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la casta democratica

12/06/2008

Il pasticciaccio brutto di Genova, con il durissimo colpo subito dall’amministrazione di Marta Vincenzi, "SuperMarta" per i titoli dei giornali, ha un rilievo importante e rischioso nel panorama politico italiano; e naturalmente getta ombre inquietanti sul Partito democratico. Questo per una serie di ragioni che conviene cominciare a districare prima che i problemi aumentino fino a diventare incontrollabili. Per chi non l’avesse ancora capito, il Pd è in una condizione difficile. Ha una leadership indebolita dalla sconfitta elettorale; nutre un’incertezza strategica sul terreno delle alleanze, testimoniata dall’eterno duello fra Massimo D’Alema e Walter Veltroni; prova un’attrazione letale per la sfera del governo e per il Berlusconi seduttivo e presidenziabile di questi tempi; ha rinunciato nei fatti a difendere i risultati dei due anni del governo Prodi, consegnandolo al silenzio; non sa se il 33,1 per cento del 13-14 aprile potrà essere confermato alle elezioni europee del prossimo anno. E via elencando cose sotto gli occhi di tutti. Come ha detto il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, sulla sicurezza la sinistra è preda di «sociologismi e inconcludenze». Sulla questione istituzionale, e in particolare sul federalismo fiscale, il Pd naviga a vista, facendo sentire voci diverse a seconda di chi parla al momento. Le sue risorse di credibilità principali, invece, sono elementi poco spettacolari, che si possono riscontrare soltanto sul campo. Ad esempio, la buona amministrazione nelle regioni "rosse", frutto di sintesi storiche, di pragmatismo e di contiguità con il mondo della piccola e media impresa, consolidatisi sulla scorta di un rigore e un’onestà strutturali nelle procedure burocratiche e nelle decisioni politiche. Ma il caso Genova, con le sue mance miserabili, la sua Tangentopoli stracciona, è lì a dimostrare che la superiorità morale della sinistra è qualcosa che non appartiene ontologicamente al Dna dei suoi esponenti, non è una virtù antropologica innata. Quindi il Pd queste doti qualitative deve conquistarsele, mantenerle o riconquistarle ogni giorno (non dovremmo trascurare che ci sarà pure un motivo se "La casta" di Stella e Rizzo è apparso come un atto d’accusa al centrosinistra, ben più che alla destra). Ed è sotto gli occhi di tutti che il potere non appartiene alla sinistra per diritto naturale o divino, neanche nei suoi territori tradizionali. A suo tempo, il cerchio magico fu spezzato a Parma da Elvio Ubaldi, e da Giorgio Guazzaloca a Bologna nel 1999. Oggi, sotto le due Torri bolognesi, Sergio Cofferati ha deciso di ricandidarsi a Palazzo d’Accursio, ma è evidente che dovrà darsi da fare per andare a caccia dei voti di una città divenuta politicamente scettica. In sostanza: il diritto ereditario si è esaurito anche in quell’Italia che era orgogliosa dei suoi sindaci e dei suoi amministratori. La Lega in Emilia-Romagna ha raddoppiato i voti, e nella zona appenninica ha spuntato percentuali da record (è il vecchio voto "bianco" ancora alla ricerca di una rappresentanza). Analisti come Carlo Trigilia e Francesco Ramella hanno già individuato sintomi di degrado politico-amministrativo nelle regioni rosse, anche se le percentuali spuntate dal Pd alle elezioni politiche appaiono ancora confortanti. In queste condizioni, il pericolo di un’erosione del consenso anche nelle aree di questa Italia "centrale", un tempo fiore all’occhiello della capacità amministrativa del Pci, non è affatto un’ipotesi remota. È vero che fa fatica ad affacciarsi sulla scena una plausibile classe dirigente di destra, ma non è il caso di contare sulle insufficienze altrui. Se è vero che il Pd deve ripartire dal territorio, o «avvicinarsi al Paese» (come ripete Enrico Letta), deve mettere a frutto le personalità più convincenti che nel territorio agiscono. A quanto si capisce dai dati elettorali, il Pd è un’entità politica maggiormente competitiva nelle grandi città e fra le classi più scolarizzate: contiene in sé un elemento di dinamismo culturale e un contenuto di modernizzazione. Per valorizzare questi aspetti ci vuole un lavoro intenso e capillare, non un partito virtuale. Occorre saper ascoltare i cittadini, e non mostrare la sovrana indifferenza assicurata dalla propria indiscutibile superiorità. Infine, se occorre, ci vuole anche la capacità di farsi da parte, tempestivamente, quando le cose si mettono male, per distrazione o per incapacità. Altrimenti, in ogni roccaforte presunta può essere al lavoro la sindrome Bassolino.

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