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Giovani soli, senza padri né utopie

17/02/2000

Se qualcuno ha in mente le tradizionali organizzazioni giovanili di estrema destra, lasci perdere: esisteranno ancora giovani inquadrati in formazioni politiche legate ai partiti di destra, o attivi in qualche esoterico gruppo dell’antagonismo noir; ma per identificare l’immagine contemporanea del "giovane di destra" conviene dimenticare il mondo politico ufficiale e mettere sotto osservazione i comportamenti diffusi. Oggi infatti la partecipazione a esperienze politiche è un fenomeno minoritario, dal momento che sfiora meno di un quarto della popolazione fra i 18 e i 29 anni. Anzi, la prima ragione per cui una parte del mondo giovanile può essere definita tendenzialmente "di destra" deriva dal fatto fisiologico che si è molto attenuata la partecipazione a esperienze che plasmavano alcuni momenti della crescita personale e che erano riferibili a una cultura di sinistra; e che nella vita quotidiana, nelle scuole, nelle università, nel lavoro, la rivendicazione di appartenenza progressista non è più una distinzione qualificante. Al massimo, gli intellettualini di sinistra riappaiono nelle occasioni canoniche, cioè nelle occupazioni o nelle autogestioni scolastiche, di solito esponendo un pensiero "new age" contro la globalizzazione, il mercato, il privato (e forse senza accorgersi che contro il tardissimo capitalismo una certa destra funziona altrettanto bene della sinistra, De Benoist come Alain Caillé). Ma la tendenza non è lì, la vita reale è altrove. La tendenza va individuata ad esempio mettendo a fuoco che nel giugno scorso, a Bologna, nel ballottaggio fra la candidata del centrosinistra Silvia Bartolini e il candidato appoggiato dal Polo, Giorgio Guazzaloca, oltre il 70 per cento del voto giovanile si è riversato su quest’ultimo. Vale a dire che in una comunità civica animata da una lunghissima tradizione di sinistra, la defezione è stata altissima. Ma si poteva anche segnalare che la socialità progressista non era più trendy da tempo, e che le indagini sul campo avevano messo in rilievo già da almeno un decennio «l’assenza sostanziale di ogni forma concreta o ideale di solidarietà nella rete di valori dei giovani dell’Emilia- Romagna». Dunque per capire perché i giovani pendono a destra occorre fare un passo indietro. Innanzitutto, dire "destra" non significa una visione estremistica, da ultrà, da coatto. Nella società media non ci sono nemmeno giovani haideriani, più o meno connotati in termini nazionalisti o xenofobi. In secondo luogo occorre uscire dagli stereotipi classici, quelli che vedono l’età giovanile come una condizione di "disagio", suscettibile di reazioni politiche in controtendenza verso le idee e i governi in corso. Sostiene Franco Garelli, un sociologo torinese che ha offerto con assiduità analisi del mondo giovanile: «L’indebito ricorso al termine disagio è l’espressione degli imperativi culturali prevalenti nella società italiana. Qui l’idea dell’accompagnamento, dell’apprensione, del sostegno, della comprensione, prevale nel modo di considerare i giovani». Se non c’è disagio, anche le etichette nichiliste con cui da una ventina d’anni vengono ritratte le nuove generazioni vanno interpretate diversamente. Nel 1980 Loredana Sciolla e Luca Ricolfi parlavano di giovani «senza padri né maestri», mentre qualche anno dopo lo stesso Garelli alludeva a una «generazione del quotidiano", cioè immersa nel contingente, e via via le definizioni si sono moltiplicate, quasi tutte sul leitmotiv della perdita di senso, di dispersione nella frammentarietà: «generazione senza ricordi», «senza tempo», «suoni nel silenzio», «generazione di sprecati», «generazione in ecstasy». Ci manca solo Vasco Rossi, con la sua vecchia e urlata «generazione di sconvolti, senza santi né eroi», per arrivare alla perfetta coincidenza fra sociologi e rockstar, fra analisi e autoconsapevolezza. La conseguenza è che di fronte a un panorama simile riesce difficile immaginare la tenuta delle idee e dei simboli politici prevalenti tra la fine dei Sessanta e per tutti i Settanta. L’antifascismo, la Repubblica nata dalla Resistenza, le grandi masse, i lavoratori hanno l’apparenza di oggetti di modernariato. Oggi tutto ciò che appare collettivo tende ad andare fuori corso; perfino il volontariato assume fisionomie locali e specifiche, talora isolate, non riproducibili, poco inclini a dialogare con le istituzioni. Anche prendendo le distanze dagli stereotipi apocalittici (quelli che vanno per la maggiore: il disagio, l’idea della giovinezza come prolungamento infinito dell’adolescenza, un’irrimediabile passività sociale), Garelli riconosce che da un punto di vista culturale i giovani d’oggi sono assai più distanti dalla generazione del Sessantotto di quanto quella generazione fosse distante dalla precedente. I boys della rivolta sessantottina credevano nella politica, e condividevano con i loro padri perlomeno l’idea base dell’agire pubblico, quella del cambiamento. Oggi