Dice il sociologo Giuseppe De Rita che il centrosinistra non tocca palla. Scrive Adriano Sofri che il 25 luglio del Cavalier Berlusconi è già avvenuto, e manca soltanto la ratifica. Se le cose stanno così, si capisce facilmente perché la politica d’estate è fibrillata fin quasi all’infarto su incidenti infimi. La questione centrale è che il ciclo berlusconiano si sta esaurendo, e al Pdl manca la capacità di rilanciarsi. Da un lato tutto il repertorio del berlusconismo mostra la corda, con le sue ossessioni, fissazioni, manie culturali. Forse il punto debole, il peccato originale della destra deriva con esattezza dall’atto di nascita del Pdl: avere messo insieme gli istinti liberaloidi di Forza Italia con i residui della cultura nazionalpopulista di Alleanza nazionale ha creato un grosso partito generalista, ma ha fatto perdere iniziativa e velocità alla nuova formazione politica. I problemi personali e pubblici di Berlusconi hanno introdotto un ulteriore elemento di debolezza nella coalizione di destra, oltre che un fattore di scadimento democratico: il capo del Pdl, con il suo divorzio, le escort, le liti ereditarie, impersona oggi una questione politica che condiziona ogni mossa dello schieramento, i rapporti con il mondo cattolico e la chiesa, la credibilità di fronte all’opinione pubblica e alle élite nazionali, e per evitare contraccolpi nel consenso impone un controllo dei media più simile a una "demokratura" di stampo putiniano che non a una normale democrazia liberale dell’Occidente. È per questo che il sistema di relazioni interno alla destra si movimenta, si agita, diventa aritmico: e come sempre in questi casi, oltre alle trafelate diplomazie dell’entourage berlusconiano nel tentativo di incontrare il papa, si esalta il ruolo della Lega. Ferragosto è scivolato via con i numeri funambolici di Umberto Bossi da Ponte di Legno sull’inno nazionale e "Va’ pensiero": un pretesto, poi furbescamente rimangiato, per introdurre dinamismo e manovra dentro una coalizione dai riflessi condizionati. Bossi sa benissimo, da sempre, che per la Lega "chi si ferma è perduto": che si tratti «di Sionne le torri atterrate» o «arpa d’or dei fatidici vati», ciò che serve al Carroccio è fare scoppiare qualche allegro petardo che tenga in tensione i berluscones e gli ex aennini. Una trovata tira l’altra: prima il revival ormai tradizionale, da parte leghista, dei dialetti, fino all’invenzione delle fiction vernacolari della Rai, poi i matrimoni in dialetto, gli albi regionali per gli insegnanti; infine, per passare dall’immaginario al materiale, le gabbie salariali, ovvero i salari «territorializzati», e «la terra ai giovani» secondo la proposta del ministro Luca Zaia, che sta diventando uno dei "punteros" più vivaci e presenzialisti della Lega. Tanto per capire la remissività politica circostante, la proposta di Zaia, in apparenza stravagante, «è stata accolta da un consenso bipartisan». Ma ciò che conta è la sostanza politica di tutti questi piccoli fuochi e i risultati che essi ottengono: sono settimane infatti che tutto il mondo politico è indotto a giocare soltanto di rimessa sulle sortite della Lega. Nonostante le parole d’ordine trionfalistiche dei suoi ministri, il governo Berlusconi ha perso velocità, con il premier che su ogni tema e problema annuncia il suo impegno personale in prima persona, un «fasso tuto mi» alla lunga affannoso che tradisce una visione "corta": sulle prospettive del governo grava la pesantezza della crisi economica, che in autunno potrebbe farsi sentire in misura preoccupante, soprattutto nel settore manifatturiero e quindi al Nord, nelle aree di maggiore insediamento di Pdl e Lega. Finora l’esecutivo, soprattutto con il premier e il ministro Claudio Scajola, hanno utilizzato la tecnica del troncare e sopire, chiedendo fiducia, colorando di ottimismo i più pallidi segnali di ripresa, continuando a ripetere «il peggio è alle spalle». In realtà, le prospettive economiche sono da brividi, con i consumi in calo e l’eventualità che in settembre i cancelli di molte industrie restino chiusi. Forse per la prima volta nella sua vicenda, anzi, per dirla sempre con De Rita, nel suo "ciclo lungo", Berlusconi si trova a doversi scontrare con la durezza della realtà. Non c’è più alcun sogno, e neanche un miraggio, per il berlusconismo. Le riforme istituzionali non hanno la minima