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L’ENIGMA ROMANO

10/01/2008

D’accordo, il governo è un "dead man walking". Lo sanno tutti, lo dicono tutti: un morto che cammina. Un reggimento di ministri e sottosegretari che con la sua azione farraginosa è riuscito a scontentare il 75 per cento degli italiani. Trattasi del governo storicamente più a sinistra che l’Italia abbia mai avuto, che tuttavia è riuscito addirittura a farsi cantare un sarcastico "De profundis" da Fausto Bertinotti (con Prodi paragonato a Vincenzo Cardarelli, «il più grande poeta morente»). Insomma, il governo deve semplicemente andarsene, «perché sta rovinando l’Italia», come urlano le signore della libertà a Prodi, ormai difeso soltanto dalla moglie Flavia. Tolga il disturbo, faccia il piacere, in modo da lasciare posto a Berlusconi, a Veltroni, alle larghe intese, a Lamberto Dini, a Mario Draghi, al governo istituzionale, alla Cosa bianca, a Pezzotta, a Montezemolo, a chiunque altro. Insomma, ci fosse un referendum sull’opportunità della sua caduta, Romano otterrebbe un plebiscito: negativo, s’intende. Un trionfo a rovescio, almeno in parte inspiegabile, come riassume Giulio Santagata, braccio destro e ministro per l’Attuazione del programma: «Sapevamo benissimo che puntare contemporaneamente sul risanamento e sul rilancio della crescita sarebbe stato problematico. Ma non volevamo fare la politica dei due tempi, prima mettere a posto i conti e poi procedere con gli incentivi: c’era il rischio di strangolare l’economia prima di riuscire a ripartire. Mentre se uno oggi guarda i dati…». Già, i dati. Il totem dei tecnici al governo. Prodi e Padoa-Schioppa osservano lo schema riassuntivo dei conti pubblici, e si confessano con uno sguardo d’intesa che possono tirare grandi sospiri. Il debito pubblico in calo costante (entro la fine della legislatura dovrebbe scendere sotto il 100 per cento del Pil), il deficit che si è messo a veleggiare verso l’insperato risultato del 2 per cento. Le cassandre smentite. L’avanzo primario in via di ricostituzione. L’inflazione ancora bassa, nonostante il caro petrolio e l’impennata delle materie prime. «Noi non saremo granché», ghignano nello staff di Palazzo Chigi, «ma abbiamo rovesciato la tendenza rispetto a Berlusconi e al suo esercito di geni». Cioè rispetto ai tempi meravigliosi della crescita zero e dei conti euforicamente fuori controllo. Ma si sa che i numeri e i fatti non significano nulla. Il tasso di occupazione, ridotto al 5,6 per cento, un dato che non si vedeva da vent’anni. I successi nella lotta all’evasione fiscale. Le prime misure di redistribuzione ai ceti più svantaggiati, il pacchetto del welfare con i provvedimenti a sostegno del lavoro precario: non conta nulla. Non lo si sapeva fin dalla vittoria di Berlusconi nel 2001 che ciò che conta è il "sogno"? E per mettere in cantiere un altro sogno, cioè un’altra fuga dalla realtà, ciò che importa è buttare giù Prodi, disintegrare il bipolarismo "che è fallito", pensare alle nuove convergenze parallele, alla futuribile riedizione del compromesso storico e alla ricostituzione eventuale del centro. Ma una volta raggiunto, con una certa facilità, il consenso unanime sulla liquidazione del governo, bisogna pensare a ciò che viene dopo: e qui casca l’asino. Perché nessuno è in grado di procedere alla seconda mossa: cioè dire che cosa succede dopo la caduta di Prodi. Anzi, su questo tema, "tot capita tot sententiae". Ciascuno ha la formula magica per il governo futuro, salvo che in ogni progetto pensato nelle notti romane c’è sempre un difetto, un imprevisto o un attrito, vistoso o infinitesimale, che di giorno lo rende impraticabile. Il fatto è che la partita sulla scacchiera è complicata da una varietà pressoché infinita di variabili: il fattore Dini, alias "Lambertow", che da metà novembre ha sancito la fine dell’alleanza di centrosinistra e la sua inadeguatezza rispetto ai problemi del paese, e che non usa mezzi termini sulle soluzioni alla sindrome Prodi, che «destabilizza il Paese, perché è al 25 per cento dei consensi». Sostiene infatti Dini: «Per ricostruire la fiducia occorre un governo di larghe intese, che raccolga tutte le forze vive del Paese, politiche, imprenditoriali e intellettuali». C’è da fronteggiare la fuoruscita del senatore Domenico Fisichella, «indipendente dai due schieramenti», e la defezione di Willer Bordon, fra i primi a diagnosticare la fine dell’alleanza di centrosinistra. Poi una fila di questioni: la posizione che il sindacato assumerà sui progetti di detassazione dei salari, la vicenda Alitalia e il caso Malpensa, il rifinanziamento delle missioni internazionali, la base