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sono il gassman dei poveri

18/12/2008

Christian De Sica è il caciarone, il coatto di lusso, e volendo anche il perfetto "cazzone" da film di Natale, con la risata alta come un nitrito; il quale all’improvviso si è trasformato in un ex giovin signore, colto e arguto: in pratica un miracolo. O meglio, il risultato di un libro strepitoso, "Figlio di papà" (Mondadori), che riscatta un’esistenza e una carriera, se c’era bisogno di riscattarle. Perché a conoscerlo, Christian, non sembra proprio il personaggio dei suoi film, un cesellatore del "vaffanculo" che chiude le sequenze. Piuttosto, De Sica gigioneggia con l’età: come perdonargli di avere scritto «Sono un bel vecchio»? Figurarsi, a 57 anni. Civetterie che giocano con i narcisismi venuti giù dai rami della famiglia: «Ma no, il fatto è che io sono figlio di un vecchio; mio padre aveva cinquant’anni quando sono nato. A me non piace affatto invecchiare: i vecchi sono tutti nevrotici, ossessionati da qualcosa. E io quando mi guardo allo specchio, vedo i danni dell’età e rabbrividisco: i peli che diventano bianchi, il sedere schiacciato…». Cielo, il dramma della "culotte de cheval". «Ahi, non mi faccia fare la figura di quello che passa il tempo a contemplarsi il profilo. La vecchiaia mi piace così poco che sono anche convinto che l’esperienza non serva a niente. Serve a diventare disincantati, cioè a perdere entusiasmo. Per dire, mio figlio Brando arriva tutto eccitato e dice: con i miei amici abbiamo trovato a Trastevere un ristorante pazzesco, sembra di essere nella Roma del Medioevo; e io che conosco Meo Patacca da quasi mezzo secolo, rispondo "Fantastico, dimmi dov’è". Perché bisogna lasciarsi meravigliare, altrimenti che gusto c’è?». D’altra parte è un dono di famiglia quello di far convivere l’affetto e l’umanità con il cinismo cinematografaro: «Ma io ho cercato di vivere rispettando me stesso; ho provato a essere il più libero possibile, anche se questo viene visto male, e allora si è costretti a fingere. E invece occorre trovare una sfera di relazioni in cui si è autentici». La famiglia, per esempio, o le famiglie: perché se Vittorio De Sica ha condotto un’esistenza vicina alla schizofrenia, da bigamo perfetto, Christian è un punto di riferimento per una famigliona estesissima. Fratelli, sorelle, amici, amiche. Amanti? Nel libro c’è l’episodio di quando la madre, Maria Mercader, si confida con Cesare Zavattini perché teme che Christian e Isabella Rossellini siano troppo innamorati e abusino della loro vitalità. E il padano e pagano Zavattini, a sorpresa: «Come bestie devono scopare, come bestie!». Lui minimizza: «Ho una moglie che conosco da quando lei aveva 14 anni». Silvia, sorella di Carlo Verdone. «Allora erano tutti preoccupatissimi perché io ero già grandicello, avevo 21 anni, e tutti sapevano che avevo un mio successo con le mignottelle: si sa, il giro dello spettacolo. Ma io ero proprio innamorato, non volevo solo farmi la ragazzina, e allora loro, i Verdone, hanno organizzato quasi un matrimonio, con un prete, a cui ho dovuto dire che l’amavo, per dimostrare le buone intenzioni». Adesso la moglie Silvia è anche il suo agente. «Sì», risata, «ma non è che mi costi di meno». Tutto in famiglia, però. «Il mio sogno, sa qual è? Vorrei una famiglia larghissima, un castello dove abitare tutti quanti, un sacco di soldi, niente preoccupazioni. E vederci la mattina e la sera, per il cazzeggio». Un sogno provinciale? «Da giovane mi piaceva correre a New York, a Londra, per le mostre, gli spettacoli. Adesso invece, ci si trova quando si è in vacanza, a San Giuliano Terme, fra Lucca e Pisa, e lì sperimenti davvero la provincia. Non solo perché hai intorno tutta la famiglia, ma per la gente del luogo, veri e orgogliosi, che se vinci l’Oscar, e ritorni un po’ tronfio, ti mandano subito a cagare». Rieccoci con il turpiloquio. «Fuori dal set non parlo così». Ma nei film sì. Ora sta per uscire "Natale a Rio" (il 19 dicembre), l’ennesimo film delle vacanze, la solita storia caciarona. «Non faccia l’intellettuale schifato. Sono stato a vederlo con Aurelio De Laurentiis, il produttore, in uno studio