attrazione per l’elettorato, le liberalizzazioni si sono inabissate (sabotando anche le più sacrosante lenzuolate di Pier Luigi Bersani), la modernizzazione del sistema Italia è un ricordo. Le leggi sulle intercettazioni e sulla privacy sono provvedimenti ad personam. Il pronunciamento della Corte costituzionale sul lodo Alfano potrebbe scatenare una crisi politico-istituzionale mai vista. Ci sarebbe in sostanza amplissimo spazio per l’opposizione, se il Pd non fosse impegnato nelle sue vicende interne. Ma, per l’appunto, i democratici sono alle prese con la preparazione del loro congresso e delle primarie. Non c’è molto spazio per iniziative politiche di qualche significato generale. Ha fatto un certo rumore il sondaggio secondo cui Bersani avrebbe 19 punti di vantaggio su Dario Franceschini. Questo significherebbe che il futuro del Pd è già scritto. Tuttavia rimane incertissima la strategia futura del partito. Oggi come oggi il Partito democratico rischia di rappresentare quella «minoranza permanente» di cui parlò Massimo D’Alema dopo le elezioni politiche del 2008. Il tentativo di allargare l’area del consenso del centrosinistra investe i rapporti con l’Udc, e di riflesso la ridefinizione del rapporto con l’alleato rivale, vale a dire l’Italia dei valori di Di Pietro. E qui cominciano a delinearsi prospettive di ultrapolitica: secondo alcune analisi riservate, svolte in alcuni centri dell’establishment italiano, entrambi gli schieramenti sono vittime di un alleato che esercita un ricatto permanente: a destra la Lega, che approfitta dell’opacità programmatica del Pdl e dell’assenza di guida da parte di Berlusconi; a sinistra Di Pietro con le sue mobilitazioni giustizialiste. Nel momento in cui la crisi economica dovesse farsi sentire con crudezza, questa è la conclusione dei poteri forti, potrebbe venire all’ordine del giorno una grande intesa nazionale fra Pdl e Pd, con l’obiettivo di razionalizzare ulteriormente il sistema politico, escludendo i soggetti "anomali", e costringendo di fatto l’Udc a prendere posizione, rinunciando alla politica dei due forni che Pier Ferdinando Casini sta praticando con qualche successo, giocando di volta in volta alleanze diversificate sul piano territoriale. Credibile, il modello delle larghe intese? O pura fantapolitica? Prima di ogni valutazione in merito occorrerà aspettare il risultato delle primarie democratiche. Perché il futuro partito si disegnerà a seconda del vincitore. Se questi sarà Bersani, dovremmo assistere alla nascita di un partito che cercherà di riprendere la fisionomia del compromesso socialdemocratico all’emiliana. Il piacentino che piace a Bossi e a Cl, l’uomo del partito «bocciofila», sta cercando di mischiarsi con i cattolici (vedi Enrico Letta e Rosy Bindi, nonché l’appoggio non dichiarato ma evidente di Romano Prodi), per evitare proprio il rischio di un partito identitario, troppo simile al Pci e carico di elementi passatisti. Secondo analisti vicini ad Arturo Parisi, lo schema di Bersani è sbagliato, o perlomeno anacronistico: oggi infatti un partito di programma difficilmente può puntare da sinistra a un piano di riforme con al centro il welfare, in quanto si vede che questo programma può essere realizzato anche da una destra "compassionevole" (in Italia con ministri di ascendenza socialista come Maurizio Sacconi o Renato Brunetta). Quindi è possibile che a sinistra, dopo il congresso, la situazione diventi estremamente delicata. Il nuovo Pd può entrare in tensione, dal momento che i centristi potrebbero rifiutare la costituzione di un partito sostanzialmente "socialista". Nello stesso tempo, occorrerà mettere a fuoco anche gli elementi di laicità programmatica introdotti dalla candidatura di Ignazio Marino, che appaiono in grado di sprigionare conflitti aspri e poco negoziabili all’interno del partito. Insomma, anche se nessuno fra gli esponenti democratici vuole ammetterlo il Pd è un soggetto politico a rischio. I fattori di disgregazione ci sono tutti, ben visibili. E in ogni caso incombe sul partito e sul futuro segretario l’obbligo di ristrutturare la sinistra e l’opposizione. Per non rischiare l’emarginazione politica. E per non consegnare il paese a un lunghissimo ciclo di destra: oltretutto una destra senza progetti e intenta solo a occupare il potere. n
27/08/2009
ATTUALITA'
POLITICA / LA STRATEGIA DEI PARTITI