Chissà dov’è il segreto di Fabio Fazio, si chiedono i più sospettosi. Forse nel binomio di nome e cognome, direbbero gli enigmisti alla Bartezzaghi: cambio di consonante, cinque lettere, un presagio di abilità combinatoria fin dal battesimo. Ma prima di consultare gli oroscopi, vale la pena di identificare il clamoroso e ormai inarrestabile successo di "Che tempo che fa", titolo opportunamente a metà strada fra un interrogativo e una constatazione. Programma cominciato in sordina qualche stagione fa, programma programmatico, prima minimalista e via via cresciuto ad autentico cult, anzi must, isola felice fuori dalla televisione trash, perla assoluta di Raitre. Un delirio. Tanto che non conviene tornare di nuovo sul cosiddetto e da lui detestato "fazismo", cioè la tipica capacità di Fabio di situarsi ogni volta al confine massimo della trasgressione consentita senza superare il limite dello sgarro quasi vietato (per quello c’è la Littizzetto, quella che sta facendo impazzire la top ten con il suo nuovo e un po’ vecchio libro, "Rivergination", che viene dopo i successi della gamba di sedano e altre questioni ortofrutticole). Quello lo si sapeva: Fazio è l’equivalente televisivo di Walter Veltroni. L’attuale sindaco d’Italia con "l’Unità" aveva riciclato gli album delle figurine Panini e i Vangeli; Fazio con "Anima mia" aveva dettato il codice del gusto nazionale e della generazione dei baby boomer, ossia un tanto di nostalgia, un po’ di atteggioneria, una parte di commozion picciola, mimetismi, giochi mnemonici, un nonsoché di ironia, uno spruzzo di Claudio Baglioni e una scorza di Cugini di campagna: tanto che Baglioni c’è rimasto intrappolato e dopo Heidi e le caprette che fanno ciao si è autoimposto di clonare anche i "Cinque minuti e poi" di Maurizio ex New Dada (ma non gli viene troppo bene il «Bugie!… Bugie!…» finale in cui il biondo Maurizio eccelleva e faceva singhiozzare le girls). Quindi per provare a capire Fazio e la sua fenomenologia, sarà il caso di liquidare senza rimpianti tutto il lessico che designa la sinistra à la page, a cominciare dai termini "piacioneria", "buonismo", forse anche "concertazione" e "partito democratico". Non conviene neppure mettersi ad analizzare le convenzioni postideologiche e postmaterialiste, proprio nel senso dei politologi Crouch e Inglehart, che fanno da pilastro culturale al mondo della "Fazio’s Version". Diamolo per scontato: quella di "Che tempo che fa" è la sinistra che piace (e piacere non è mica un peccato), aperta al nuovo, ai Pacs, opportunamente riflessiva sull’eutanasia, esplicitamente pacifista, terzomondista ma anche consumista, ecologista ma non indifferente alle comodità del Suv, proiettata nella modernità e anche oltre, ma affettivamente legata ai ricordi evocati da Enzo Biagi. Sicché conviene piuttosto prendere alla lettera il paradigma che ormai dilaga, secondo cui "Che tempo che fa" è il vero "Porta a Porta" dei tempi nuovi unionisti, e Fazio ha sostituito Vespa nella centralità repubblicana, come terza camera o salotto tv decisivo per l’evoluzione non solo politica del paese. Con una differenza, tuttavia: in quanto "Porta a Porta" è ufficiale, "politicienne", convenzionale, rivolta a un pubblico di settore oppure destinato alla fisiologia del dormiveglia da terza serata, quando la politica non riesce a guardare oltre la fase due ma si sporge coraggiosamente al di là della mezzanotte. Invece "Che tempo che fa" è un programma da scegliere, mimetizzato com’è nel palinsesto, con un pubblico fidelizzato, che nel tempo ha imparato a conoscere Ilary Blasi, "Silvio" Cornacchione, e poi via via tutti i protagonisti e gli ospiti di Fazio, dal "shakespeariano" Paolo Rossi al talento lunatico di Maurizio Milani, tutti scelti comunque con spirito abbastanza bipartisan per non essere attribuito alla "faziosità", e soprattutto con quella commistione di sacro e profano, «Eminenz! Pandoro o panettone, ci dia una linea», e poi con il sincretismo onnivoro di pubblico e privato, alto e basso, kitsch e cultura, che è la cifra definitiva della sigla "Fabiofazio". C’entrerà il tocco di Michele Serra, il glam intellettuale di Giovanna Zucconi, la presenza di star letterarie internazionali come David Grossman e di autori di bestseller come Corrado Augias con l’"Inchiesta su Gesù", ma il successo di Fazio dipende soprattutto dall’integrazione esatta, senza residui, fra il programma e il suo pubblico. Ecco che questo pubblico medio e riflessivo applaude l’ex ministro Beppe Pisanu, che parla dei possibili o impossibili brogli, e lo applaude con chirurgica precisione in quanto ex dc di sinistra, ancorché forzitaliota, membro a suo tempo della zaccagniniana Banda dei quattro, e quindi politico "serio", erede di una tradizione non più deprecabile (dal canto suo, Fazio non cade, come i suoi nemici gli rimproverano per sentito dire, nell’elusività più ovvia, e difatti alla fine porta la domanda fatale: ministro, perché la sera dello scrutinio è andato a casa di Berlusconi? E si ritira soltanto davanti alla comica spiegazione di Pisanu, sono andato a illustrargli la regolarità della giornata elettorale, senza incalzarlo: caro ex ministro, non bastava una telefonatina?). Oppure, altro momento clou e rivelatore, quando Pietro Ingrao viene a presentare la sua autobiografia "Volevo la luna", e con un lapsus formidabile dichiara che il Pci aveva preso aspre distanze dall’invasione dell’Ungheria (si trattava in realtà della Cecoslovacchia, più di vent’anni dopo): tutto il pubblico e lo stesso Fazio non obiettano nulla, neanche con un mormorio, un colpo di tosse, un’occhiata di sbieco, perché in quel momento si sta celebrando l’apoteosi senescente ma non senile di un comunismo impossibile, l’utopia, il grande sogno, l’assalto al cielo, e quindi tanto peggio per i fatti, se i fatti interrompono un’emozione. Ed è anche per questa identificazione totale fra programma, conduttore e pubblico che la factory di Fazio è diventata un’autentica galleria dei maestri più venerati e venerabili della scena italiana postrema: Eco, Magris, e poi Fruttero e Rigoni Stern: questi ultimi spediti immediatamente ai vertici delle classifiche dei libri, dopo anni commercialmente non significativi: perché evidentemente la sinistra consapevole ama i maestri, e più sono vecchi più li ama, e vuol far vedere in ogni modo che li ama; e Fazio, il capo dei ceti medi riflessivi, lo ha capito, lo ha sempre capito, forse in realtà lo ha sempre saputo. n
11/01/2007