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Mammia mia gli Italians!

12/02/2009

Trionfano gli Italians. Sono gli italiani nella globalizzazione. Pregi e difetti su scala internazionale. Se si parla di pregi, a Maranello, nello staff del reparto corse della Ferrari, ecco la "buona italianità". Uno sguardo fra ingegneri, tecnici, meccanici, e il significato è chiaro: la buona italianità è una combinazione essenziale di competenza tecnica e di creatività operativa. Dedizione al lavoro e fantasia nelle soluzioni. Ore e ore sul pezzo e infine la trovata che scioglie il dilemma della stabilità o della motricità, dell’accelerazione, del controllo elettronico. Ma se esiste una italianità "buona" deve esistere, logicamente, anche un’italianità cattiva. Peggiorata da un’evidente autoindulgenza, dalla simpatia per i propri vizi storici e storicamente accertati, per le costanti e le varianti del carattere nazionale. Quell’atteggiamento tra il fatalismo e la recriminazione che ha per padre nobile Alberto Sordi, e una quantità di congiunti assai meno pregiati, che hanno furoreggiato a suo tempo (soprattutto ai tempi di Alvaro Vitali e Bombolo) e spopolano ancora nel nome o nel malinteso del trash. Tanto più deprecabile, l’autoassoluzione degli italiani nel nome dell’italianità incorreggibile, in quanto almeno i tempi del "Vigile" e dei "Magliari", il superitaliano medio "Albertosordi", tutto attaccato, concedeva al pubblico e ai critici la giustificazione di costituire un esempio negativo, la personificazione grottesca dei cattivi costumi nazionali, con catarsi, lieto fine o esemplare punizione finale ed eventualmente giusto pentimento (o ipocrita, o infingardo: tanto non importa, anzi: chissenefrega, li mortacci). Mentre adesso il culto dell’italianità "a prescindere" ha trovato nuovi interpreti, con un successo di massa da lasciare storditi. Non è bastata – non poteva bastare? – la scrittura di Francesco Piccolo, nel saggio "L’Italia spensierata", per decodificare l’ideologia e la prassi di quello che allora era il duo trionfatore del film natalizio, Boldi-De Sica: ma la decifrazione d’autore consentiva di scorgere, nella pellicola delle festività, con i suoi "Natali a…", la trama di complicità fra gli attori, specialmente Christian, e il pubblico. Ammiccamenti, strizzate d’occhio, gomitatine. Anvedi. Nonché conseguente giustificazione e assoluzione dell’Italia più mediocre e ipermodernizzata, un caso inspiegabile di cosmopolitismo provinciale (o viceversa di provincialismo cosmopolita), ripreso nelle sue sguaiataggini e i suoi sonori "vaffa", che chiudono di solito una sequenza monca, quando non è venuta l’ispirazione per una battuta originale. Vabbè. Uno può evitare "Natale a Rio", e accettare sulla parola di Christian De Sica che questa volta Neri Parenti abbia fatto «un capolavoro di umorismo, di ritmo, di tempi comici». Salvo poi assistere alla duplicazione del cinema natalizio con il film della Candelora, in questo caso "Italians", regia di Giovanni Veronesi, in cartellone Verdone-Castellitto. Proprio così, un progetto pilota, "Italians" (ci sarà qualche problema di copyright con Beppe Severgnini, autore di un altro "Italians", sottotitolo "Il giro del mondo in 80 pizze"?). "Italians" sono gli italiani al tempo dei subprime. Precari sullo sfondo della catastrofe mondiale, dove può rifulgere di nuovo l’arte di arrangiarsi. E sarà giustificato il sospetto che di questi film non rimanga molto altro al di là delle due battute convenientemente montate nel trailer? Vediamo: di "Natale a Rio" resterà la spiritosaggine sulla "buzzicozza" e la "crasi", con i dovuti fraintendimenti e i soliti equivoci. «Quella è ‘na buzzicozza, buzzicona e cozza», spiega De Sica, sdraiato nella vasca. «Hai fatto una crasi», puntualizza il solerte e severo Massimo Ghini. Christian sembra perplesso: «Forse m’è scappata, ma non credo. E poi di solito fanno le bolle». Mentre di "Italians", immediatamente premiato da milioni di euro al botteghino passerà agli archivi la risposta di Castellitto, trafficante di auto di lusso, al bell’italiano Riccardo Scamarcio: «Le Ferrari non le ha mai rubate nessuno, le Ferrari sono di tutti, sono patrimonio dell’umanità!», citando anche l’Unesco. Per provare a districare l’italianità buona da quella meno distinta può venire buono il libretto curato da un esperto di industrial design, Giulio Bacchetti ("Italianità", con le illustrazioni di Alessandro Lecis e Alessandra Panzeri, edizioni Corraini di Mantova), che cataloga le "cose" italiane, come i "due spaghi" naturalmente da fare "aglio, olio e peperoncino", la colla Coccoina, la Moka Bialetti, le scarpe Superga, la bici Graziella, la Cedrata Tassoni e la Sambuca Molinari, ma anche simbologie inspiegabili come la "T" di Tabacchi e tracce inafferrabili come la striscia rossa dei calzoni dei carabinieri. Per la verità, anche i gorghi della memoria si prestano all’accusa del bamboleggiamento: cioè il gusto e il vezzo italianissimo del revival, del repêchage, del "karaoke dall’oltretomba", della sindrome "Anima mia", di cui sono stati ineguagliati interpreti Claudio Baglioni e Fabio Fazio. Quest’ultimo, ribattezzato con una quasi crasi "Fabiofazio", fatto a pezzi da Andrea Scanzi sull’ultimo numero di "MicroMega": «La sua calibratissima esegesi del paraculismo d’essai piace a grandi e piccini, guru e vestali. Di più: chi si azzarda a muovergli un minimo appunto, subisce la mitraglia della sinistra perennemente à la page: "Così fate il gioco della destra" (…) Fabiofazio non è un giornalista: è un sacramento. L’undicesimo comandamento del veltronismo»; ma ben prima liquidato dal suo acerrimo nemico intellettuale e concorrente televisivo Antonio Ricci: «Noi siamo diventati di sinistra perché avevamo professori di destra. Fazio è diventato di sinistra perché aveva professori di sinistra». E qui allora il gioco si fa duro perché si va al cuore della questione italiana contemporanea. E cioè, nell’epoca del politicamente scorretto, il trionfo del conformismo. Quell’atteggiamento che concede a Giulio Andreotti la palma dello humour, per quanto da parrocchia, a Berlusconi il primato di una esplosiva simpatia, a Veltroni la capacità di padroneggiare i sogni e l’immaginario. E sullo sfondo le impareggiabili maschere domestiche che rappresentano la superstizione, la bigotteria, il "parlar col prete" (anziché con Dio), la ricerca dell’alibi, principale malattia che qualche anno fa Julio Velasco, trainer indimenticato della Nazionale di pallavolo, imputava agli italiani non ancora divenuti "Italians". Infine quella ineffabile attitudine al lamento, che vira poi nella stoccata maligna, nel colpetto a tradimento, il "chiagni e fotti", in cui sono specialisti politici e preti specializzati negli scherzi, come pure centravanti e trequartisti, difensori e arbitri (ed è una disciplina in cui sembra eccellere, a dispetto delle smentite, Luca