dove presenta sempre il film di Natale, e mi sono stupito io stesso perché Neri Parenti, il regista, ha fatto un capolavoro: ritmo, freschezza, vivacità». Alzo le mani e mi arrendo, De Sica. «Sono due storie che si intrecciano, io e Massimo Ghini siamo i padri, poi ci sono Michelle Hunziker e Fabio De Luigi». Con Ghini, Christian ha già fatto "Natale a Miami" e "Natale a New York". «Un fratello. Siamo quelli del turacciolo, l’ho scritto anche nel libro». Già, il turacciolo bruciato, per annerire la chierica, dove i capelli si diradano. «Ecco, con Massimo stiamo ore a parlare di regia e recitazione, di cinema, metodo Stanislavskij, psicotecnica, e di Lee Strasberg e Actor’s Studio, ma poi siamo i compari del turacciolo». Non dica così, De Sica, proprio lei che è l’eroe e la vittima, il protagonista e il martire dei cinepanettoni. «Non dica così lei, per favore. Ci vuole tecnica anche per la farsa. E la tecnica si impara con la pazienza e il tempo, lavorando. Vede, io ho fatto una quantità di film insieme a facce proletarie, come Massimo Boldi o Jerry Calà. Mentre io ero il figlio dell’autore di "Umberto D.", il rampollo di De Sica, un Gassman dei poveri, con la voce impostata e la pronuncia da attore. Per essere credibile nei miei ruoli ho dovuto lavorarci molto, perché per essere un parolacciaro devi diventare autentico». E quindi si sente, o meglio si sentiva, incompreso: «Eh sì, perché il film di Natale fa tanti soldi, ma tanti, mi creda, e allora provoca il rifiuto dell’intellighentia. Senza che nessuno degli intelligenti si accorga che come l’abbiamo descritta noi, i Vanzina e io, per esempio, la borghesia italiana, non l’ha fatto nessun autore pregiato, di quelli che la critica adora. La scena nel primo film di Natale, con i filippini che guardano i padroni, increduli di quanto sono volgari, dice degli anni Ottanta più di molte analisi sociologiche». Queste sono le giustificazioni alte del trash, De Sica. E togliere il mestiere ai sociologi è concorrenza sleale. «No, è che non si vogliono vedere le cose. Quando ho fatto la pubblicità col vigile Persichetti, su un giornale mi hanno dato del fascista. Solo perché ho fatto il vigile, vestito dai panni dell’autorità. Del fascista: a me, che sono sempre stato di sinistra, con un padre di sinistra, il maestro del neorealismo, culo e camicia con Zavattini». Nel libro c’è una storia memorabile. Qualcosa di simile a una "Schindler’s List" autarchica, in cui dopo l’8 settembre 1943 Vittorio De Sica salva una folla di ebrei e candidati alla deportazione girando un film senza pellicola in una chiesa romana, grazie alla complicità di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. «Ecco. E quelli mi danno del fascista». Fascista di certo no, De Sica, ma se si guarda indietro, lei che sa fare tutto, recitare-ballare-cantare, non le viene qualche rimpianto? In parole vanziniane, non si dà talvolta del coglione? Forse poteva essere un fuoriclasse, un re dello spettacolo, una star a Broadway. «Non ci voglio neppure pensare. L’importante è buttarsi dentro la realtà e il mestiere. Poi qualcosa succede. Pupi Avati mi ha offerto un ruolo nel suo prossimo film. L’idea mi piace, vorrei farlo. Paolo Sorrentino, l’autore del "Divo", ha sempre l’idea di affidarmi una parte in un film comico. Chissà. Intanto verso febbraio esce il dvd del mio spettacolo teatrale, realizzato da mio figlio Brando, "Parlami di me": il teatro l’ho fatto soprattutto per non cristallizzarmi». Insomma per uscire dalla trappola del cinema natalizio. «Non ricominci. Un critico famoso, una volta mi ha detto: "Io parlo male di tutti quelli che fanno i soldi"». Era Goffredo Fofi. «Lo ha detto lei. Io voglio stare in pace con tutti. Ho un’idea romantica dello spettacolo. L’idea di una comunità. Com’era negli anni Cinquanta in via Veneto, quando Totò incontrava Ercole Patti alla libreria Rossetti, e Sergio Corbucci parlava con Federico Fellini…». Volemose bene. Tutti d’amore e d’accordo. A proposito d’amore, c’era anche Zavattini, naturalmente. Sale alto un nitrito, ed è il miglior De Sica: «Come bestie, devono scopare, come bestie!». n

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