Alla fine del grande risiko, delle Opa fallite o in via di fallimento, del concerto e dei concertisti, dell’aggiotaggio, degli immobiliaristi, resta da capire perché. Perché tutto questo. Perché la battaglia di retroguardia della Banca d’Italia, con il governatore asserragliato nel suo fortilizio. La scuola realista, di cui è capofila il quotidiano di Giuliano Ferrara, concede ad Antonio Fazio una specie di onore delle armi: «Ha scelto la strada della protezione dell’italianità, il che era lecito ma non indispensabile. Ha perso questa battaglia e, con questa, il suo ruolo, ma solo per i linciatori la sconfitta è una colpa». Sulle colonne del "Corriere della Sera", Dario Di Vico invece ha stilato un epitaffio molto più aspro. Il governatore «è caduto perché alla fine ha creduto che si potesse fermare il vento della globalizzazione con le mani di Gianpiero Fiorani». Mentre Salvatore Bragantini ha archiviato la questione con brutalità: «Fosse per Fazio, avremmo oggi a capo di uno dei principali gruppi bancari una banda di malfattori». Come si intuisce, "Il Foglio" fa della fenomenologia pura. Non fa cenno a criteri giuridici prevalenti o metodi di autocontrollo del sistema: Fazio ha condotto la sua guerra, sarebbe sciocco pensare che le sue dimissioni siano il risultato di una rivincita dei valori. È un’analisi che risente di una matrice marxista. Non esiste il bene o il male, ci sono soltanto rapporti di forza. Il "Corriere" esprime le sue convinzioni, che sono il concentrato dei codici intellettuali di Mario Monti e Francesco Giavazzi. Posizioni come altre, comunque di parte, legate al patto di sindacato. Già. Ma intanto bisognerebbe capire finalmente che cosa significa "italianità" e quale valore abbia. Uno spirito pratico potrebbe rispondere che l’ex governatore aveva poca fiducia nella qualità competitiva delle banche italiane: lo sbarco di concorrenti stranieri avrebbe potuto scardinare l’intero sistema, mettendo allo scoperto le inefficienze degli istituti. E nella visione di un uomo come Fazio che era stato ostinatamente scettico sull’euro (come alluse in un suo libro, senza citarlo, Tommaso Padoa-Schioppa), convinto che l’industria italiana non fosse in grado di resistere alla concorrenza internazionale se non ricorrendo all’alternanza di svalutazione e inflazione, la struttura bancaria del nostro paese costituiva una risorsa non negoziabile, non trattabile sul mercato. Secondo questa diagnosi pessimistica, gli innovatori, coloro che provengono dall’esterno del sistema bancario, come Alessandro Profumo e Corrado Passera, andavano considerati alla stregua di una quinta colonna. Occorreva tutelare l’italianissimo intreccio di interessi fra banche e imprese per evitare che l’apparato economico entrasse in tensione o addirittura potesse collassare. Secondo i critici di Fazio, era uno schema reazionario, provinciale, paternalistico, oneroso per i cittadini-clienti. Tuttavia, criticato il criticabile dello "stregone di Alvito", secondo la definizione di uno dei suoi antagonisti più espliciti, Diego Della Valle, resta ancora da capire che cosa c’entri in tutto questo la politica. C’è di mezzo una nuova Tangentopoli, titolano i giornali; no, ribatte Paolo Mieli in uno dei suoi rari editoriali, qui si tratta di casi specifici, non di una distorsione di sistema, non la corruzione strutturale, non l’oligopolio colluso scoperchiato da Mani pulite nel 1992. Eppure, in agosto, all’epoca delle intercettazioni, nel clima del bacio in fronte di Fiorani a Fazio, e delle trascrizioni che rivelano la sbrigatività operativa del boss dell’Unipol Giovanni Consorte, Arturo Parisi muove le acque estive con una intervista al "Corriere della Sera", in cui allude al ritorno della questione morale. E qui si scatena la bagarre. Perché un conto sono i traffici di una gang di sradicati, gli insider abituati alle plusvalenze facili, e un conto è la dignità storica del mondo cooperativo rosso. E un altro conto ancora è l’onore di Piero Fassino, che