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Peggio le tribune d’onore o le curve degli ultrà?

09/03/2000

Damiano Tommasi, centrocampista della Roma, la mette sull’"I have a dream": «Vorrei vedere due squadre, insieme al centro del campo, vincitori e vinti ugualmente sereni, salutare il pubblico al triplice fischio come si usa in qualsiasi teatro alla fine dello spettacolo». Purtroppo non è possibile. Perché anche il calcio, come potrebbe dire un grande antropologo come Clifford Geertz, è l’esatta e imbarazzante riproduzione del conflitto fra mondo globale e mondi locali. Nella realtà mondializzata e interdipendente, nell’universo della new economy, il calcio infatti è un tassello della megamacchina, materiale per il trattamento mediatico, dove non importa se sei bianco e tendenzialmente coatto come Totti, nero e bionico come Davids, giallo e sponsorizzato come Nakata. In questo dominio della tv analogica e digitale, le differenze etniche e culturali sono svanite. Si archiviano facilmente le magliette pro Milosevic del serbo Mihajlovic così come le trovate umanitarie di Batistuta per il bambino malato e tifoso. Ma si dà il caso che l’iper-calcio attuale conviva con il tifo razzista degli ultrà, con le croci runiche, con il razzismo delle curve, con la richiesta di forni crematori per gli ebrei o di colate laviche per le squadre del Sud. Dove il lessico dominante è davvero quello dell’allenatore del Bari Eugenio Fascetti, che attacca i "negri" che sputano in faccia agli avversari sangue potenzialmente infetto, e dove il rumore di fondo è dato dai cori dei laziali contro il "negro" Van Gobbel del Feyenoord. Razzismo? Sì, ma più che altro come scontro di fazioni. Il nostro "negro" è un prodigio di classe, di fisicità, di dinamismo creativo: il vostro è un intruso, sporco e magari portatore di retrovirus. Quindi i decreti governativi contro gli striscioni razzisti sono un palliativo pedagogico. Perché come a suo tempo l’antisemitismo era il socialismo degli sciocchi, l’indecenza intollerante dei "buuuh" dà voce a un residuo di vocazione tribale, in cui si esprime l’ultima e distorta appartenenza comunitaria. Mentre le squadre diventano compagnie di mercenari, la sola identità calcistica residua è quella del tifo organizzato e haiderizzato. Dato che non è possibile abrogare il mercato, non sarà meglio abrogare i tifosi? Perlomeno bisognerebbe uscire dall’equivoco delle tribune piene di establishment e delle curve popolate di clan incanagliti: senza che l’élite politico-economica si ponga il problema che con la sua presenza nei posti d’onore, in fondo, possa legittimare i comportamenti di quelle tribù.

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