe un ineffabile altro sentore di realtà.

Facebook Twitter Google Email Email