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Fini, numero due in cerca d’autore

09/08/2007

Come leader politico Gianfranco Fini è un uomo fortunato. Basta guardare la sua storia: è uscito senza pagare prezzi, in voti o in scissioni vere, dal bozzolo di «fascista del 2000», in cui si era racchiuso da solo, allorché sosteneva che i valori fascisti erano inalienabili, non soggetti al mutare della storia; gode di un favore popolare che appare in diretta proporzione alla sua assenza di scelte (sarebbe difficile stabilire, ad esempio, quali sono le linee di politica economica di An, se è a favore o contro le liberalizzazioni, a quale modello di crescita il partito è legato); e infine adesso ha avuto il colpo di fortuna della fuoruscita da An della destra di Francesco Storace e di Teodoro Buontempo. Anche quest’ultimo caso assomiglia molto a una vincita alla lotteria. Perché l’esodo volontario dei colonnelli della destra più tosta toglierà qualcosa alla vocazione "identitaria" di An, ma spalancherà al partito lo spazio al centro del sistema politico. La meravigliosa idea postdemocristiana di Fini sta per giungere al traguardo. A questo punto il postfascista, postnazionalista, postpopulista Fini potrebbe dedicarsi alla conquista dell’elettorato centrista, proponendosi come leader politico in proprio, e candidando il proprio partito a rappresentare i ceti moderati. In fondo An è pur sempre il vecchio partito dell’ordine missino, il partito dei marescialli e della disciplina: se i facinorosi delle borgate e i destri duri se ne vanno, si spalancano praterie per il partito della rassicurazione, della protezione sociale e legalitaria, e naturalmente anche il partito presidio delle mille corporazioni che si sentono insidiate dalle ubbie liberalizzatrici della sinistra. Qual è il problema, allora? Semplice: Fini non esisterebbe se non avesse avuto alle spalle Silvio Berlusconi. Fin dal 1993, quando il Cavaliere all’inaugurazione del supermercato a Casalecchio dichiarò la sua scelta per lui, ancora missino, candidato sindaco a Roma contro Francesco Rutelli, il capo di An sa di dovere tutto a Berlusconi. Berlusconi lo ha sdoganato politicamente, Berlusconi gli ha dato un posto nel governo, Berlusconi gli ha offerto la possibilità di fare lo statista internazionale, con il ministero degli Esteri e il lavoro con Giuliano Amato per la Costituzione europea. E poi il capo di Forza Italia sa distinguere le cose che contano dalle sciocchezze. Quando si scherza, Berlusconi può divertire il popolo forzista con le sue battute goliardiche («Da una parte cinquanta trombe che squillano, dall’altra cinquanta squillo che trombano») o raccontare barzellette sulla donazione a don Verzè per la ricerca sulle staminali (per venire smentito il giorno dopo dal prete boss del San Raffaele: «Mai visto un soldo»). Ma quando si fa sul serio, Berlusconi ha sempre riconosciuto che Fini era «l’alleato migliore». E dunque il capo di An è al bivio: se a 55 anni vuole per il futuro prossimo un ruolo di numero uno dovrebbe finalmente decidere di giocare in proprio. Per fare il Sarkozy dovrebbe liquidare il suo Chirac. Ma Fini sa che per guadagnarsi la leadership del centrodestra dovrebbe aprire un contenzioso con Berlusconi, e al momento il centrodestra non se lo può permettere. Le elezioni possono arrivare alla svelta, e non ci si può presentare alle urne con un’alleanza in pezzi. E allora Fini ha optato per una strategia morbida. Nell’assemblea nazionale di An, sabato scorso, ha criticato Berlusconi: avere fermato il processo unitario del centrodestra è stato «un errore strategico», e quindi con l’arrivo dell’autunno An lavorerà in proprio, per rafforzare la sua «identità aggregante». La spiegazione sarebbe che il processo di aggregazione che avviene nell’Unione con il Partito democratico non è un fenomeno irrilevante, e richiederebbe processi unificanti anche a destra, verso il Partito unico dei moderati o il Partito delle libertà. In realtà, la presa di posizione di Fini è quella di un personaggio in cerca d’autore: cioè il ruolo tipico dei possibili e sempre procrastinati successori a Berlusconi. Abbiamo già Pier Ferdinando Casini, l’erede della democristianità; Giulio Tremonti, l’ideologo "forzaleghista"; Umberto Bossi, il detentore del potere di veto. Adesso sembra scendere in pista, o in scena, anche Fini, il capo dell’Italia nazionalcorporativa. Forse è tardi. La classe dirigente del centrodestra sembra essersi consumata con Berlusconi. Gli eredi del capo di Forza Italia sono cresciuti grazie alla tutela del grande capo; ma è anche possibile che per questo, quando si troveranno con il vento in faccia, non avranno più la forza di uscire dalla loro funzione di numeri due.

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