Qui non è il caso di fare l’agiografia del bel tempo andato, quando le nevi erano bianche, le spiagge semideserte, c’erano le quattro stagioni, vestivamo alla marinara e gli uomini politici andavano in spiaggia con la maglia a maniche lunghe e i pantaloni arrotolati sulle caviglie. Tempi in cui Enrico Cuccia rifiutava le interviste, Gianni Agnelli le concedeva con il suo stile sublime e granducale emettendo sentenze di alta sostanza ironica, si trattasse di Guido Carli o di Zibì Boniek, della Banca d’Italia o del tocco di palla di Platini; mentre a Roma i segretari di partito parlavano di rado e dopo avere soppesato tutto, anche le virgole, provocando magari sconquassi ma dopo avere calcolato ogni ripercussione: quando insomma i ruoli venivano puntualmente rispettati e avevano confini stilistici inderogabili, e nel caso di affari economici e finanziari di rilievo i segretari di partito non telefonavano dicendo «abbiamo una banca» ma si informavano con discrezione, eventualmente convocando gli interlocutori e i brasseur in segreto, nel sancta sanctorum, e facendo fare lunga anticamera, tanto per chiarire chi stava dalla parte che conta della scrivania. Tuttavia evitare la "laudatio temporis acti" non esime dal guardare con una perplessità di stampo scettico lo stile della classe dirigente attuale, e porsi domande conseguenti. Esiste ancora un galateo della suddetta classe dirigente? Più in sintesi, se lo stile è l’uomo (e la donna), e il galateo è l’etichetta di un ceto, esisterà davvero un complesso di atteggiamenti che certifica l’esistenza di una classe dirigente? Oppure il generone, la consorteria, il ceto medio qualificato e squalificato, riflessivo e irriflessivo, con i suoi comportamenti esteticamente problematici, è l’unica classe residua nella struttura sociale del paese? Lo diceva e lo ripeteva qualche anno fa, in modo preveggente, Giuseppe De Rita, molto prima che la coscienza collettiva e televisiva mettesse a fuoco le autoreggenti di Michela Vittoria Brambilla o i tacchi assertivi di Daniela Santanché, leader in pectore di esperienze politiche imprecisate ma in cui la fisicità è un atout superiore alla cultura: in Italia non c’è una borghesia, c’è una «enorme bolla di ceto medio». Ossia all’incirca una poltiglia sociale, paludosa, capace soltanto di degradare ogni giorno un po’ di più. Sicché anche gli stili si omologano. La riservatezza è un ricordo del passato. Il rispetto dei ruoli, una fisima culturale da babbioni. Non ci sono molti principi sacri nel nuovo galateo, ma il primo comandamento è presto detto: spifferare tutto. Senza remore. Passare i documenti ai giornali. Telefonare a Dagospia. Intervenire comunque perché solo il silenzio, naturalmente, uccide. Giovedì 31 maggio, sul "Foglio" di Giuliano Ferrara, Barbara Palombelli, ha realizzato una strepitosa impresa, sola contro tutti. Offrendo la sua opinione sulle miserie del centrosinistra, sulla questione della leadership, sul sistema politico ed elettorale, sull’efficacia del governo: «Il ministero Prodi, alla vigilia delle ultime elezioni, non è riuscito a spegnere i falò della spazzatura in Campania, e neppure quelli in Rai». Per poi spiegare la sua ricetta, la «strada seria», ossia «larghissime intese, governo forte, soluzioni veloci per una modernizzazione straordinaria del paese». Ora, qualsiasi politologo abituato al bel mondo come il grande Giovanni Sartori potrebbe ragionare a lungo dubbiosamente e chiedersi se effettivamente le larghe o larghissime intese siano in grado di produrre soluzioni veloci o non piuttosto nuovi negoziati, nuovi patteggiamenti, mediazioni e compromessi inutili. E giungere semmai alla conclusione che oggi ciò che conta non è il contenuto dei ragionamenti espressi, e delle idee manifestate, quanto la possibilità in sé di accedere ai mezzi di comunicazione. Toccherebbe poi alle Donne Letizia o alle Irene Brin della contemporaneità mediatica formulare certe domande sull’opportunità che la moglie di un importante leader politico, ex candidato alla guida del paese, impegnato nella costruzione del Partito democratico, entri in campo con tanta scioltezza. Chi parla, la Palombelli giornalista o la Palombelli governo ombra? La commentatrice politica inciucista o la moglie del politico che deve tener fede al bipolarismo? Già, che cosa ne avrà pensato lui, Francesco Rutelli, battuto sul terreno delle intese larghe? E formulate queste strane domande, siamo sicuri di non ricevere nei denti la risposta definitiva, quella che accomuna politici e calciatori, «io non devo dimostrare niente a nessuno»? D’altronde, le questioni di famiglia sembrerebbero il centro vero dell’agire politico, come dimostrò la lettera del cuore inviata da Veronica Berlusconi al marito sulle colonne della "Repubblica", con il seguito della risposta strappalacrime del buon mascalzone latino e più tardi le rivincite sarde del Cavaliere in compagnia delle squinzie, con tanto di foto che testimoniavano la perdurante inclinazione per il gentil sesso da parte dell’ex premier (sulle vacanze di Berlusconi, risulta sempre attuale come