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La sindrome di casoria

02/07/2009
PORTE GIREVOLI

Si è infilato in bugie intere, in mezze verità, nelle solite provocazioni. Silvio Berlusconi non ha ancora trovato una risposta stilistica plausibile alla sua crisi. Ora tenta di apparire come uno statista, ingaggiando battaglie perdenti nell’Europarlamento, ora invece riacquista il profilo dentuto del Caimano, attaccando giornali e contestatori («Mi fate pena e disgusto»). Si è guadagnato la diffidenza della Cei e di "Avvenire", ha smarrito voti cattolici, rivendica con protervia uno stile di vita inadeguato a una classe dirigente credibile. Ma se si dovesse stabilire qual è il vero punto di crisi del Sultanato, come l’ha definito Giovanni Sartori, sarebbe arduo individuarlo. La verità più visibile è che dopo un quindicennio (e dopo le premesse poste dal primo urto della modernizzazione craxiana), sta cedendo il berlusconismo. Vale a dire un metodo sistematico di occupazione del potere basato sullo scontro esistenziale di due Italie: da un lato il paese della tradizione progressista, "i comunisti", cioè il pubblico impiego, il sindacato, l’ordine giudiziario, le istituzioni rappresentative, la scuola; dall’altro l’estemporaneità caotica di una classe dirigente che non dirige nulla, ma lancia di continuo progetti polemici contro «il Paese della conservazione». Fra l’Italia faticosa, e farraginosa, delle norme, e i vecchi lustrini di "Drive In", c’è in mezzo una tensione ideologica continuamente sollecitata. Perché non c’è mai stata discontinuità tra il format tv di sesso spicciolo, e di narcosi serale delle platee, e il modello politico e culturale berlusconiano. Forza Italia, la Casa delle libertà, e infine il Popolo della libertà nascono come un’aggregazione familistica. Sono privi di programmi politici culturalmente autonomi, e i loro intellettuali sono disponibili a modificarli sulla scia del contingente. Il mastice è il potere, e un’occupazione spettacolare di ogni spazio di manovra mediatica. Modello Gelmini, modello Brunetta, modello Alfano, modello Frattini, modello Ghedini, con l’aggiunta di uno sfruttamento edonistico delle occasioni ludiche che rende inevitabilmente scivolosa la discrezionalità del comando. Difficile distinguere tra la politica e l’intrattenimento personale. Tutto questo poteva forse reggere se ci fosse stata alle spalle l’eco di una cultura politica, ancorché calata nel "cafonal" della seconda Repubblica. Invece si è assistito, per ora, a un mezzo infarto di sistema. Si sa che le catastrofi non hanno mai una origine unica. L’eccesso di confidenza, il senso di impunità, lo smarrimento delle convenzioni istituzionali minime è tutto riassumibile nella sindrome di Casoria, nelle esasperazioni notturne, nelle accuse di Veronica Lario, nella diagnosi su un uomo «malato». Ma la situazione generale è forse ancora più inquietante dei festini romani e sardi. Perché si ha la sensazione che stia per avvenire, se non è già avvenuto, il ritiro della fiducia da parte di alcuni segmenti di establishment. I giudizi si consolidano nei corridoi corporativi del capitalismo domestico, nei circuiti di potere anche più opachi, nelle sale delle gerarchie vaticane, forse nelle arciconfraternite bancarie e massoniche. Non è un complotto. Può essere un verdetto. In contesti simili la mignottocrazia è più che altro un ulteriore elemento a carico. La durezza della realtà parla di un andamento produttivo che riporta il Paese dieci anni indietro, di continue minimizzazioni della crisi, di «poteva andare peggio», di rassicurazioni non convincenti sulla dinamica delle imprese manifatturiere, di una mortificante assenza del sistema Italia nel risiko mondiale dell’auto, di una inutile enfasi sull’incontro con Barack Obama (e di una folklorica partecipazione ai ludi imperiali di Gheddafi). Le mignotte riescono a dare il tono finale di losca vacuità a un’esperienza che non è più esclusivamente politica. Con i festini, le escort, i numeri sul «letto grande», tende a chiudersi un circo politico slabbrato che fin dall’esordio è stato un’esperimento antropologico. Il tentativo di convincere la società italiana che essa aveva un unico obiettivo, essere identica a se stessa, condividere il proprio tribalismo, avvolgersi nei propri egotici interessi. Su questo schema, Berlusconi ha vinto a mani basse. Dopo di che, nella grande crisi, è partita una crepa. La rottura del pack. Non si governa con le trovate. Può anche darsi che Berlusconi non sia finito, né umanamente né politicamente, che abbia ancora risorse, interessi e clan da mobilitare. Ma il berlusconismo, innanzitutto come stile di governo, è kaputt. Se n’è resa conto la destra sarkozysta interpretata da Gianfranco Fini. Sarebbe il caso che se ne accorgesse, con un’alternativa politica presentabile, anche il Partito democratico.

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