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un marziano a sinistra

04/10/2007

Se ci sono i "Gendarmi della Memoria", vuol dire che qualcuno l’ha sequestrata, la memoria. È la prima constatazione, ovvia, scontata, però spontanea, che si prova ad aprire il nuovo libro di Giampaolo Pansa (Sperling & Kupfer, in libreria il 2 ottobre). Anche il sottotitolo in copertina, stampato sopra una mano di bianco che copre l’ineluttabile colore rosso, è piuttosto esplicito: "Chi imprigiona la verità sulla guerra civile". Non c’è il punto interrogativo, e per i lettori appena smaliziati la domanda contiene in sé la risposta. Basta avere letto qualche pagina degli ultimi libri di Pansa, da "Il sangue dei vinti", la ricostruzione che ha riaperto il confronto, o meglio lo scontro, sulla nostra storia divisa, fino a "La grande bugia", uscito l’anno scorso, e che ha destato ancora più clamore dei precedenti. Ma se si cerca di sfuggire a una lettura pavloviana dei "Gendarmi", ci si accorge che il libro di Pansa è ancora più insidioso di quanto non abbia voluto intendere la sinistra più dogmatica, quella dei Sandro Curzi e Marco Rizzo, e quella degli storici alla De Luna. Perché completa un pensiero perseguito con puntiglio, approfondito, scavato, indagato con totale dedizione intellettuale. Per gli avversari, e anche per i nemici del pansismo, si tratterà di un altro capitolo dell’opera di instancabile denigrazione della Resistenza praticata da uno che «lo fa per i soldi», produce «un’operazione commerciale», con il «libro vergognoso di un voltagabbana» (come titolò "Liberazione"), tramutando in un cospicuo affare privato la modestia economica della ricerca storica. Oppure di un esempio dell’inconsistenza storiografica severamente censurata, come ricorda Pansa, dallo storico Sergio Luzzatto: «L’audience giampaolopansista corrisponde al ventre molle di un’Italia anti-antifascista prima ancora che anticomunista… Un Paese felice di sentirsi ignorante, e di farsi illuminare dal Robin Hood di Casale Monferrato». Per chi desidera ripercorrere la campagna di attacchi scatenatasi all’uscita della "Grande bugia", Pansa è prodigo di pagine, a cominciare dalla spettacolare incursione avvenuta il 16 ottobre 2006 nella sala di un albergo di Reggio Emilia («Triangolo rosso? Nessun rimorso», diceva il cartello della dozzina di incursori denominata "Antifascist Militant"). Tuttavia le contestazioni e le minacce, proseguite in altre città, a Bassano come a Castelfranco Veneto, rappresentano soltanto un complesso artificio indiziario: dietro gli indizi c’è una questione ben più controversa della difesa occhiuta della mitologia resistenziale e del repertorio antifascista. Un passo indietro. Si può leggere ancora una volta "I Gendarmi" come un capitolo ulteriore della luttuosa epopea raccontata meticolosamente da Pansa. Gli ultimi giorni della Liberazione e la stagione della vendetta contro i perdenti. Sequenze illividite dall’odio, in cui trascolorano le ombre dei repubblichini fucilati, dei fascisti trucidati, delle donne innocenti stuprate e uccise barbaramente, delle sepolture senza nome e delle ricerche senza risultato: eppure, concentrarsi su queste descrizioni, sulle morti sconosciute, sugli eccidi innominabili e a posteriori giustificati con l’inganno, equivarrebbe a perdere di vista il nucleo vero e bruciante del libro di Pansa (ma a questo punto converrebbe dire della sua opera complessiva). Libro e opera sgradevoli per la sinistra italiana. Anzi, "sgradevoli" è un eufemismo. Forse "distruttivi" sarebbe più adeguato, se non fosse che Pansa rivendica con chiarezza e forza la sua cultura di sinistra. Tali comunque da meritare attacchi violenti e soprattutto esorcismi: come il «rovescismo fase suprema del revisionismo», nella formula usata dallo storico torinese Angelo d’Orsi prima su "Liberazione" e poi sulla "Stampa". Perché la tesi finale di Pansa è una e una sola: «Non c’è riformismo senza revisionismo». E qui occorre fermarsi. Perché ci vuole poco a capire che a questo punto l’argomentazione di Pansa, del "pansista", del "completista", del sostenitore di una storiografia che racconti e comprenda anche la tragedia dei vinti, si proietta su tutta la vicenda che ha portato la sinistra italiana dal Pci al Pds, e condurrà dai Ds al Partito democratico. È la convinzione che, senza un approfondimento spregiudicato della propria storia, nessuna evoluzione è credibile. Senza un atto di rottura, senza un riconoscimento formale della drammaticità di una vicenda, giurando e spergiurando invece sulla indefettibile continuità di una parabola che comincia con la Resistenza e si dirama nel Pd veltroniano, l’avventura della sinistra rimarrà soltanto un santuario oleografico. Cioè un travisamento della realtà. Sotto questa luce, parafrasando Pansa, Palmiro Togliatti, il Migliore, alias il funzionario dell’internazionalismo, il "compagno Ercoli", resterà il