Come ci si trova, a 43 anni, a dirigere la casa editrice di Benedetto Croce? Bisogna chiederlo all’erede di Vito, cioè a Giuseppe Laterza, universalmente detto Pepe. Responsabile della "varia" (come si dice in gergo per distinguere la saggistica dallo scolastico), di una delle più canoniche case editrici italiane. Una tradizione pesante alle spalle. E un mestiere ereditario per uno che in una vita parallela dice che avrebbe fatto volentieri il dj (in casa ha un mixer semiprofessionale); e che di tanto in tanto si fa prendere dalla frenesia del ballo: come all’ultima Fiera di Francoforte, quando è capitato a una festa di Seuil, e si è scatenato. Laterza, una volta gli editori non si comportavano così. Erano principi o monaci. «Non sono un editore da oleografia, con la missione sempre in testa. Appena posso esco con le bambine, per correre insieme al cane. Un po’ di tennis, qualche romanzo. E non era scritto nel destino che sarei diventato un editore. Anni fa c’erano altri richiami: la politica, la ricerca economica». Lei in politica? Ma non era predestinato all’azienda di famiglia? «Andavo al liceo Tasso, scuola politicamente calda di Roma, non solo pariolina. Erano egemoni Lotta continua e il Movimento studentesco: io mi sono iscritto alla Fgci, con Veltroni segretario della Federazione giovanile romana». Molto convenzionale, molto istituzionale, molto da classe dirigente in pectore. «Se è per questo, fin da allora ero "quel socialdemocratico di Laterza". La politica mi interessava perché per carattere il mio modo di ragionare si sviluppa nel confronto. Non mi va di meditare in solitudine». E il Pci in quel momento era la parte giusta. «In verità, alle soglie dell’università ho mollato. Volevo occuparmi di storia economica, mi sono iscritto a economia, e ho incontrato Federico Caffè, con cui più tardi mi sono laureato». Ma la politica ha rifatto capolino alla svelta. «Nel ’77, con la contestazione di Luciano Lama da parte degli autonomi. Ci si chiede come reagire all’autonomia. Allora entro nella sezione universitaria del Pci, dove c’è un bel gruppo di "figli di": Jolanda Bufalini, Franca Chiaromonte, Guido Ingrao, Laura Pecchioli, Pietro Reichlin, Antonia Trentin». Quanto all’essere "figlio di", neanche lei scherzava. «Gliel’ho detto, in quel momento le carriere non erano programmate. Che io sappia, a parte Franca Chiaromonte, nessuno è rimasto in politica». Mentre lei nell’editoria c’è entrato, e dalla porta principale. Se ne occupava già allora? «Andavo ogni anno a Francoforte con mio padre. Studiavo parecchio, e mi sarebbe piaciuto restare nella ricerca, ma ero impaziente nei passaggi analitici e tendevo a saltare velocemente alle conclusioni. Nel frattempo mio padre ha convinto me e mio cugino Alessandro, che adesso è amministratore delegato dell’editrice e si occupa dello scolastico, che si può produrre cultura fuori dall’università». Vito è stato un padre ingombrante? «Rappresenta la parte razionalista della famiglia. C’è anche un ramo meno prevedibile, quello di mia madre, che viene dai Chiarini, una famiglia fiorentina che ha spaziato dal circo al cinema. Con tutto il suo rigore, mio padre non ha mai imposto nulla. Tant’è che mio fratello Federico è diventato musicista, abita sul lago di Bracciano, vive di musica jazz. È lui che ha ereditato il Dna della famiglia materna. Mio padre invece è sempre stato razionale, un salveminiano, un liberale di sinistra, affezionato alla sua figura di editore delle pubblicazioni degli Amici del "Mondo"». Non avrà imposto nulla, ma diciamo che è riu-scito facilmente a portarla nella casa editrice. Preparando la successione in famiglia. «Sono entrato nel 1980, e sono stato spedito in redazione. Training dal basso. Poi tre anni all’ufficio stampa. Come redattore non ero il massimo; i libri mi piaceva soprattutto progettarli». L’hanno mai guardata come il figlio del padrone? «Appena entrato, legato com’ero alla mia cultura di sinistra, partecipavo perfino alle assemblee sindacali. Ho smesso perché era buffo, ma mi sono liberato presto del problema del nome. Semmai, ho sviluppato l’aspetto collegiale della casa editrice, in un rapporto stretto con i redattori». Quali sono stati i suoi primi interlocutori, nell’ambiente culturale? «Sono numerosi, ma quelli con cui si è