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LI CHIAMAVANO TRINITA’

26/03/2009

Va tutto bene, anzi quasi bene, per il Popolo della libertà. Nel giro di una settimana si assisterà allo scioglimento di Alleanza nazionale, e subito dopo al congresso di fondazione del Pdl. Il "quasi bene", l’andamento quasi ottimo, del partito del predellino è dovuto più che altro al suo abbrivio inerziale: gli italiani si stanno abituando al berlusconismo, il potere del Cavaliere è assoluto, l’occupazione "manu militari" dell’informazione procede in apparenza senza scampo e con resistenze sempre più fioche. E allora che cosa manca? Che cos’è quel prurito così fastidioso sulla fronte del Conducator, dove sarebbero i problemi? Il leggero calo di popolarità di Silvio Berlusconi? Ma è chiaro che siamo di fronte a un fenomeno fisiologico. Oppure la sfrontatezza di Emma Marcegaglia che dal soglio della Confindustria chiede «soldi veri», lasciando intendere che quelli messi finora in circolo dalle cifre in girandola del governo sono stati soldi figurativi? Ma no, basta una dichiarazione del premier per tornare nel clima della luna di miele, con Berlusconi pesce nell’acqua del suo elettorato di commercianti, imprese, avvocati, professionisti, commercialisti, lavoratori autonomi. Eppure, quando nasce un partito nuovo, soprattutto se è in gioco l’accrocchio fra due partiti esistenti, le tensioni ci sono sempre. Scontri fra personalità, attriti fra ruoli e candidati (veri o virtuali) alla successione dell’imperatore. In questo momento l’apparente bonaccia è agitata in realtà dal conflitto strisciante fra i tre protagonisti del Pdl. Si tratta di Berlusconi, naturalmente, e subito dopo delle due personalità politicamente e culturalmente più forti del Pdl, ossia Gianfranco Fini e Giulio Tremonti. A osservarne le mosse, sembra di assistere ai fasti dei Tre Tenori. Ciascuno intona la propria canzone, tira fuori il fazzoletto, si sgola, accenna alle prime note del "Nessun dorma" per preparare infine l’acuto del "Vincerò". Ma in realtà nessuno di loro sembra in grado di arrivare al do di petto. Per la prima volta, infatti, i sondaggi sono cedenti per Berlusconi. Continuava a dire che erano «imbarazzanti», perché da quelle quote stratosferiche si poteva solo cadere, ed ecco qua il primo vero scivolone. Tutto questo nonostante l’attivismo, la stravittoria in Sardegna, le polemiche efficientiste con il Quirinale, il cavalco del caso Englaro, le smanie presidenzialiste, la continua e stridula richiesta di governare con i decreti, gli attacchi alla Costituzione "sovietica" per superare la continua impasse parlamentare. Tuttavia, in realtà, il tenore Berlusconi non ha ben chiaro quale sia l’obiettivo a cui indirizzarsi. La gestione della crisi non dipende dall’andamento dell’economia italiana, e le trovate come la riforma delle licenze edilizie appartengono più al Berlusconi imprenditore, al vecchio "muratorino", che non all’uomo di governo. Alla fine, buon sangue non mente, e il Cavaliere torna sempre al mattone. Ma la verità è che un superottimista, un miracolista, un uomo di acuti e sovracuti come il capo del governo non si trova a suo agio dentro la crisi economica, si sente sconfortato nella decrescita, soffre con la deflazione e le aziende in sofferenza. È una specie di Carreras, il piccoletto tutto nervi e dinamismo, che si trova impastoiato in un teatro senza mezzi, fra quinte da ridipingere, macchine di scena arrugginite, comparse svogliate, e sullo sfondo figuranti forse infidi. È anche per questo che il Tenore numero due, cioè la figura pavarottiana di Gianfranco Fini, individua di continuo possibilità di uscita in scena per raccogliere applausi scroscianti. Come Pavarotti l’Emiliano, anche il bolognese Fini non ha specializzazioni e culture precise, né spartiti dogmatici: va volentieri a orecchio, fa il laico quando il Pdl si aspetterebbe posizioni confessionali, esercita il parlamentarismo mentre Berlusconi strappa in chiave decisionista, si picca di presentarsi come il garante di quella che al premier appare una democrazia "discutidora" e pigra. È per questo che sulle bacheche Web i berluscones più accesi lo additano praticamente come un traditore. Insulti a sangue, ripicche sdegnose, «vattene con Casini, sei come lui». Ma il calcolo di un animale politico a sangue freddo come Fini è razionale: se c’è un erede possibile del berlusconismo è lui, uomo pratico sradicatosi con tempestività dal postfascismo, che non sembra avere più nulla che fare con la destra-destra, i suoi simulacri e i suoi simboli. Dalla sua, Fini ha un pragmatismo politicante che gli consentirebbe, in futuro, di gestire l’Armada berlusconica senza alcun pregiudizio ideologico. È un buon