Toni, viste le fotografie da Monaco con l’ex fidanzata di Boris Becker, Sandy Meyer Wölden: in genere gli attaccanti piangono sui gol mancati; nella vita privata, naturalmente, smentiscono e non mancano di fottere). Ma l’insopprimibile tendenza al conformismo, anzi, peggio, all’adorazione dei fenomeni di costume e d’artisticità che "piacciono perché piacciono", e quindi non possono non piacere, dev’essere davvero una caratteristica dolente del paese, in questi tempi di modernità idolatrica, tanto da avere suscitato la puntigliosa attenzione critica di Luca Mastrantonio e Francesco Bonami: che da Einaudi, luogo canonico del pensiero, hanno pubblicato un saggio molto prossimo all’iconoclastia, e anche oltre ("Irrazionalpopolare", dedicato a un «viaggio fra gli incomprensibili miracoli d’Italia»). Ora i miracoli censiti, in questa Lourdes o Fatima o Medjugorie "de noantri", possono andare da Andrea Bocelli che trionfa grazie all’alone del melodramma senza essere un tenore vero, secondo i migliori critici, al Federico Moccia di "Tre metri sopra il cielo", «pusher di puerilità»; da Beppe Grillo che banalizza la politica e la vita pubblica riducendola all’espressività del "vaffa" (e allora, se siamo in questo territorio semantico, perché non immaginare un "Natale con Grillo"?) fino a Maurizio Cattelan, idolo di una religione fantastica che lo ha reso «fenomeno di massa e da rotocalco». Così, per liquidare la cattiva italianità conviene andare a parlare con i maestri cattivi (da non confondere con i cattivi maestri). Purtroppo, anche i cattivi se ne vanno. Contro ogni tentazione o scivolata retorica era un maestro cattivissimo Dino Risi, autore dell’indimenticabile battuta contro l’ingombro di Nanni Moretti nelle inquadrature («Spostati, fammi vedere il film»). Oppure certe cattiverie magistralmente autoriali di Riccardo Muti, sottolineate dalla perfida nonchalance di chi tratta ogni giorno con Mozart e non può perdere tempo con il dibattito aperto da Uto Ughi su Giovanni Allevi. Finora si veniva accusati di molti peccati, a insistere sull’incredibilità di certi fenomeni del gusto e sull’impresentabilità di certi protagonisti della scena: sospetti di intellettualismo, azionismo, distanza dal popolo, cerebralità, snobberie. Eppure, basta qualche passaggio su Facebook e sui blog per accorgersi che la cattiva italianità si nutre di linfe profonde, con radici che risalgono alla scuola elementare, alla perdita di una sintassi, una grammatica, un’ortografia. Sicché invocare il successo di massa come giustificazione al cattivo gusto, e argomentare i grandi numeri come ragion culturale sufficiente è una spiegazione contraddittoria. Non si può dire "lassatece puzzà", come segno di una condizione peculiare di brutti, sporchi e cattivi che godono della loro specificità, e poi finire omologati nel calderone mondiale di Stephenie Meyer di "Twilight", con i suoi vampiri da supermercato. A occhio e croce, nel crepuscolo della Penisola, l’italianità è ancora tutta da fabbricare.

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