principio avverso, una volta di più, il calembour dell’Avvocato: «Andavo a Capri quando le contesse facevano le puttane. Ora che le puttane fanno le contesse non mi diverte più»). Così la sensazione prevalente è che nonostante le modernizzazioni più o meno veloci siamo sempre dentro un "Family day", magari a rovescio, come testimonia l’iniziativa di Margherita Agnelli, che ha citato madre Marella e figlio John Elkann, «esclusivamente per motivi tecnico- legali», insieme ai grandi sauri della Fiat Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, per cercare di mettere in chiaro alcune vicende patrimoniali attinenti all’eredità dell’Avvocato (anche se non ci sarebbe da aggiungere che la migliore eredità di Gianni Agnelli è impalpabile, un fenomeno volatile di magie e di vezzi: come ha raccontato Marco Ferrante nel recente "Casa Agnelli. Storie e personaggi dell’ultima dinastia italiana", «Giuliano Lanza di Trabia seguiva Agnelli con funzioni di intendenza, quando uscivano pagava le mance», e s’è detto tutto, signori si nasce). Altro che salotti buoni, stanze ovattate, tavole di noce, silenzi, confidenze preziose e telefonate meditabonde. Guerra di tutti contro tutti, semmai. Qualcuno si è dimenticato quale fu la risposta tattica di Marco Tronchetti Provera a Romano Prodi sull’affare Telecom, mentre circolavano le ipotesi su spezzatino, vendita presunta, liquidazione della telefonia cellulare? Il documento del "piano Rovati" passato graziosamente per ritorsione al "Corriere della Sera", cioè uno sgarro impensabile quando la politica godeva ancora di deferenza. Ma la politica invece si adegua. Nessuno che si stupisca se Gianfranco Fini, che piace tanto alle signore moderate per il suo aplomb sarkozista, al convegno dei giovani della Confindustria a Santa Margherita, invece di discutere di riforme, aggredisce Pier Luigi Bersani a proposito del caso Visco-Speciale: e ci vuole il coraggio di Matteo Colaninno, con quella faccia da ragazzino, a salire sul palco e a dire al portabandiera della destra "identitaria" che il tema non sarebbe all’ordine del giorno. Forse la civile coscienza o incoscienza del giovane Colaninno sarebbe stata utile anche a Vicenza, quando nel 2006 si assistette allo show incendiario dello sciancato miracolato Silvio Berlusconi. Se invece di Diego Della Valle a dargli del buffone ci fosse stato un ragazzino cortese a dire al Caballero, guardi che qui si stava facendo un dibattito, e non è il momento di un comizio, chissà, ora la politica sarebbe meno isterica. I giornali hanno titolato quasi tutti, con animo bipartisan: "Rissa tra Fini e Bersani"; ma l’unico titolo decente e adeguato ai fatti reali avrebbe dovuto identificare l’aggressione a freddo, fuori contesto, fuori luogo, perpetrata da Fini contro il ministro diessino (dev’essere una tecnica studiata con precisione scientifica, visto che pochi giorni prima, durante un "Porta a Porta" sul risultato elettorale delle amministrative, il presidente di An si era rifiutato di rispondere alle considerazioni espresse dal direttore della "Stampa" Giulio Anselmi dicendo pressappoco: «Caro direttore, io non le rispondo perché noi ci parleremo in tribunale, dato che io l’ho querelata», senza degnarsi di aggiungere una parola nemmeno sui contenuti della querela, con Anselmi e Bruno Vespa che lo guardavano un po’ scossi). Il secondo principio fondamentale del galateo della nuova classe si riassume nell’aureo principio: "Abbiamo sempre ragione noi". Noi vuol dire tutti coloro che si riconoscono nell’agenda Giavazzi, nel centrismo riformatore di Mario Monti, nell’idea che i problemi non sono né di destra né di sinistra, nel mainstream di pensiero secondo cui le liberalizzazioni non bastano mai e le privatizzazioni neppure. Noi che ci diamo tutti del tu anche in tivù. Noi che siamo d’accordo su tutto: sul taglio delle ali, sulla crisi del bipolarismo, sul tracollo dei partiti, sull’insufficienza (a essere di buon cuore) del Partito democratico. Ma possibile che siano scomparse tutte le differenze, anche quelle di classe, in senso sociale e in termini di eleganza? Per appartenere alla classe dirigente occorre soltanto imparare alcuni mantra del tipo: "Sono sereno", che è la frase preferita da tutti quelli che stanno per andare in galera. Non sembra ancora entrata nel lessico la straordinaria performance del generale Speciale, appena deposto dal ministro Padoa-Schioppa, il suo couplet irridente ma rivelatore davanti a Berlusconi alla festa della Repubblica: «Sempre agli ordini, presidente». Ma diventerà un cult, come da tempo è diventato un fiore del blog lo scambio fra Claudio Sabelli Fioretti e l’intervistata Lavinia Borromeo, giovane consorte di Jaki: «Ha amici poveri?». «Dipende da che cosa si intende per povertà. Parliamo di persone che devono lavorare per mantenersi?». Se c’è da gettare la maschera, gettiamola, senza ipocrisie, à la guerre comme à la guerre. Se va male, è sempre utile la conclusione di Altan, fra i lavoratori della vecchia classe, quella operaia: «E allora concedimi l’ultimo slow e poi que serà serà». n
14/06/2007