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Io secchione? Piuttosto un bobbista

02/11/2000

Il ministro giovane dice: «La mia è una storia normale», e non abbassa gli occhi di fronte a un’ombra di incredulità. Insiste minimizzando: «Solita trafila, la parrocchia, l’Azione cattolica, la politica negli organi collegiali della scuola». Benissimo, ma allora come si spiega la carriera di uno che a 34 anni regge il timone di due ministeri, l’Industria e il Commercio estero, e ora si trova ad affrontare anche le bufere dell’Umts? Enrico Letta, classe 1966, ha una buona e classica famiglia alle spalle: papà Giorgio, accademico dei Lincei, ordinario di matematica, venuto via da Avezzano per studiare e poi insegnare a Pisa. La mamma, una sassarese emigrata sotto la Torre per studiare, e un fratello minore che promuove l’università. Mentre a Roma tesse le sue reti il Letta storicamente più famoso, cioè lo zio Gianni, il gran diplomatico del Cavaliere («Polo o no, con lui ho sempre avuto un rapporto importante»). Nel suo mini romano, dove abita dopo la fine di un matrimonio tormentato dalla politica, libri dappertutto. Non solo saggistica: «Letture un po’ casuali: mi piace Andrea De Carlo, leggo volentieri Montalbán, sul comodino ci sono le "Memorie di Adriano" della Yourcenar. Ultimamente ho scoperto Eric Ambler, "La maschera di Dimitrios"». Sotto la tv si intravede la videocassetta di "Mediterraneo" di Salvatores: «Ormai usurata: l’avrò vista 20 volte, è una storia che mi prende sempre». Di storie ci interessa la sua. Anche perché non ci sono in giro troppi ragazzini con una simile carriera alle spalle. «Non mi dia del secchione. Non sono mai stato uno studente fuoriclasse. Cinquantaquattro alla maturità, un 110 e lode in Scienze politiche nella Scuola Sant’Anna, strappato a fatica, perché partivo da 102. Risultati medio-alti ma non eccelsi. Fra l’altro, non sono ancora riuscito a concludere il dottorato di ricerca, su Maastricht: tutto fermo da quando mi hanno dato le Politiche comunitarie». Studi a parte, l’Enrico Letta politico nasce giovanissimo: la vocazione era precoce. «Ho cominciato nei primi anni Ottanta, al liceo. Credo che lì si trovi l’embrione della mia posizione attuale. Perché allora la divisione era semplice: da una parte c’era la sinistra, dall’altra i cattolici. Noi però eravamo in collegamento con l’Azione cattolica ambrosiana: in opposizione alla sinistra, ma anche con una netta separazione da Comunione e liberazione». Fin qui è una storia qualunque. Dove scatta il cambio di velocità? «All’università, e subito dopo. Fra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi Novanta, mi ritrovo nelle organizzazioni europee della Dc, ed è una buona scuola. Nascevano i partiti europei, c’era la grande ispirazione cattolica e socialista di Delors, un clima in cui si avvertiva l’Europa nascente. Un po’ per caso, per assenza di concorrenti, divento anche presidente dei giovani Popolari europei». Che effetto faceva, a poco più di 20 anni, il mondo visto da Bruxelles? «Un’esperienza colossale. Incontravo figure di riferimento come Kohl, Maertens, Lubbert. E ho potuto osservare più distintamente la crisi della Dc. All’inizio sembrava che Martinazzoli potesse farcela: Kohl aveva investito su di lui, era convinto che la tenuta della Dc fosse essenziale nel momento in cui decollava Maastricht. E io rischio addirittura di diventare il segretario generale del Ppe, quello che adesso è coperto da Alejandro Agag. Era in scadenza il mandato di Thomas Jansen, e Kohl si rivolse a Mino: "Indica uno dei tuoi. Ma che non sia uno dei vecchi". Martinazzoli fa il mio nome, la candidatura viene anche formalizzata, ma nel frattempo tracolla la Dc, e addio». Avviene negli organismi europei l’incontro politico della sua vita, quello con Nino Andreatta? «Sì, Andreatta lo incrocio a Bruxelles. Con il suo tipico modo di fare, con la sua nonchalance mi invita a lavorare all’Arel: "Letta, perché non fa una ricerca…". Tutto vaghissimo, ma Andreatta è uno choc intellettuale. Innanzitutto per la sua diversità rispetto agli altri dc. Per la sua dimensione etica, ma soprattutto per un disinteresse profondo per la politica e un’attenzione invece assidua alle "politiche". Un gusto anglosassone, ma tutt’altro che accademico. Andreatta poi è decisivo perché mi apre le porte dell’economia. L’Arel è una rete di incontri: con Angelo Tantazzi, Fabio Gobbo, lo stesso Romano Prodi. E sul piano personale