In apparenza, il clima è da fine della Repubblica. L’antipolitica che dilaga, anche se per ora sono i politici a dichiararlo, e nella fattispecie Massimo D’Alema con un’intervista, domenica scorsa al "Corriere della Sera": sarebbe in atto «una crisi della credibilità della politica» che potrebbe tornare a «travolgere il paese con sentimenti come quelli che negli anni Novanta segnarono la fine della Prima Repubblica». Dopo di che, è un rullo di tamburi. Fausto Bertinotti che dà voce alla sua vecchia anima movimentista, criticando l’autoreferenzialità dei partiti. I sondaggi che mostrano il non gradimento del governo. I politologi che distinguono, come ha specificato Ilvo Diamanti: «Il paese è felice e insoddisfatto». Felice delle sue condizioni di vita, gravemente insoddisfatto della politica. Nel frattempo, al di là delle denunce più accorate, circola anche un’aria di fatuità, di autocompiacimento schifato, di un cupio dissolvi con cui la classe politica si trastulla, come se il basso impero, in attesa degli inevitabili barbari, fosse lo spettacolo in un cartellone già stampato e passato alle affissioni. Siamo già in attesa di una fase nuova? Prima di tutto andrebbe specificato che le stesse analisi sulla crisi mortale della politica, e nel caso specifico del bipolarismo, «che ha fallito», come glossano ogni volta i centristi più svegli, alla Tabacci, venivano svolte nel finale della legislatura scorsa, quando a destra si cercava di presentare come una crisi politica strutturale e acuta il fallimento del governo di centrodestra: trentasei grandi riforme, come reclamizzava Silvio Berlusconi, e desolata crescita zero, come mostrava la banalità dei fatti: «Il che vuol dire che le vostre riforme erano sbagliate», obiettava con logica stringente Tiziano Treu, fra gli strepiti del centrodestra. Dunque, di fronte alle denunce della nuova crisi potenzialmente letale della politica, è opportuna una certa distanza critica. E cercare di vedere che cosa è in gioco. Per Romano Prodi, la posta è semplice: durare. Perché la durata del governo significa la sedimentazione delle misure governative, la capitalizzazione del buon andamento dell’economia, il diffondersi della convinzione che l’azione di governo è stata efficace. Il viceministro Roberto Pinza guarda i dati economici e li legge con un sorriso: «L’economia va benissimo, le imprese per il 2007 hanno un portafoglio d’ordini alto così. Il problema è proprio l’assetto politico». Da parte sua, Prodi ostenta sicurezza. Come il premier ha spiegato a Umberto Bossi, durante le consultazioni sulla legge elettorale, a Palazzo Chigi c’è una serenità che sfida le montagne e i secoli. Se il governo cade, dov’è il problema? «Mi ricandido, e vinco per la terza volta». Il vero ostacolo in questo schema rassicurante è ancora una volta lo scenario alternativo, lo Schema due. Cioè la soluzione anti-bipolare. Che ha una storia lunghissima alle spalle. È stata teorizzata da Mario Monti, con questa formula: la società italiana ha davanti a sé una serie di problemi che non sono né di destra né di sinistra, i quali devono trovare soluzioni che a loro volta non sono riconducibili a uno schieramento o ad assi ideologici precostituiti. E quindi, che cosa ci vuole a mettere insieme una compagine di governo animata dalla volontà di risolvere queste difficoltà, con un gruppo di uomini volenterosi che si impegnino nelle riforme necessarie? Per la verità questa è l’idea più antipolitica che esista. Come diceva Norberto Bobbio, «il governo dei migliori è una vecchia truffa reazionaria». Può piacere a Silvio Berlusconi, almeno nel senso che risponde non tanto alle regole del governo, quanto alle modalità del casting: si scelgono gli attori migliori in funzione della performance che si deve realizzare. È amata dai centristi come Pier Ferdinando Casini, perché promette di assicurare agli spezzoni post- democristiani una rendita di posizione senza date di scadenza. Piace probabilmente a molti segmenti di tecnocrazia, di potere