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Si è ingolfato il centro

30/08/2007

C’è un padre spirituale per tutti loro, i centristi cattolici: se ne sta ritirato e guarda con serena sollecitudine le manovre centriste. Naturalmente si chiama Camillo Ruini, è stato il presidente della Cei, ma soprattutto ha avuto un ruolo strategico nel riposizionare politicamente la Chiesa in Italia. Prima con il "Progetto culturale", un manifesto che assumeva l’identità nazionale come uno dei pilastri del cattolicesimo, e anche di quel cattolicesimo diffuso, semi-anonimo e poco impegnativo, che per Ruini fa parte del corredo genetico italiano. E poi con l’intuizione, politica e politicista, concretatasi nell’opposizione al referendum sulla procreazione assistita, con la chiamata all’astensione. Ma ciò che il cardinale Ruini non ha mai nascosto è la sua inquietudine per la perdita dello strumento politico per eccellenza della Chiesa, la Democrazia cristiana. Questa è ormai storia: Ruini aveva seguito quasi con angoscia la disintegrazione democristiana dopo Tangentopoli, e mentre Mino Martinazzoli cercava di tenere insieme i cocci con il Partito popolare, aveva ribadito la sua convinzione che la Dc non avesse tradito il suo mandato: «L’unità politica dei cattolici è stata un valore», disse ripetutamente. Sempre lì si ritorna. Al centro, al cattolicesimo, allo scudo crociato, alla sigla "Libertas". E serve a poco sottolineare ciò che sanzionò uno dei massimi studiosi del fenomeno democristiano, l’allora docente di sociologia politica Arturo Parisi: «L’unità è finita con il referendum sul divorzio, anno 1974». Vale a dire: dopo di allora, ogni ipotesi di ricostituzione di un partito unico dei cattolici, sotto una sola sigla, era destinato al fallimento. Sottoposta alle spinte e alle tensioni del sistema dell’alternanza politica, la Dc, qualsiasi forma assumesse, era destinata fisiologicamente a disgregarsi. Solo la sovrapposizione del partito "cattolico" con l’area del potere aveva consentito di tenere insieme tutte le correnti e i particolarismi democristiani. La diagnosi era severa e difficilmente contestabile. Ma c’è sempre una tentazione che serpeggia, e che talvolta riaffiora. La prospettiva della Chiesa come soggetto autonomo dalla politica, che sostiene una gamma di posizioni e di principi senza guardare in faccia chi ne sia il portatore (ovvero la linea dei cattolici democratici come Pietro Scoppola e Luigi Pedrazzi), è sempre stata considerata troppo "illuminista" dalla gerarchia. Anzi, troppo «debolista», razionale ma astratta, come argomenta il politologo Piero Ignazi: «C’è stata un’abitudine troppo forte al rapporto privilegiato con un partito specifico perché il Vaticano si accontenti di qualcosa di meno». Il pregiudizio dei vertici ecclesiastici verso il centrosinistra è noto. La diffidenza era stata mitigata dalla simpatia dei parroci e delle associazioni di base per il Prodi del 1996, inteso come un’alternativa all’"edonismo" di una proposta considerata pressoché aliena dalla visione cristiana (come dimenticare che lo scrittore Vittorio Messori dichiarò che «per le televisioni berlusconiane Dio non è neanche un’ipotesi»?). Ma in seguito la credibilità del centrosinistra si è molto smorzata. A suo tempo l’autodefinizione di Prodi come «cattolico adulto» è spiaciuta non soltanto alla Cei. E la chiesa si sente troppo sfidata non solo dal "laicismo" di alcune frange dell’Unione (il contrario della «sana laicità» di papa Ratzinger), ma anche dalla continua pressione sui temi di confine, dalla "propaganda" dei temi omosessuali, dagli zapaterismi e dal riemergere di posizioni anticlericali. A cui non hanno posto rimedio le posizioni filocattoliche di Francesco Rutelli, con i suoi scarti dal referendum sulla fecondazione assistita alla prefigurazione delle alleanze «di nuovo conio». Fra i candidati alle primarie del Pd, Rosy Bindi ha alle spalle il peccato dei Dico, e Enrico Letta non si è ancora guadagnato leadership e carisma. Chi