soprattutto con il figlio di Andreatta, Filippo, anche lui attivo dalle parti del Ppe, con cui si sviluppa una grande amicizia e una discussione continua». Andreatta nel 1993 va al Bilancio e la chiama come assistente. Ma siamo ancora lontani dalle stanze del potere vero. «Quando Andreatta passa agli Esteri lo seguo, ed è un anno straordinario. Capirà, c’era di mezzo l’applicazione di Maastricht. Poi arriva Berlusconi e io ricomincio a pensare a me stesso. Nel 1996 mi trovavo con le valigie in mano, pronto a passare un anno alla London School of Economics, ma mi chiamano al Tesoro, nel comitato per la transizione all’euro». E poi dice che non è un secchione. Mentre i suoi coetanei fanno i giovani a vita, lei fa il lavoro oscuro dentro il Palazzo. «In realtà non mi sono mai negato qualche divertimento generazionale. I concerti rock, se capitava. Ho rincorso qua e là Elio e le Storie tese. Anche se il mio preferito è Francesco De Gregori, così rigoroso e sentimentale allo stesso tempo. Ogni tanto metto su i Dire Straits, per risentire la chitarra di Mark Knopfler, i Supertramp di "Breakfast in America"…». Quanto a sport? Trova il tempo per praticarne qualcuno? «Gioco a tennis, ho una grandissima passione per il basket, faccio windsurf…». Non insista: secchione sotto tutti i profili. «Mica tanto. Mi piace cucinare, cucina mediterranea, ma non le imporrei mai una cena preparata da me. Perché anche in cucina e nello sport ciò che conta sono i risultati. Dopo l’istituzione della sede milanese dell’Industria abbiamo festeggiato sfidando a calcetto il Comune di Milano, squadra mista di assessori e consiglieri. Partita al Palalido, dignitosa sconfitta per 5 a 3». Una vita da mediano? «Con tutto il rispetto per Oriali e Ligabue, io sono milanista: una fede nella memoria di Rivera, nel culto di Van Basten, nell’ammirazione per Paolo Maldini. Il calcio non è la politica, e Forza Milan non è un partito di destra». In politica, invece, passaggi rapidi: vicesegretario del Ppi di Marini, in chiave ulivista. «E proprio qui comincia l’ultima avventura sportiva, il bob». Non mi dica, anche il bob. «È una metafora. Avrei potuto citare "Blade runner", il mio film preferito. In sostanza parte una corsa che non sono più in grado di frenare. Allorché Prodi cade, e io penso anche adesso che sia in negativo l’avvenimento cruciale della legislatura, D’Alema recupera all’ultimo giro tre ministri di area ulivista: Micheli, De Castro e il sottoscritto. Ma si tratta delle Politiche comunitarie, qualche cosa che rientra nelle mie competenze. Invece nel dicembre ’99, con il D’Alema bis, quando D’Antoni rifiuta il ministero di Bersani, l’Industria la offrono a me. Provo a prendere tempo, ma a un certo punto l’unica resistenza sarebbe stata quella di non giurare. Il bob ormai è troppo lanciato». Che cosa fa un giovane bobbista schierato in una corsa più veloce di lui? «Si sente tremare le vene e i polsi. L’unica è arrotolarsi le maniche. I miei amici, Tantazzi, Onofri, Gobbo, mi danno una mano. Scambio idee con il garante dell’energia, Pippo Ranci, parlo appena posso con Mario Monti, che conoscevo bene perché circolava spesso all’Arel. Al Tesoro c’è Amato, un altro allievo della Scuola Sant’Anna di Pisa. Di grande aiuto è l’esperienza fatta all’Arel due anni prima, con ricerche sulle privatizzazioni del settore elettrico, del gas, dei servizi pubblici locali. Mi chiudo in casa, e a cavallo fra Natale e l’Epifania come un disperato». Fra cinque mesi il bob si ferma. Che cosa c’è dopo la fermata? «Non ho mai chiesto niente, le cose mi sono sempre cadute addosso. Una vita di corsa implica anche rinunce, solitudini, affetti trascurati. E poi, a questo punto c’è un problema che trascende ampiamente la mia persona, ed è la sorte del centrosinistra. Vede, io ho un vecchio rapporto con i Democratici americani. Ero alla convention del Madison Square Garden nel 1992, insieme con Veltroni e Parisi. Le mie ultime vacanze estive le ho fatte a Los Angeles, sempre alla convention dei Democratici. Dagli americani ho imparato che oggi non serve a nulla guardarsi indietro, per dimostrare quanto si è stati bravi. Bisogna puntare sul futuro, sui programmi, sugli obiettivi. Forse Rutelli lo ha capito, ma chissà se l’ha capito il centrosinistra. Se non lo capisce, perde. Pessima cosa per l’Italia attuale». E per lei? «Mal che vada, io ho sempre una tesi di dottorato da finire».

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