economico, ai santuari finanziari, nel senso che un governo "tecnico" è più influenzabile di un governo esplicitamente politico, ancorato a un programma sottoposto all’approvazione degli elettori. È prediletta dagli ambienti che vedono in Luca Cordero di Montezemolo un protagonista della eventuale fase post-bipolare. Quindi si tratterebbe, semmai, di scegliere fra diversi tipi di antipolitica. L’antipolitica di Arturo Parisi, che "il Riformista" definisce «ideologo del nuovismo e dell’oltrismo», e che nell’estate del 2005 si è manifestata con il richiamo alla nuova questione morale emergente (di lì a poco esplose il caso Unipol, con la sfortunata frase di Piero Fassino «abbiamo una banca»). Oggi Parisi dice: «Rispetto al 1992 le condizioni sono peggiori sul piano dei costi e della legittimazione, e forse uguali sul piano della produttività. Forse le disponibilità soggettive alla protesta sono inferiori, per il momento». Ma bisogna riconoscere che l’"oltrismo" di Parisi, e il suo pensiero intransigente, è sempre stato orientato dalla volontà di spezzare i condizionamenti e i residui della vecchia politica. Di qui la sua attenzione per la mossa di D’Alema. E allora in questo momento si tratta di vedere a che cosa serve lo spauracchio dell’antipolitica e l’evocazione dei fantasmi del ’92. Serve a Berlusconi in vista di qualsiasi ipotesi che possa consentirgli di tornare in gioco: fallite le spallate, e in attesa dei risultati delle amministrative, una caduta di Prodi sull’onda di un’insofferenza "popolare" potrebbe riaprire la prospettiva delle larghe intese. È per questo che nei dintorni di Palazzo Chigi l’entourage prodiano sta attentissimo ai segnali provenienti dall’opinione pubblica. Il ministro per l’attuazione del programma, Giulio Santagata, ha passato al microscopio il libro-manifesto di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, "La casta", un’inchiesta di profondità, dagli effetti micidiali, sulle distorsioni della politica, e ha confidato agli intimi: «Qui si tratta di vedere se riusciamo a governare la razionalizzazione dei costi della politica, mettendola all’ordine del giorno nell’agenda dell’esecutivo e di tutto il centrosinistra, altrimenti qualcuno la calvalcherà, con effetti disgregativi virtualmente incontrollabili». È possibile poi che la sortita di D’Alema sia un esorcismo preventivo. Il vicepremier e ministro degli Esteri sente odore di inciuci possibili. E quindi comincia a bombardare qualche quartier generale. Se qualche proiettile colpisce anche Walter Veltroni, futuro leader per sopraggiunta inerzia del Partito democratico, non si dispiacerà. Ma intanto D’Alema deve bloccare il modello sarkozista, che sta facendo proseliti in ogni ambiente. Governo di centrodestra con la cooptazione di personalità di sinistra, come il socialista Kouchner (con Veltroni che pubblica
l’elogio trasversale da sinistra di Gianni Letta). Perché è vero che la personalità di D’Alema gli garantisce un ruolo in ogni futuro politico. Ma in questo momento il problema sembra relativamente semplice: se l’ondata antipolitica dovesse travolgere tutto, la prima soluzione praticabile sarebbe certamente quella delle grandi intese, del governo di solidarietà fra pezzi degli attuali schieramenti. Ma è difficile non vedere intenzioni diffuse, soprattutto nei cosiddetti poteri forti, a fare a meno della politica. Può darsi insomma che D’Alema veda il rischio non tanto di un governo di solidarietà istituzionale, quanto della sostituzione della politica attraverso un comitato di oligarchi. Una formula ibrida, ma che non nasconderebbe il tentativo di governare dall’alto la modernizzazione italiana. Per questo ha lanciato il suo allarme. Un allarme che suona ultimativo: sappiate, cari italiani, caro governo, cari ministri, cari partiti, che l’alternativa alla politica attuale non è la vittoria del centrodestra; bensì un governo degli gnomi. E quindi sarà il caso di mettersi a fare sul serio, altrimenti l’Italia diventerà il paese delle favole.