A passeggio per piazza Sordello a Mantova, un vecchio marxista può permettersi civetterie inattese: «Questa è una città ricca, ma non ricchissima. Non c’è un negozio di Ferragamo, al massimo c’è Emporio Armani». Sorpresa: la merce non è solo feticcio, e un materialismo eterodosso può fare i conti con l’economia della griffe. Eppure Eric J. Hobsbawm, 83 anni, un successo mondiale a metà degli anni Novanta con "Il secolo breve" rifiuta senza esitazioni l’etichetta dell’eterodossia. E insiste e scandisce: «Per me il pensiero di Marx è stato una guida nella ricerca, perché stabilisce un punto di vista e un ordine di priorità nello studio dei fenomeni storici. Sarebbe miope cercare di inquadrare la vicenda della seconda metà del Novecento, che so, attraverso l’analisi delle strutture familiari». E allora, tutto il diluvio di approcci sociologici? La storia anonima, la storia sociale, la storia delle mentalità? «Benissimo, ma il marxismo possiede un vantaggio implicito: riconosce la multidimensionalità della vita umana. Mentre fissa una gerarchia, si rivela duttile, articolato, complesso». Sta’ a vedere che potrebbe esserci un futuro, per il socialismo, a dispetto dell’egemonia del pensiero unico: anche nella conclusione del "Secolo breve", Hobsbawm scriveva che il compito centrale all’alba del nuovo millennio non è di esultare davanti al cadavere del comunismo sovietico, ma di aggredire i difetti intrinseci del capitalismo. Che cosa implica all’atto pratico, un lavorio critico dall’interno o una suggestione romantica di superamento del sistema di mercato? «Nessun romanticismo. Dobbiamo considerare che l’idea, sacrosanta, del cambiamento della società è stata alterata dal conflitto ideologico. Abbiamo attraversato un secolo di guerre di religione laiche, se è lecita questa espressione, che hanno deformato le interpretazioni. Bisogna tornare alla radice del problema, senza preconcetti». Però non vorrà negare che il confronto tra sistemi c’è stato, c’è stato il conflitto geopolitico, c’è stata la guerra fredda. «Sono stati plasmati due modelli contrapposti, l’economia socialista e l’economia di mercato, ma il capitalismo non era e non è un blocco unico. L’Austria liberaldemocratica era un paese più statalizzato dell’Ungheria comunista. La separazione era tutta politica. Adesso la cortina di ferro è caduta, ma proprio perciò la combinazione di Stato e mercato si può riconoscere più facilmente. Sottolineo la varietà dei capitalismi per uscire dal fondamentalismo teologico del mercato puro, dal dogma della mano invisibile: in realtà c’è sempre una combinazione di elementi. Sicuramente non avremo più economia senza mercato. Ma neanche mercato senza politica. La possibilità dell’azione politica si esplica proprio sul crinale fra l’economia di mercato e l’azione pubblica». Vuol dire che potrebbe tornare un revival socialista? Curioso, anche François Furet, dopo avere sottoposto ad autopsia l’idea comunista, concludeva "Il passato di un’illusione" scrivendo che la democrazia, con la sua sola esistenza, «fabbrica il bisogno di un mondo che venga dopo la borghesia e il capitale». Non sarà che il revisionismo più radicale conduce di nuovo dalle parti dell’utopia? «Furet era un grande ideologo, ma anche uno storico eccellente. Noi possiamo constatare facilmente che la maggioranza dell’umanità non decide, bensì subisce le decisioni. Senza un’utopia concreta, senza il "principio speranza" di Ernst Bloch, rimane solo un orizzonte di incertezza. Nell’Ottocento e nel Novecento, attraverso gli ideali politici si creava anche la fiducia nello strumento politico, in un’organizzazione capace di approssimare l’ideale». Ma sono gli unici a promuovere il cambiamento. Non sarà che il tramonto delle visioni rivoluzionarie ha svuotato anche i partiti di ispirazione cristiana e liberale? Di