pokerista, capace di sorrisetti in grado di camuffare il bluff e di rilanciare senza batter ciglio. Anche se molti fra i colonnelli di An lo detestano, Fini si staglia di una spanna su tutti i suoi colleghi di partito: Gianni Alemanno sta subendo i contraccolpi dell’ingovernabilità di Roma, i berluscones di complemento La Russa e Gasparri recitano un ruolo che li accredita come cabarettisti dell’esecutivo più che come leader potenziali, i supergovernativi come Altero Matteoli si sono ritagliati una particina personale, ma senza alcuna ragionevole ambizione su un piano più generale. Ma proprio in quanto elemento borderline, Fini subirà moltissimo la concorrenza del terzo Tenore, Giulio Tremonti. Ecco, il ministro dell’Economia è la vera voce fuori registro nel coro della destra. Viene facile accostarlo a don Placido Domingo perché ha una varietà linguistica e musicale amplissima. Ha cominciato da tenore, con acuti formidabili in chiave liberista (taglio delle tasse, economia "supply side" all’americana, liberismo sbrigliato a sostegno dei miracolissimi berlusconiani e del "meno tasse per tutti"), e sta finendo nella veste del baritono, su toni scuri, su note gravi, su accenti pensosi, dentro un melodramma che minaccia di finire in tragedia. Il cultore e analista della "lex mercatoria", che sta prendendo il sopravvento sui liberisti classici e sui neoliberisti dogmatici, vede il ritorno del primato delle istituzioni, «e non perché lo Stato ha trionfato, ma perché il mercato ha fallito». Ora, Tremonti ha un vantaggio sugli altri due tenorissimi del Pdl. Ha la sfrontatezza della cultura, e la convinzione della forza del proprio approccio. Talvolta sfiora la metafisica, come nella conclusione del suo saggio "La paura e la speranza", dove la soluzione ai problemi pratici della crisi è prospettata con il ritorno ai Valori, con la maiuscola. Ma mentre Berlusconi è empirismo puro nella sintonia con gli animal spirits, squilli di tromba e «procomberò sol io», mentre Fini appare come pragmatismo trapiantato nella "politique politicienne", Domingo- Tremonti, mezzo baritono e mezzo tenore, è il portatore di una cultura: lui la chiama economia sociale di mercato, come la "soziale Marktwirtschaft" dei liberali di "Ordo", la rivista di Friburgo in cui studiosi come Eucken e Roepke progettarono la teoria del "modello renano" (il mercato, fin che ce la fa; lo Stato, quando il mercato non ce la può fare). Ma in realtà Tremonti è un pensatore ancora più insidioso: perché con la sua polemica contro la globalizzazione sta plasmando un modello culturale che recupera dal passato alcuni tratti del corporativismo, ripesca nella tradizione giuridica della prima metà del Novecento, e sul piano fattuale cerca di integrare blocchi di interesse economico in una struttura permanente di potere. Con la conseguenza che il pensiero "comunitarista" di Tremonti assomiglia alla formula perfetta per un paese immobile, invecchiato, stanco, deformato dai privilegi e distorto dalle rendite come l’Italia contemporanea. Si tratterà quindi di capire, guardando il Pdl, qual è il progetto politico-culturale che potrà affermarsi. Ormai, ciò che resta del "sogno " berlusconiano ha tutto l’aspetto del passato: ciò che conta è il mattone, le quattro mura, l’autodifesa familistica, il mercato inteso come esercizio di atti esclusivamente privati. Il progetto di Fini è una singolare miscela di tradizione politica, trasferita anche in una pratica quotidiana intessuta di tatticismi, e di innovazione sul piano sovrastrutturale, sui "valori" e sui diritti. Mentre il programma politico di Tremonti è il più ideologico, e forse il più attraente, per una società angustiata dal nuovo: una specie di paternalismo ammodernato, dove le innovazioni vanno soprattutto controllate, sotto la guida di burocrazie occhiute, e in cui perfino il credito finisce in una dimensione prefettizia. Per ora, il coro dei tre Tenori non ha prodotto stonature tremende. Al massimo i protagonisti si scambiano gomitatine e calcetti mentre l’uno o l’altro è impegnato nell’acuto. Se qualcuno si mostra troppo propenso a rubare la scena, Berlusconi si fionda verso il pubblico e zittisce tutti. L’unico Tenore riconosciuto, in fondo, è lui. Il solo, partito o non partito, fredda sommatoria di nomenclature o fusione calda, che quando dispiega la gola porta tutti all’unisono. Ancora adesso, e con l’intenzione di fare invecchiare tutti i delfini, fino a fare emergere magari il successore vero (già, non dimentichiamo che il Cavaliere ha preso a citare il nome musicalissimo del suo ministro guardasigilli Alfano: l’omonimo del compositore che completò la "Turandot", vedi i corsi e i ricorsi).

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