a Consorte ha fatto troppe telefonate. Insomma, c’è un disegno finanziario di sinistra, contrapposto a una strategia finanziaria di destra? E i Ds sono o non sono legati a filo doppio alla scalata dell’Unipol sulla Bnl? Perché alcuni settori diessini sono prudentissimi verso il governatore? E perché Pier Luigi Bersani parla della "canea" che si è scatenata contro la Banca d’Italia? A qualcuno torna in mente il takeover su Telecom, con Massimo D’Alema che irrideva il vecchio capitalismo dei salotti buoni, dove c’erano quelli che pretendono di comandare con «l’uno e mezzo per cento». E il sostegno ai «capitani coraggiosi» guidati da Roberto Colaninno. E l’idea che dalla merchant bank di Palazzo Chigi D’Alema stesse tentando la rivoluzione, cioè la creazione di un nuovo strato capitalistico, più moderno e svincolato dalle vecchie lealtà verso i poteri forti esemplificati da Fiat e Mediobanca. Ma in questo caso, pur con tutto il rilievo che poteva avere l’operazione Bnl, il disegno strategico sembrava molto più limitato. Tanto più che sul caso Unipol si sviluppava un conflitto fra Margherita e Ds, che si sta trascinando fin qui, con Rutelli che ancora critica il «collateralismo» e riceve risposte piccate. In realtà si stavano delineando strategie multiple, una serie di disegni a geometria variabile. Che però si incrociavano tutti e convergevano fino a sfiorare una cattedrale degli equilibri politico-economici, quell’autentica camera di compensazione che è il gruppo Rcs. Una scalata ostile di cui non si sa più niente, se non che è fallita: ma era un’operazione che aveva evidentemente goduto di appoggi ancora imprecisati anche se leggibili in filigrana, e che potrebbero spiegare perché un immobiliarista come Ricucci abbia cercato di espugnare nientemeno che via Solferino. E qui c’è il primo segnale di pericolo. Perché a quanto si sa la scalata di Rcs era pilotata o condizionata da Ubaldo Livolsi, un uomo legato a Silvio Berlusconi. Quindi sul tema di Rcs vengono pericolosamente a contatto due establishment. Il patto di sindacato che controlla il "Corriere", da una parte, e un settore politico-economico alieno, una "racaille" finanziaria fatta di "homines novi" ma di cui è intuitiva una contiguità con il potere berlusconiano. Fantapolitica? Teoria cospirativa? Dietrologie? Chi ha assistito allo scontro in diretta televisiva lunedì 19 dicembre a "Porta a Porta" fra Della Valle e Berlusconi, con l’industriale delle Tod’s che trattava il presidente del consiglio con un "tu" praticamente liquidatorio, ha avuto l’impressione che quello fosse un vero showdown fra poteri. Fra un potere che era stato sfidato e messo alle corde, e che ora si prendeva la sua vendetta. Vendetta simbolica, quindi essenzialmente politica, praticata contro quel Berlusconi che su Fazio ha tenuto duro fin quasi all’impossibile (memore forse di quando le "Considerazioni finali" garantivano il miracolo dietro l’angolo). Non è finita, naturalmente, con l’arresto di Fiorani e le dimissioni di Fazio. Ci sono un paio di uomini del governo nei guai, Giuseppe Valentino di An (sottosegretario alla Giustizia) e il forzista Aldo Brancher (sottosegretario alle Riforme istituzionali), i conti correnti speciali per correntisti illustri, l’affaire della banca leghista Credieuronord, gli arricchimenti personali, i clienti tosati. C’è di tutto. Ma non è Tangentopoli. «È la debolezza della politica», dice Pier Ferdinando Casini, che apre spazi alle consorterie. Nel vuoto politico, si muovono cordate che occupano postazioni, si scontrano, contrattano, eludono i controlli e talvolta scivolano nella criminalità economica. Indossano magliette politiche per contare su sponde utili. I partiti si prestano a fare da spalla, entrando così nel risiko. Quando i raider vengono infilzati dalla giustizia, il messaggio lanciato agli italiani rischia di essere uno solo: qui il più pulito ha la rogna. Non è Tangentopoli, forse è peggio: è il feudalesimo con qualche secolo di ritardo.
04/01/2006