più, che anche le socialdemocrazie abbiano perso spessore, dal momento che la loro forza consisteva in una risposta riformatrice alla sfida comunista? «Proprio così. Dietro il vecchio ideale del liberalismo, nell’Inghilterra dell’Ottocento, c’era un ideale di fratellanza tra i popoli e di pace universale fra le nazioni. Oggi, la visione del liberismo fondamentalista non ha dietro di sé una vera utopia. La felicità come sottoprodotto della crescita economica non può mobilitare le coscienze». E allora "what is left", che cosa rimane, e che cosa rimane a sinistra: la Terza via di Tony Blair e del suo guru Anthony Giddens? «La Terza via è solo un concetto topografico. Un tenue alone di sinistra permane, poiché i blairiani hanno coscienza che non c’è solo il capitale e la crescita, e che i problemi sociali rimangono. Ma la Terza via non è una politica». Ciò nonostante un realista si chiede se sia meglio vincere le elezioni con Blair o perderle con manifesti di purezza ideologica. «Meglio attrezzarsi per vincerle con una politica coerente. Da subito il programma del New Labour si è concentrato su un solo punto: la rielezione». Un’ambizione naturale e legittima per qualsiasi partito: anzi, a suo modo una legge della politica. «Certo, tutti i poteri tendono a diventare permanenti, e la struttura democratica si preoccupa di rendere questa ambizione impraticabile. Ma i grandi governi riformatori, quelli che hanno inciso davvero sulla società, hanno avuto un progetto, lo hanno realizzato, e quando sono caduti il progetto non è morto. I laburisti di Clement Attlee, nei due anni dopo il 1945, hanno gettato le basi della vita nazionale per quarant’anni». Venne definito un programma "ciclopico" di nazionalizzazioni e di servizi sociali. Qualcosa che adesso verrebbe giudicato un incubo statalista. Ci sarebbe da chiedersi oltretutto se lo schema dell’impatto dei governi sulle strutture sociali vale anche per la contro-riforma di Margaret Thatcher. Come risposta, un sogghigno: «Il problema della Thatcher è che il suo progetto è riuscito in modo eccessivo». Eh sì, la Lady di ferro che diceva: «Quella cosa chiamata società non esiste». Una tesi socio-politica rivelatasi profezia, dato che la dimensione collettiva sembra evaporata dalla vita pubblica. Mentre le principali esperienze politiche del Novecento ponevano l’accento sulla politica di massa, oggi prevale un modello comportamentale tutto basato sull’individualismo. «Il tema cruciale dell’età contemporanea è che dietro la superficie dell’individualismo c’è la sostanza della società del consumo. Però così si rischia di sostituire al cittadino il cliente del supermercato. Questa è la distruzione della dimensione sociale dell’uomo. È vetero-socialismo sostenere che la disgregazione dei sistemi sociali crea incertezza e demoralizzazione? So bene che il miglioramento economico è stato straordinario: l’Italia è irriconoscibile per chi la ricorda com’era negli anni Cinquanta. Ma tutto ciò ha corroso i legami sociali. Abbiamo perso le vecchie carte per navigare, e non sappiamo dove andiamo». "Il secolo breve" si concludeva con un richiamo al ridisegno delle mappe, per non rischiare il buio. Nel suo ultimo libro Hobsbawm parla invece di gente «ai margini della storia»: si risentono gli inni del Primo maggio, ma anche il sound delle orchestre di Count Basie e di Duke Ellington, il sassofono di Sidney Bechet. Perché non c’è solo l’ideologia, nella storia non ci sono solo i testi sacri: c’è anche l’esperienza viva di ciò che è popolare. La scommessa è che il popolo esista ancora, anche se non lotta più: ci vuole la tenacia dello storico per immaginare un nuovo ciclo collettivo, sotto questi cieli. Insomma, l’ottimismo di un uomo che ha scavalcato il secolo breve, e non vuole restarne prigioniero: forse, dell’ultimo socialista.
05/10/2000