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Little Rai

13/08/2008

A quanti programmi di revival sugli anni Sessanta e sulle "migliori canzoni della nostra vita" abbiamo potuto assistere negli ultimi dieci o vent’anni? Non appena le temperature si fanno più dolci, di solito su Raiuno, e poi replicati mille volte sul satellite, sotto la conduzione di soubrette piuttosto minori, e sotto l’entusiasta piglio presentatorio di Carlo Conti, riappaiono i cari mostri della nostra fanciullezza e adolescenza. Possono essere Little Tony o i Camaleonti o i Dik Dik (più precisamente i "Dikki Dikki", come ha sempre pronunciato Pippo Baudo), oppure uno qualsiasi dei divi popolari dell’età del mito, dell’innocenza, dell’incoscienza. Però ogni volta è la stessa solfa, al di là del fatto che si premi la canzone, il cantante, il mezzo dilettante o semiprofessionista che reinterpreta alla meglio i successi di quarant’anni fa, o il video girato ex novo che esplora i significati reconditi di quell’antico brano. C’è una legge infallibile, che dice: ogni riproposizione di una canzone vecchia e recuperata dal passato è peggiore dell’originale. I cantanti invecchiano, i nuovi fanno discreta pietà. E quindi anche i programmi, di volta in volta, peggiorano insensibilmente, fino a sfiorare abissi di peggioramento. Ragion per cui sarebbe il caso di smettere. Forse l’unico modo serio per vedere e riascoltare i protagonisti di un’altra epoca è filologico, facendo ripassare i filmati di repertorio. Allora ci si può anche commuovere, a vedere com’eravamo provinciali (ma miracolosamente connessi al mondo, in sintonia con la rivoluzione del costume). Mentre rivisti adesso, i nostri cari vecchioni inducono solo alla ripetizione della gag di Gene Gnocchi: «Ma com’è diventato veeecchio!».

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