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Così parlò Cesare

11/12/2008

Vedi Cesare Cremonini, agile ed elastico, che si aggira scivolando come un pesce nell’acqua nel centro storico di Bologna, oltrepassando via Santo Stefano e il Pavaglione, per raggiungere un locale più che etnico, regionale e pugliese, a un passo dalla storica via Riva di Reno, e ti chiedi chi sia, e che cosa sia, questo ragazzo di ventott’anni, circondato da una setta adorante, non estesissima ma piuttosto convinta, che lo ha eletto a massimo musicista italiano sotto la trentina e sembra disposta a passarci insieme almeno i prossimi vent’anni. Lui lo sa, naturalmente, che ha l’obbligo di comportarsi come un caposcuola, perché altrimenti si guarderebbe bene dall’aprire il suo ultimo disco con un preludio solo strumentale collocato culturalmente fra il Settecento e il vaudeville, senza decidersi se convenga virare verso i cicisbei e il minuetto o verso i drammi multietnici della globalizzazione, eventualmente temperati da un sound molto melodico e dai dovuti profumi di spezie esotiche. Il nuovo tour è già partito, "absolutely sold out", mentre l’ultimo album, "Il primo bacio sulla luna", è schizzato ai vertici delle classifiche, mentre i critici parlano con una certa soddisfazione di echi beatlesiani e di sonorità tutte italiane, una miscela difficile e comunque, quando riesce, infallibile, anche se le canzoni non sono canzoni-canzoni, come ai tempi dei Lùnapop, di "50 Special" e degli echi delle escursioni sui colli bolognesi, quando il giovanissimo Cremonini, figlio musicale dei Queen e di Freddie Mercury, poteva essere assimilato a ultima, estrema e ultramoderna incarnazione dell’Equipe 84. Sono passati, molto inconsapevolmente e molto alla svelta, quasi dieci anni, e l’adolescente scatenato e allegramente incosciente è diventato un protagonista controllato, quasi un "young urban professional" qualche decennio dopo gli anni Ottanta. Il figlio di un dietologo più che ottantenne e di una più giovane brava professoressa con vent’anni di meno, dopo il liceo e una figurativa iscrizione a Scienze politiche, sfiora infatti insidiosamente l’età adulta, e cerca con razionalità il proprio stile e un modo di essere. «Mi telefona tutte le sere mio padre, e mi dice che ha paura di morire, e allora m’incazzo, più o meno, e gli dico che non può deludermi, che deve affrontare il futuro e il destino con la dignità che mi ha insegnato». Ah, la saggezza del giovane Cremonini. Intanto non ha ancora maturato quella particolare attitudine burocratica, per cui si lavora alla musica dalle nove alle cinque: il piccolo Cesare ha ancora qualche vezzo da rockstar giovane, scrive canzoni all’alba, si fa venire in mente una soluzione chopiniana o beatlesiana alle "sei e ventisei" della mattina, come da canzone omonima, dopo notti che hanno l’aria di essere state seriamente impegnative; e si sveglia allora piuttosto spettinato, da figlio veritiero di una scapigliatura che appare molto bolognese ma potrebbe pure essere molto londinese: chi se ne frega, la location in fondo non importa, conta il mood. E il mood tende a mitologizzare, come si fa alla sua età per dare una cornice al quadro: «Tutte le mie canzoni sono frammenti di un’autobiografia». Viene voglia di rispondere bruscamente: e chi se ne frega, Cremonini, dell’autobiografia. Saranno le solite storie e storielle, le ragazze, le fidanzate, gli amori, i cassetti con i memorabilia e le reliquie delle ultime passioni, i pacchetti di sigarette ciancicati e «le tue calze rotte la notte in cui ti sei ubriacata». Ma lui ha bisogno di sintetizzare, di concettualizzare, di organizzare mentalmente tutte le "stories" personali, mentre tutt’intorno i piccini e le piccine che lo hanno riconosciuto implorano muti uno sguardo o un autografo. L’avevo incontrato qualche epoca fa, al premio per i testi delle canzoni organizzato ad Aulla, quando era in