gli articoli L'Espresso/

La sinistra sono io

27/12/2001

Nel mezzo del cammin della sua vita, Lorenzo sembra Jovanotti soltanto nel- l’abbigliamento, nel maglione, nella barbetta etno, nei capelli giovanilisti. Sta finendo i missaggi del suo nuovo album, che si intitola "Il Quinto Mondo", dopo una polemicuccia con Massimo Bubola che aveva indiziato di plagio il titolo precedente, "Vita morte e miracoli". Siamo in uno studio della periferia milanese. Canzoni d’amore, violini, accordi brasiliani. Ma poi si scatena l’urlo punk di "Salvami", il singolo che esce in radio il 28 dicembre (nei negozi l’11 gennaio in un cd che contiene altri tre brani inediti non presenti nel nuovo disco e una traccia interattiva di trenta minuti con le immagini delle sessioni di registrazione). "Salvami". Una protesta, una preghiera, un’invocazione. Un grido contro la guerra, contro la Fallaci, a favore della convivenza fra diversi. Rivolta a un popolo, a una tribù. Indistinta ma presente, soggetta al carisma genuino di un leader. Perché lei è un capotribù nato, non è vero, Lorenzo? Fin dal suo primo disco, che si intitolava "Jovanotti for president". «Ma no, sono uno che dice delle cose. Ho sempre avuto un gusto particolare per la parola. Anche il rap dei miei esordi lo interpretavo come una forma elementare di espressione, in cui le parole esprimevano una cultura: non letteraria, ma pubblicitaria, costruita su una serie di slogan». A un certo punto della carriera lei ha cominciato a lavorare soprattutto sui testi: come se avesse deciso che aveva qualcosa da dire. Un programma, un progetto. «All’inizio le mie idee musicali erano esteriorità immediata. Niente elaborazioni. Dominava il desiderio di rompere con una tensione nuova gli schemi della musica anni Ottanta. Sulla scena italiana, l’unico uomo di rottura era Vasco Rossi: un rivoluzionario vero, con frasi musicali composte di tre o quattro parole. Mentre i cantautori erano logorroici, Vasco sparava espressioni pubblicitarie come "Coca, Cola", o "C’è chi dice no". Ritmo, slogan, efficacia dura senza filtri». E lei si è detto: ci provo anch’io, voglio diventare anch’io un capopopolo. «Non avevo progetti di leadership, non sapevo se ero effettivamente un capotribù, ma sentivo di avere una marcia in più. Ero sicuro di farcela. Sentivo di essere un solitario, un individualista. Però, con una generosità innata, con la voglia di spendermi». Un individualista che ha trovato un popolo. «Forse, ma non sono stato io a cercarlo. Mi sono sempre sentito "alla periferia di nessun centro". Sono nato in Vaticano, dalle finestre si vedevano i pullman dei pellegrini. Si sentiva di essere nel cuore di un pellegrinaggio gioioso. Durante l’infanzia vedevo la cupola di San Pietro, e in piazza i pellegrini in festa. È stato un imprinting. Se tutti noi cerchiamo qualcosa del nostro passato, se Adriano Celentano cerca sempre la sua via Gluck, io cerco questo universo di gente, gioioso e variegato». Ha avvertito un’insufficienza della musica come discorso pubblico? «Insufficienza della musica? No, eventualmente insufficienza mia rispetto alla musica. Poiché non ho mai sviluppato l’aspetto tecnico, mi accorgevo di un limite. Per questo ho puntato sul contenuto. Il mio vero strumento l’ho trovato nella parola, nel testo». Ma avrà avuto qualche punto di riferimento fra i grandi della musica. In Italia e all’estero. «In Italia sicuramente Celentano, il Celentano tra gli anni Sessanta e Settanta, quello di "L’albero di 30 piani": populista, sfrontato, capace di sublimare il banale. Rispetto a lui credo di avere un po’ di senso autocritico in più. Ma anche Adriano fa una musica "etica", in quanto mette se stesso prima delle sue canzoni». Indichi anche qualcuno meno etico. «Vasco, come ho già detto: in lui canzone e artista si identificano. Poi i cantautori, De Gregori, De Andrè, Pino Daniele, Edoardo Bennato, Rino Gaetano. Sono stati come una paternità non cercata». E nella musica internazionale? «Bob Marley è il più grande. Sono cresciuto con la musica nera americana, con il rap, Public Enemy. Anche se alla lunga il rap si logora, diventa un genere, un cliché. Diventano tutti epigoni di una maniera». Mentre lei si è reinventato. Da "È qui la festa" a "Penso positivo". «È la mia condanna: a ogni disco ricomincio da capo. Io non sono un cantante. Non sono un cantante popolare negli schemi convenzionali. Ogni volta devo trovare una forma di espressione inedita». Ma si può ripartire da capo con un’industria musicale che chiede repliche continue? «Nel lavoro sono completamente libero. Ci sono persone con cui mi confronto, come Claudio Cecchetto, che resta una figura di riferimento essenziale. È un uomo di intuizioni, con un punto di vista particolare, molto pop. Non