un terreno comune non c’è, il relativismo è completo, chissà dov’è finita la fede nel partito o nell’utopia. Nella ricerca di qualche punto di riferimento, i giovani d’oggi mettono ai primi tre posti, nella classifica delle istituzioni meritevoli di fiducia, le forze dell’ordine, l’Unione europea, la chiesa cattolica. Vale a dire la polizia, i tecnocrati e i preti. Paradossale o no, per i nipotini della grande festa rivoltosa di tre decenni fa? Ecco allora che un altro esploratore della società contemporanea, Ilvo Diamanti, con l’occhio puntato sulla destrutturazione comunitaria del Nordest, parla di «una generazione poco visibile e poco amata». Che diventa "di destra" perché non sa dove guardare. Al punto che non si capisce neppure se gli inni "di sinistra" del rock system nazionale (tipo Il mio nome è mai più, della banda Jovanotti-Ligabue-Piero Pelù) vengano recepiti e acclamati dagli stadi come un manifesto della sinistra che verrà, quella oltranzista e irriducibile alla moderazione, oppure come uno sberleffo qualunquista verso il politically correct delle sinistre moderatine, tutte unificate dalla guerra santa del Kosovo. D’altronde, per restare nell’intrattenimento popolare, chi potrebbero essere i guru dei "nuovi" giovani: il sessantenne Francesco Guccini, riscopritore della sua passione giovanile per Che Guevara? Una band massimalista, castrista, ed esplicitamente rétro come i Nomadi? I rapper nel circuito autoreferenziale dei centri sociali? E su ben altro versante, qualcuno riesce a vedere in giro un idolo pop più adorato dalle folle giovanili di papa Wojtyla? Tutto questo per dire che il mondo dei giovani vive la sinistra soprattutto come un’assenza. Nemmeno i "new leader" come Tony Blair riescono a lanciare messaggi riconoscibili, e l’universo simbolico di Walter Veltroni, con don Milani, Dossetti e Bobbio, rimane inaccessibile. Gli studiosi cattolici come Pier Paolo Donati sostengono piuttosto che la necessità di vivere in una società eticamente neutra, "che trasforma le scelte etiche in questioni tecniche", impone ai giovani un atteggiamento streetwise, in cui si circola per strada con estrema circospezione, attentissimi a ciò che avviene a ogni incrocio. Insomma, dentro la «società-risiko» descritta dal sociologo Ulrich Beck, ognuno si attrezza come può, in solitudine, senza nessuno che faccia da maestro o da tramite. Appare inutile replicare auspicando visioni «repubblicane» o puntando sulla «religione civile», come indicano studiosi di sinistra come Maurizio Viroli e Gian Enrico Rusconi. Sul piano degli atteggiamenti di massa, scegliere una prospettiva di destra significa semplicemente adattarsi alla pressione dei circuiti di consumo. Di fronte al grande mercato, ma anche in una festa rave, l’unica chance strategica è quella individuale. Insieme con la disgregazione delle agenzie di socializzazione tradizionali, dalla scuola pubblica all’esercito di popolo o alla fabbrica fordista, si afflosciano anche tutte le strategie collettive. Non è un caso che le esperienze di sinistra più radicali, come quella degli squatter, puntino sulla separatezza, anziché sulla richiesta di integrazione. Una volta tagliato il legame con le organizzazioni sociali primarie, e in attesa di vedere se il Seattle movement farà scuola, è naturale che venga tagliato anche quello con la sinistra, che è la meno attrezzata per fornire carte e mappe a una gestione individualista della vita. I giovani diventano di destra, quindi, perché l’atteggiamento di destra è il vero unique mood nel mondo del Duemila. Dentro contesti in cui la socialità si azzera, e in cui il tabù residuale della solidarietà risulta annichilito perché nessuno sa essere solidale né con chi esserlo, l’adesione a una prospettiva individualistica equivale all’assimilazione di una prospettiva di destra. Colpisce che le indagini demoscopiche realizzate dalle grandi imprese o dalle associazioni imprenditoriali mettano in luce, nei settori giovanili interpellati, atteggiamenti favorevoli alla flessibilità, al rischio, al lavoro atipico, con disponibilità al cambiamento e alla mobilità, alla formazione continua e alla competizione permanente. Quale può essere per questi giovani il richiamo politico e sindacale? Insomma, o la sinistra riesce ad allestire in politica "macchine desideranti" capaci di sollecitare pathos e consenso, come ha cercato di fare Anthony Giddens con Blair («lottare contro la povertà, attaccare gli squilibri di potere, agire per la conservazione della natura, creare la nuova tecnologia del sapere»), trasformando la old style social-democracy in un rap postmaterialista, oppure non ha grandi speranze. Nel momento infatti in cui l’unica strategia da definire è quella relativa alla conquista di un oggetto del consumo, cioè quando un comportamento potenzialmente pubblico viene ridotto a una scelta di efficacia tecnica, personale e privata, il pensiero "di destra", c’è poco da fare, diventa irresistibile come un riflesso condizionato.

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