carica il facinoroso sindaco Barani, quello del monumento ai martiri di Tangentopoli, e quando l’imberbe Cremonini insieme con i vecchi Lùnapop spopolava in allegria fra le ragazze (con esiti perfino pubblicamente imbarazzanti, dati gli assalti e gli agguati); mentre adesso sembra passato alla fase riflessiva degli amori saggi. Poi l’avevo visto in qualche concerto tecnicamente precario, quando sembrava che la perfezione della sala d’incisione fosse tradita dall’esecuzione "on the field", e invece irrompere alla grande in un programma televisivo del mostro sacro Celentano, quando si era messo a rivaleggiare a zompi e a balzi con Adriano, senza pudori né complessi, proprio come un predestinato, uno baciato dalla stella del narcisismo. Adesso, dopo alcuni dischi "en solitaire" come "Bagus" e "Maggese", sembra uno dei pochi artisti italiani convogliati a quella particolare professione che è l’idolo delle sbarbine: eppure con un patrimonio raro di tecnica, con il gusto di classicheggiare negli arrangiamenti, di introdurre strumentazioni vintage, di provare soluzioni canore e musicali inventive, spessissimo sofisticate, e comunque tutt’altro che ovvie. Sicché: il ragazzo Cremonini si trova in una singolare e paradossale condizione, modellata in primo luogo dalla consapevolezza di una cultura musicale, che lo induce a sperimentare, e a non accontentarsi degli stereotipi; ma poi anche da una certa coscienza dell’età, che lo porta a nascondersi, a mettersi addosso una maniera di ex adolescente, di giovane adulto, di un "professional" che prova a mediare acrobaticamente fra la deontologia e il cazzeggio, senza mai scegliere, ma senza rinunciare a un che di pragmaticamente bolognese, che impedisce le fughe troppo romantiche, e quindi modera in maniera molto opportuna i patetismi post-giovanili. Resta poi, l’ultimo disco, quello del bacio sulla luna, più lo ascolti e più ti piace. In certe canzoni come "Louise", per esempio avverti echi degli anni Sessanta che in certi momenti sembrano degli arcaici Monkees, e addirittura della nostra Caterina Caselli, sicché dopo un riff di chitarra elettrica d’antan non ti stupiresti di sentir partire le note di "I’m a believer", o perfino di "Sono bugiarda", per cantarlo all’italiana. Ed è curioso allora vedere questo costruttore di "hit song", di pezzi da cantare e da classifica, che si muove come perfetto essere sociale, senza nascondere i manierismi, gestendo le movenze, attento ai modi di dire, forse più preoccupato di nascondere che di mostrare. Tanto che viene voglia di dirgli: Cesare, non nasconderti, lasciati guardare, fatti sentire, mettiti alla prova. E lui allora guarda di sottecchi il suo manager e scopritore, il leggendario Walter Mameli, e cerca quasi di ribellarsi. Dice le solite cose, che non vuole essere un divo, e che va a caccia di una sua autenticità. Ma in fondo, con pochi altri italiani giovani, con Tiziano Ferro e lo zio più anziano Jovanotti, Cesare Cremonini sa che fra poco dovrà scegliere. Scegliere se essere "soltanto" un artista, un cantautore, un talentuoso giovane uomo di spettacolo, oppure qualcosa di diverso. Per adesso lui crede di essere ancora e soltanto un musicista. Ma nella crisi generale del mercato discografico, "cantare" non significa nulla, comporre canzoni ancora meno, arrangiarle e produrle idem come sopra. Il giovane Cesare può diventare definitivamente un piccolo eroe dello show system; ma forse c’è un traguardo che consentirebbe di rendere il suo ruolo più significativo, «per dimostrare al pubblico che nella vita è vero il vero, ma pure il suo contrario…» ("La ricetta… Per curare un uomo solo", dall’ultimo album). Ecco, se c’è un destino possibile e augurabile per il bravo musicista e cantante Cremonini è quello di fare il possibile per diventare vero, qualcosa di simile a un leader generazionale, insomma: un esempio. n

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