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Servizietto pubblico

10/01/2008

D’accordo, è vero, come obietta su "la Repubblica" Giovanni Valentini, che in tutti i paesi avanzati c’è il servizio pubblico e c’è il canone, anche molto più caro che da noi. Ma c’è un ma. L’Italia non è un paese avanzato. Siamo nel pieno del Medioevo più la televisione: di là si staglia l’Imperatore, con i suoi possedimenti immensi su cui non cala mai l’antenna, di qua si profila il feudatario, il vassallo, il valvassore, fino al giullare di corte e al servo della gleba, richiesto di certe corvée. Per capire questa realtà feudale, che sfiora la grandezza degli affreschi di Marc Bloch per inoltrarsi nei territori dei Vanzina, basta un ripasso dei ludi telefonici fra Silvio Berlusconi e Agostino Saccà. Presidente, direttore, tu, lei, il papa, la soldatessa, lo stronzo, quasi meglio di Totò e Peppino, con annessa la malafemmina di turno. Ragion per cui si tratterebbe di capire come si può riformare il servizio pubblico (o il servizietto, per meglio dire) per rifarlo più bello e più grande che pria (bravo, grazie). E la risposta è quella volterriana: nel migliore dei mondi possibili, quello del dottor Pangloss, basta una buona riforma, per ridare alla televisione una «maggiore» autonomia dalla politica, come dice di solito il ministro Gentiloni. Ma siccome noi viviamo in uno dei peggiori pianeti dell’universo, maggiore o minore autonomia sono parole che non valgono niente. Tanto vale prenderne atto, e trarre le conclusioni. Si è sempre detto che la Rai è lo specchio del paese. Be’, il paese è quel che è, e fa quel che può. Oltretutto, con il ritorno della proporzionale, l’incubo della lottizzazione è ancora più incombente. Nessuno che abbia buoni propositi, per l’anno che comincia?

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