ha cercato di proporsi come tramite esclusivo è stata l’Udc. Ma agli occhi di molti cardinali e vescovi il partito di Pier Ferdinando Casini non è strategicamente rilevante, almeno fino al momento in cui il suo leader non dovesse assumere un ruolo più centrale nel centrodestra (senza contare che l’exploit "sex & drugs" dell’udicino Cosimo Mele è stato visto come una caduta di immagine e quindi di credibilità). Per il momento può essere più interessante il rapporto a raggiera con i leader "locali", come Letizia Moratti e, sempre a Milano, il sempiterno Roberto Formigoni, utilmente collocato al centro del network di Comunione e liberazione. Anche il rapporto con Silvio Berlusconi è ombreggiato di ambiguità. Una parte della gerarchia vaticana ha pensato di poter giocare con il capo di Forza Italia da potenza a potenza, cercando di sfruttare il bisogno di radicamento e di identità del suo partito, senza però nascondersi che da parte di Berlusconi la strumentalizzazione politica dei temi cattolici era evidente fino all’improntitudine. Finora le figure principali dell’era Ratzinger sembrano esprimere rispetto alla destra un atteggiamento apertamente neodemocristiano. La destra è la mano dura, il liberalismo gridato, il forzaleghismo campanilistico ed elusore, l’antiprodismo esasperato. Il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone e il presidente della Cei Angelo Bagnasco si collocano in una posizione più moderata. Il cardinal Bertone al meeting di Rimini ha esposto una sua visione sulle tasse, in cui ha unito il «dovere» di pagare le tasse alle «leggi giuste» che dovrebbero presiedere al potere impositivo dello Stato. Non dovrebbe sfuggire l’ambiguità intrinseca della parola "giusto" allorché ci si riferisce alle leggi e al fisco. Chi definisce se le leggi sono giuste? L’atteggiamento verso il fisco è discrezionale? Non si pagano le imposte perché lo Stato consente l’aborto? Sempre lo scrittore Messori si è arrampicato su una china scivolosa per spiegare che una certa resistenza al fisco è giustificabile quando i tributi vengono considerati iniqui (e il vescovo di San Marino, Luigi Negri, si è avventurato in una difesa antimoderna della discrezionalità del pagamento delle tasse, secondo una logica da ancien régime). Per tutti questi cattolici diffidenti verso lo Stato, potrebbe diventare di qualche interesse l’ipotesi di un centro politico come quello evocato da Clemente Mastella. Cioè un "prodotto" da mettere sul mercato elettorale senza pretese di egemonia culturale, ma con l’ambizione di condizionare sistematicamente le alleanze e il funzionamento stesso della democrazia. Insomma l’idea di mettere insieme la gran parte dei residui democristiani, a cominciare dall’Udc e dall’Udeur, possibilmente sottraendo qualche frazione di voti e qualche personalità ai margheritici del Pd, un po’ di ex dc rifugiatisi in An, per creare una formazione capace di modificare in profondità lo schematismo bipolare. Anche se per ora il riflesso automatico degli schieramenti ha posto il veto su questa ipotesi, essa contiene molte più possibilità tecniche, in chiave politica, di quanto non ne possedesse il progetto del centro cattolico messo in capo all’ex segretario della Cisl, Savino Pezzotta, e a una varia congerie di cosiddetti "teodem". Oltretutto, la suggestione di un piccolo (ma non troppo piccolo) centro cattolico è irresistibile in primo luogo per molti di coloro, come Bruno Tabacci, che continuano a pensare che il bipolarismo è fallito. E va a genio anche al mainstream ecclesiastico, che non si è mai appassionato alle "astrattezze" bipolari, e che è piuttosto indifferente ai ragionamenti sul formato della politica e al modo di funzionare delle sue istituzioni formali. Se dovesse nascere il centrino, potrebbe assomigliare a una minestrina riscaldata. Ma se la minestrina fosse ruiniana e utile a ridare forza al corpicino del cattolicesimo politico italiano, perché dire no? n

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