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Non ci resta che il referendum

27/04/2000

«È una sconfitta che viene da lontano. Prevedibile, anche se adesso diranno che col senno di poi è facile dare giudizi. Ma soprattutto è la prova che non tutto si può risolvere con il professionismo politico, con la tattica, con le furbizie». Michele Salvati, una delle anime liberal dei Ds, alterna lucidità nell’analisi e scoramento intellettuale di fronte allo sfondamento del Polo alle regionali. Vuole dire che l’insuccesso del centro-sinistra il 16 aprile era inevitabile? «Il senso di questo risultato non si capisce se si guarda solo al mancato happy end. Occorre considerare che l’eccezione vera, autentica, nella vicenda politica italiana fu il 1996, cioè la vittoria di Prodi e dell’Ulivo. D’Alema ha ragione a rivendicare quell’esito come il proprio capolavoro. Era riuscito a dividere il blocco di centro-destra, a partire dal ribaltone, e quindi a indebolire il campo avversario. Inoltre l’invenzione del-l’Ulivo aveva mobilitato risorse nella società. Un miracolo. Ma le eccezioni, come i miracoli, hanno la pessima tendenza a non ripetersi». Per questo lei si aspettava la botta? «C’è quel proverbio anglosassone secondo cui si può imbrogliare una persona cento volte, o cento persone una volta, ma non cento persone per cento volte. Il che significa, tradotto nella politica di casa nostra, che dopo avere sconfitto Berlusconi e il Polo grazie a una superiore capacità di interpretare la legge elettorale e la logica di coalizione, desistenza con Rifondazione comunista compresa, quelli del centro-destra hanno imparato il metodo. Giulio Tremonti ha ricucito con la Lega, sono stati fatti accordi con Pino Rauti…». Solo un problema di ingegneria politica? «Sono stati commessi errori, anche gravi. Dal punto di vista della strategia si è lasciato passare troppo facilmente il ricongiungimento della Lega con il Polo». Forse non era politicamente decente recuperare il Bossi come "costola della sinistra". «Non era necessario cercare un accordo a tutti i costi. Occorreva la capacità politica di inserirsi fra la destra e Bossi, attraverso programmi e provvedimenti politici che qualificassero il centro- sinistra mostrando la strumentalità del corteggiamento forzista». Significa che occorreva sfidare la Lega sul piano dei contenuti? «Proprio così. Era opportuno pagare un prezzo in termini di federalismo. Se il centro-sinistra fosse stato capace di mostrare originalità sul piano istituzionale, sarebbe stato molto più complicato per la Lega scegliere "Berluskaiser"». Probabilmente a sinistra si pensava che la Lega fosse una forza residuale. «L’errore principale è consistito nel pensare, in modo ultra-razionale, che l’ingresso nell’euro e la prospettiva dell’unificazione europea togliessero di mezzo il problema della Lega. Bisognava capire che la politica italiana è composta da due blocchi cristallizzati, e che ogni tassello che una parte riesce ad aggiungere può costituire un vantaggio irrecuperabile». Quindi D’Alema ha commesso un errore di sottovalutazione. «Probabilmente si è convinto che bastasse un’idea di buon governo, il prestigio recuperato sul piano internazionale, il via libera dell’establishment, a trasmettere un messaggio capace di creare consenso generale. La sottovalutazione consiste nel non avere circoscritto problemi specifici. Per esempio, nel non avere saputo guardare al Nord. Il che implicava un progetto esplicito di decentramento, l’avvio di un programma di grandi opere infrastrutturali, l’identificazione del problema della sicurezza dei cittadini». Può essere che il presidente del Consiglio non avesse fiducia nella propria maggioranza? «D’Alema ha pagato tutti i pedaggi possibili all’"ottobre nero" del 1998, quando fu liquidato Prodi. È in quel momento che si esaurisce la spinta riformista del centro-sinistra. Ma si erano perse occasioni significative anche in precedenza: il lavoro compiuto dalla commissione Onofri sulla riforma dello Stato sociale era finito nel cassetto. Vale a dire che un intelligente programma di ristrutturazione del welfare è stato lasciato cadere». C’era di mezzo il rapporto con il sindacato. «Lo showdown con il sindacato doveva essere fatto nel primo anno di legislatura, in modo da affrontare il conflitto da posizioni di forza. Adesso è tardi». Quali chance rimangono al centro-sinistra, ammesso che si arrivi alla fine della legislatura? «Qualche spazio c’è ancora, ma è sempre più risicato. Bisognerebbe produrre iniziative politiche di forte effetto simbolico. Un intervento secco sulle telecomunicazioni, con la privatizzazione almeno parziale della Rai. Una politica nitida nei confronti di quei segmenti di settore pubblico che bloccano la vita del paese come nei trasporti. Invece ci sono timidezze: anche l’ultima legge sugli scioperi pubblici, pur essendo un passo nella direzione giusta, debole». Ma si può fare in un anno ciò che non si è fatto in quattro anni? «È difficile, ma l’alternativa è l’inerzia. Quando si perde emergono immediatamente due linee: ci sono quelli che dicono che si è stati sconfitti perché non si è stati abbastanza riformisti, e quegli altri che sostengono che non si è stati abbastanza socialisti, e che si è persa identità. Se aggiungiamo che nella maggioranza la componente centrista è particolarmente friabile, le difficoltà vengono fuori tutte». È uno scenario da incubo. Viene da chiedersi se in questo incubo D’Alema avrà un ruolo. «La domanda brutale è se D’Alema ha ancora qualche carta come leader dello schieramento di centro-sinistra. Con il realismo che anche il presidente del Consiglio apprezzerebbe, si può rispondere dicendo che lo scontro fra Berlusconi e D’Alema lo abbiamo già visto. È avvenuto il 16 aprile, ed è finito come è finito. Credo che si stia completando un processo di ricomposizione del sistema politico, che ci riporta tendenzialmente al periodo precedente gli anni Novanta». Si è persa un’occasione storica? «Per adesso possiamo solo riscontrare che la debolezza di D’Alema sul piano pubblico non significa che qualcun altro possa fare meglio nel confronto con il centro-destra. Non è detto che con qualcun altro come candidato premier si vada a vincere facilmente. L’occasione storica era quella di fissare in modo permanente la coalizione, l’Ulivo, per sottrarre il paese a una fatale antropologia moderata. Questa occasione è stata persa, anche se potremo assistere a rilanci e a promesse di resurrezione ulivista». Sono illusioni? «Peggio, potrebbero essere illusionismi. Al centro-sinistra rimane una sola carta da giocare, quella del referendum elettorale del 21 maggio. Perché se si sbriciola lo schema bipolare e salta il confine con il centro, la partita è finita. Dunque, D’Alema deve aggrapparsi alla zattera del referendum, con tutti i rischi che questo comporta. Perché in un sistema bipolare D’Alema può perdere ancora. Ma, in un sistema neo-proporzionale, D’Alema è condannato alla sconfitta. Ritorneremmo nel bipartitismo imperfetto, con una simil-Dc eternamente centrale, e un post-Pci di nuovo ai margini. Con tanti saluti non solo all’ipotesi di una sinistra competitiva, ma anche all’idea di un paese capace di modernizzarsi in modo decoroso».

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