ho più rapporti di lavoro con lui, ma il confronto è sempre assiduo». Lui è pop. E lei, invece, è politico. Perlomeno nel senso di proporre una politica delle emozioni. «Non mi era mai venuta in mente come definizione, ma credo nella politica delle emozioni: vengo da una generazione apolitica, e mi sono sempre sentito poco ideologico…». Cattolico come Celentano? «Sarebbe facile rispondere che sono cristiano. Il cattolicesimo era l’ambiente naturale. Capirà, con un padre entrato in Vaticano come gendarme. Ho visto Madre Teresa di Calcutta, i pontefici, papa Luciani, Giovanni Paolo II». Ci manca solo che adesso faccia l’elogio dei valori tradizionali. «Ma i valori tradizionali possono essere applicati modernamente: come pietas, come rispetto delle differenze». Vediamo. La famiglia è un valore? «È un valore in mutazione. Un valore da ricercare. La pratica della fedeltà è un valore. Il lavoro è un valore, oltre che un modo per vivere nel mio tempo. Ma il valore assoluto è la comprensione del dolore». Quale dolore, quello dell’11 settembre? «Quella cosa lì, così terribile, apparentemente incomprensibile… Eppure non mi ha sorpreso: mi ha fatto stare male, ho passato un mese in un torpore assoluto. Ma proprio perché non mi ha stupito lo shock è stato ancora più forte. Vede, in Pakistan ho visto esposte le foto di Bin Laden: assurdamente per loro, per i poverissimi, rappresentava qualcosa. Noi abbiamo fatto finta di niente. Bin Laden non è un problema di religione, è un problema di potere: di un potere che sfrutta l’ignoranza e l’isolamento, e che fa diventare Bin Laden una specie di Che Guevara. Falso. Non c’è nulla di positivo. Ma capisco il meccanismo, perché generare odio dove c’è povertà è facile». Non è colpa nostra. «Eppure non abbiamo fatto una politica per la povertà, siamo stati collusi con le dittature, silenziosi, complici. Non ci si può nascondere dietro la giustificazione che tutto questo ha assicurato benessere e libertà. Ha garantito la libertà di qualcuno, il benessere di pochi». Si capisce che lei è contrario alla guerra. «Sì, sono contrario. Non credo che serva per onorare o riscattare le vittime di New York. Credo che sia terribile pensare che la morte di persone innocenti possa essere uno strumento politico. La guerra legittima implicitamente un atto terroristico». Di fronte a una posizione del genere di solito si chiede qual è l’alternativa. «Sarò banale, ma la risposta al terrore è la diplomazia, la polizia, l’intelligence. Che la guerra sia la continuazione della diplomazia con altri mezzi è un’idea che mi ripugna». Sulle magliette dei suoi fan c’è Guevara, che faceva la guerra. «Ma anche il Che non mi appartiene, o almeno non mi appartiene il pensiero che conduceva dalla politica alle armi». Pacifista, disarmato, utopico, cristiano con sfumature buddiste: Jovanotti è un collage culturale, una profeta del sincretismo. «Sincretismo? Ma certo: come si fa a non essere aperti, spalancati di fronte alle meraviglie delle culture? È il mercato che pretenderebbe l’omogeneità totale, il pensiero unico». Un compagno di strada dei No global. «Non mi piace il termine. Le parole che negano mi fanno paura. Tuttavia il mercato non può essere l’unica legge. Il mercato è uno strumento di libertà, ma l’idea che siano dieci multinazionali a fare le regole è spaventosa. E la politica balbetta di fronte al movimento che lotta contro una globalizzazione sbagliata». Ma nel momento della scelta elettorale lei che cosa fa, vota a sinistra? Oppure scappa via? «Voto a sinistra. Sono legato all’idea di un aspetto pubblico della vita economica, allo stato sociale, alla sanità, all’istruzione. Sono un grande pagatore di tasse: mi inorgoglisce l’idea di contribuire alla costruzione e al mantenimento di strutture pubbliche». Non salterà fuori un Jovanotti moderato? «Perché no, politicamente sono moderato. Al seggio sono pragmatico. Fra Berlusconi e Rutelli voto Rutelli. Estremista posso esserlo sui principi. Non sarò moderato sull’ambiente, sulla tutela delle differenze, sulla convivenza multietnica. Ma credo nel voto utile. Fra Gore e Nader, scelgo Gore». Bisognava spiegarlo meglio agli italiani. «Già, la destra ha vinto perché ha avuto la capacità di comunicare. Che il centrosinistra invece ha smarrito». Ipotesi da "anno nuovo vita nuova": le chiedono di trasformarsi da capotribù in uomo politico. Che cosa risponde? «No. Con un piccolo rimpianto, perché ogni volta che vedo i vincitori, Berlusconi, in televisione, mi dico: "Io saprei come rispondere. Io potrei ribattere. Io saprei comunicare meglio di loro, vincerei nel faccia a faccia in tv"». E allora? «Non ne parliamo nemmeno. In confronto alla politica, il mio lavoro è una passeggiata».

Facebook Twitter Google Email Email