sviluppato immediatamente un rapporto sono stati Andrea Giardina, l’antichista che ora è sulla cattedra di Santo Mazzarino, e Andrea Boitani, economista della Cattolica a Milano». C’erano degli incontri formali con i consulenti? «No, non abbiamo mai avuto comitati di lavoro. C’erano persone particolarmente vicine, che offrivano un contributo assiduo. Lucio Colletti e Tullio Gregory per la filosofia, oltre naturalmente a Eugenio Garin, che era stato il maestro di mio padre. Per la storia contemporanea Rosario Villari, Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto. Tullio De Mauro per la linguistica. E poi altre figure, che non erano consulenti veri e propri ma il cui parere era prezioso: Paolo Sylos Labini, Nello Ajello, Leonardo Benevolo. Sulla storia medievale Jacques Le Goff e Georges Duby ci hanno seguito da vicino». Lei è la negazione vivente della ribellione contro i padri. Non c’è mai stata nemmeno un’ombra di competizione con Vito? «Discussioni sui programmi, sui titoli, sulle scelte, sempre; ma scontri veri e propri mai. Quando non era convinto di un progetto, alla fine concludeva: "Se ci credi, vai avanti". Cioè prenditi le tue responsabilità». E lei se le è prese. Assistente della direzione, direttore generale con Vito amministratore delegato… «Finché mio padre e suo fratello Paolo hanno lasciato tutte le cariche e siamo subentrati nel consiglio d’amministrazione io e Alessandro. Un cambiamento significativo perché mi ha portato a occuparmi del mercato e dei costi, a misurare le idee con i conti». È cambiato anche il privato? «Avevo avuto le normali passioni della mia generazione. Leggevo i manoscritti, ma mi concedevo gli Stones, Eric Clapton, i Credence, i Jethro Tull. Di recente sono stato con le bambine ai concerti di Jovanotti, delle Spice Girls, di Zucchero». Casa e famiglia. O meglio, casa editrice e famiglia. «Troppo inquadrato, dice? Il contrappeso è mia moglie, con il suo carattere imprevedibile. Per una napoletana come lei, l’unica concessione alla tradizione è la pizza della domenica sera: la prepara, e tutti insieme la mangiamo guardando una cassetta in tv. Il film più visto degli ultimi anni è "La vita è bella" di Roberto Benigni. E anche "Quattro matrimoni e un funerale", perché ho una passione per la campagna inglese». Eccolo, il borghese perfetto. Ma che tipo di editoria aveva in mente, quando è arrivato al vertice? Laterza è stata identificata a lungo come l’espressione di una sinistra "ufficiale". «E si sbagliavano. Abbiamo pubblicato Hobsbawm e De Felice, un socialista non pentito e il primo dei revisionisti. Non ci sono mai stati recinti. Forse mio padre non avrebbe pubblicato, che so, il libro di Marcello Veneziani "Comunitari e liberal", perché Veneziani è un intellettuale esplicitamente di destra: da parte mia qualche pregiudizio è caduto, altrimenti non avremmo deciso di pubblicare il pamphlet di Gianfranco Pasquino "Critica della sinistra italiana". E neanche l’intervista a Di Pietro di Giovanni Valentini, dato che nei salotti il nome dell’ex piemme è impronunciabile». Tutti gli editori si nascondono dietro qualche libro non ortodosso. «Ma alla fine la figura dell’editore conta, nella varietà dei programmi, nel tentativo di dare un’impronta di cultura moderna. Abbiamo appena pubblicato un saggio di Sylos Labini sullo sviluppo, molto in linea con la tradizione laterziana. Ma a gennaio uscirà un libro di Paolo Mastrolilli, il corrispondente di "Avvenire" da New York, che è la storia di due hacker. E poi un saggio di Silvano Serventi e Françoise Sabban sulla pasta. Anni fa non l’avremmo neppure pensato». Che cosa sono, episodi di ricreazione dalla politica? «Sono episodi del tentativo di combinare una dimensione italiana con quella internazionale». Con la pasta? «Con un saggio sulla cosa più italiana che esista, scritto da un italiano che sta a Parigi e da una sinologa dell’École des Hautes Études. Dai tempi della "Storia delle donne", curata per noi da Duby e Michelle Perrot, la fisionomia europea della casa editrice è molto cresciuta. Il pubblico è cambiato, le culture si sono diversificate. Conta la curiosità, la percezione di interessi che si rinnovano». E quindi addio ai messaggi politicamente corretti. «Oggi le militanze editoriali non avrebbero senso».
30/11/2000