costruttore sapiente di un’esperienza di comunismo nazionale, l’uomo che con il memoriale di Jalta individuò le contraddizioni del Pcus. Il suo successore, Luigi Longo, sarà il depositario dell’eredità togliattiana, un duro ortodosso ma anche il primo critico dell’invasione di Praga nel 1968. Enrico Berlinguer sarà sempre venerato come il portatore di una "diversità" comunista, opposta al degrado morale del sistema di potere democristiano e socialista. Dopo la transizione di Alessandro Natta, postremo esponente della natura ideologica del Pci, il movimentismo di Achille Occhetto verrà ricordato come la febbrile consapevolezza della necessità di cambiare ideologia e sigla, giusto in coincidenza con il crollo del Muro di Berlino. E così via, fino alle sofferenze di Piero Fassino, il primo segretario a tentare una riconsiderazione del craxismo e a lanciare l’anima oltre l’ostacolo verso l’orizzonte "democrat" come compimento della vicenda del Pci. Altri studiosi italiani, come Ernesto Galli della Loggia, hanno individuato nel continuismo il peccato originale della sinistra. Ma Pansa è un intellettuale "sui generis", sfrontatamente anti- accademico, portato a credere, come San Tommaso, solo in ciò che vede e in cui può ficcare il dito. Tant’è vero che il suo scrupolo di cronista lo conduce a recuperare il commento né scandalizzato né conformista dell’ultraortodosso e ultrapragmatico Giorgio Amendola, ai tempi della demonizzazione di Renzo De Felice, lo storico "pugnalatore" (secondo Nicola Tranfaglia), colpevole di avere trattato il Ventennio da entomologo, e non con la lente dell’ideologia approvata, ai tempi dell’"Intervista sul fascismo". Opinione che va messa a confronto con il giudizio recente di uno dei santoni del comunismo "di massa" e di movimento, Pietro Ingrao: «Provo collera contro gli attacchi che vengono fatti alla Resistenza, alla lotta di Liberazione, da parte di alcuni giornalisti…». Alcuni giornalisti. Una definizione che è una miscela di superiorità e di sprezzo. L’avversario innominato, ridotto a una non entità. Da parte sua, Pansa non edifica ideologie. Lascia cadere i giudizi fra le righe delle sue cronache: «I miei libri non piacciono a quella parte della sinistra italiana che è rimasta bambina». Ossia che crede alle favole e rifiuta di guardare la realtà: «Si tappa le orecchie, urla che non vuole sentire, accusa lo sfavolatore, chiamiamolo così, di commettere un delitto». Ma a proposito dei «Gendarmi delle Favole», Pansa non si tira indietro, trae le conseguenze: «Nelle teste dei miei cacciatori c’era un grumo totalitario, insopportabile in un Paese democratico. Ma purtroppo sopportato, e qualche volta incoraggiato, da partiti che siedono in Parlamento». La battaglia di Pansa è quella di un alieno a sinistra. Un uomo la cui polemica abbatte le mitologizzazioni del passato (come ebbe a giudicarle anche un intellettuale di sinistra, Silvio Pons, direttore della Fondazione Istituto Gramsci: «A sinistra c’è una tradizione consolidata che porta a valorizzare la propria storia. Ma che a volte è sconfinata nella mitologia»). Ma le cui critiche investono, e questo dovrebbe essere più preoccupante, l’avvenire. Perché senza il passato non c’è futuro. Ecco il «perfetto Walter Veltroni», prodigo di solidarietà privata quanto avaro di solidarietà pubblica, «capace come nessuno d’incarnare la banalità del bene». E anche tutta la nomenklatura in procinto di reincarnarsi nel Partito democratico, da Anna Finocchiaro a Pierluigi Bersani: ultimo esempio o vittima, secondo Pansa, del riflesso condizionato comunista. Bersani infatti non si candida contro Veltroni per la segreteria del Pd, annunciando la propria decisione con una lettera «imprevista e imbarazzante». In cui spiega che si ritira dalla corsa, rinunziando alle proprie ambizioni, per non «disorientare il nostro popolo, che non avrebbe capito». Sono anche questi gli scherzi, maligni, della storia. Effetti del passato che non vuole saperne di passare. Come se sul futuro gravasse un’ipoteca: quella di non avere voluto guardare alle rotture, alle tragedie, alle colpe, di avere sempre giustificato e quasi mai spiegato, e anche di avere capito senza averlo riconosciuto. Per ragioni di interesse superiore, perché lo imponeva la correttezza ideologica, la moralità di partito. Tutte cose che non esistono più, come non esiste il «popolo» a cui si riferiva Bersani per spiegare il suo ritiro. Ma può una sinistra che vuole ignorare la propria storia, che ha concepito ogni cambiamento come una svolta, più o meno naturale, e non come una discontinuità, eventualmente densa di tragedia, magari psicologicamente stridente, presentarsi come un soggetto politico nuovo? Alla fine di tutto, di alcuni libri, di cento polemiche, di mille dibattiti, e anche di tanti insulti, forse questa è la domanda più forte e dolorosa dell’alieno Pansa. n

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