di Vicenza, le questioni di genere, i teodem, l’ostinazione della Binetti, la Corte costituzionale, il referendum… Già, il referendum. Gira e rigira si va sempre a finire in quei dintorni. Ci vuole solo un po’ di pazienza, c’è da aspettare la metà di gennaio, allorché la Consulta si esprimerà sulla costituzionalità dei quesiti proposti da Guzzetta e Segni. Dopo di che, se il responso sarà un via libera, si assisterà in ogni caso a un’accelerazione e a una semplificazione. Si possono immaginare due fasi: un primo tempo in cui si cercherà di trovare la quadratura del cerchio sulla legge elettorale; un secondo tempo per vedere se ci sono le condizioni per impostare e approvare alcune modifiche costituzionali congruenti con la necessità di modellare un sistema politico-istituzionale in grado di esprimere la governabilità. Su questo terreno, gran parte dello sforzo ricade sulle spalle di Walter Veltroni. Spalle già un po’ provate, per la verità. Dopo un primo giro negoziale di notevole successo mediatico, il sindaco di Roma e leader del Partito democratico ha cominciato a pedalicchiare a vuoto. Gli si è sbriciolato fra le mani il "Vassallum", cioè il sistema elettorale meticcio, ispano-tedesco, pensato per cercare di fondare la politica italiana sui due pilastri del Pd e del nuovo partito di Berlusconi. Fra le righe degli articoli di cronaca politica fioriscono spesso e volentieri malizie e cattiverie sull’indebolirsi progressivo della sua leadership. I suoi avversari gridano all’inciucio con Berlusconi. Prodi stesso gli tira qualche bombetta a mano, forse con voluttà, di sicuro per necessità, sostenendo che la nuova formula elettorale deve farsi carico della sopravvivenza dei piccoli partiti (che altrimenti potrebbero minacciare l’esistenza del governo). Per adesso, tuttavia, c’è da mettere a fuoco un problema piuttosto serio. Mentre si trova costretto a misurarsi con una prova forse di durata più lunga di quanto non avesse preventivato, Veltroni vede assottigliarsi il patrimonio ideale di salvatore della patria che aveva incassato nel presentarsi per la leadership del Pd. Ossia: di fronte a una perdita di popolarità come quella sofferta dal governo Prodi, andare a misurarsi nelle urne con l’esercito berlusconiano significa farsi massacrare. Forse una chance per Veltroni ci sarebbe stata se il confronto fosse stato a scadenza brevissima dall’ingresso in campo: mettiamoci l’effetto novità, un programma razzente in pochissimi punti qualificanti, tanta società civile e dosi di glamour esposti con gusto, istinto della modernità, grande sensibilità mediatica, ed ecco il boom possibile (magari anche con l’artificio di una "rupture" alla Sarkozy, cinica e strumentale, verso Prodi e l’Unione). Adesso invece Veltroni si trova, suo malgrado, inesorabilmente legato alle sorti di Prodi e del suo governo. Deve aspettare con pazienza che l’azione di governo dia gli esiti sperati: vale a dire che dopo la fase dei cordoni stretti si passi alla fase della borsa aperta, secondo il normale ciclo della legislatura. Come risultato forse si sta verificando, anche tra Veltroni e Prodi, lo schema classicissimo «nec tecum nec sine te vivere possum». Ma d’altra parte, secondo indagini demoscopiche ripetute periodicamente, l’elettore tipico del Partito democratico chiede alla politica solidità e innovazione, coerenza e modernità. Qualcosa che assomiglia al binomio involontario impersonato da Prodi e Veltroni. E dunque vale la pena di mettere tutto in discussione favorendo apertamente o clandestinamente il superamento del governo, e quindi il salto nel buio detestatissimo dai cittadini di centrosinistra? Può darsi benissimo che alla fine l’Unione, o ciò che ne resta, sia esausta, e che l’esperienza varata per le elezioni del 2006 sia giunta alla fine. Questa in realtà è l’ipoteca politica peggiore che grava sul governo Prodi. Il fatto è però che in questo momento non si vede un soggetto politico, e nemmeno una personalità politica, che possa assumersi in prima persona il compito di rovesciare il tavolo. Sulla sinistra grava il monito di Massimo D’Alema, dopo la sua uscita prematura da Palazzo Chigi: «Il nostro errore fu prenderci l’azzardo del governo». Oggi l’azzardo massimo sarebbe assumersi la responsabilità di fare cadere l’esecutivo e andare verso soluzioni tecnocratiche, alla Dini, a metterla bene; o verso una sconfitta elettorale spaventosa, nel caso di uno schianto del quadro politico. Se fanno bene i loro conti, Veltroni e Prodi si accorgono che nonostante tutto, e nonostante anche la morte annunciata del governo, devono provare a collaborare. n

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