gli articoli L'Espresso/

Mercato. Ma corretto

08/11/2001

Non è la prima volta che la presidenza della Commissione europea è sotto pressione. "L’italiano" Romano Prodi reagisce alla sua solita maniera. Via dalle polemiche spicciole. REAZIONE FREDDA verso la stampa europea («Mai pensato di dimettermi»). Grande cautela, con un ringraziamento a denti stretti, anche dopo la mossa di Silvio Berlusconi, che ha accusato una "euro-lobby" di procedere a una sistematica denigrazione anti-italiana, legando così i suoi personali problemi di credibilità esterna agli attacchi a Prodi. Guarda avanti, con la solita ostinazione. Perché nella sua visione il compito attuale dell’Europa non è contingente. L’autunno della globalizzazione, dopo l’attacco alle Torri gemelle, è l’occasione per riflettere sulla "rimonta" europea. Su un modello che sembrava superato, e che ora riemerge. L’economia sociale di mercato, la saggezza di un riformismo temperato. Qualcuno ci troverà l’eco di una leadership. Oppure le linee di fondo di un programma politico. Ecco la visione di un protagonista lontano, ma non troppo, dall’Italia del neo-thatcherismo. Ormai è un luogo comune dire che l’11 settembre ha cambiato il mondo. Ma cambierà anche la politica economica nel mondo sviluppato? «La percezione di un cambiamento profondo precede l’attacco a New York. I fatti di Seattle, Göteborg, Genova ci avevano già posti di fronte a processi di portata ingente e, soprattutto, imprevista. Gli eventi americani sono esplosi quando i problemi cruciali della globalizzazione erano già arrivati sul tavolo: proprio mentre si formava la sensazione che gli strumenti politici per affrontare questi problemi erano, e sono, inadeguati». Quindi lei ha preso sul serio i no global? «Vanno presi sul serio tutti quei fenomeni che mettono allo scoperto gli squilibri della globalizzazione. Cioè le espressioni di un disagio, di una serie di contraddizioni che mostrano che nella crescita c’è qualcosa che non va». Ma il "pensiero unico" sosteneva che la cura ai mali della crescita era la crescita stessa. «E così si sono persi di vista gli effetti indesiderati. In un periodo positivo per l’economia, nell’ultimo decennio si sono trascurate le tre grandi ingiustizie che agivano sotto la superficie del processo globale. La prima ingiustizia all’interno dei paesi ricchi, con il crescere del divario dentro le società. La seconda, con l’aumento della diseguaglianza fra i paesi in via di sviluppo. La terza, quella che ha prodotto l’attacco alla globalizzazione, con l’aumento della distanza fra paesi ricchi e paesi poveri». Nelle società occidentali, gli aspetti di iniquità sociale vengono messi in conto alle turbolenze della crescita. Qualcosa di inevitabile. «Già: la finanziarizzazione dell’economia, il taglio delle imposte, la ristrutturazione del welfare hanno creato la convinzione che un certo livello di squilibrio sociale sia intrinseco allo sviluppo. Si è anche pensato che la diseguaglianza sia un implicito fattore di crescita: ma in proposito non esiste nessuna conferma scientifica. Lo ripeto, non esiste. Eppure sotto questa luce si può inquadrare l’abbattimento delle imposte di eredità, non solo in Italia: cioè l’abolizione di uno dei principali strumenti di uguaglianza». Ciò che colpisce è che questa tendenza abbia coinvolto anche i principali paesi europei. «Ha toccato in profondità i sistemi di coesione sociale. Ma intendiamoci, parliamo di un bilancio in chiaroscuro. Infatti ci sono state conseguenze positive: meno strutture monopolistiche, meno incrostazioni, più trasparenza. In un mondo a capitale libero, dove i paesi possono esercitare un certo grado di concorrenza fiscale, diventa automatica la spinta a ridurre il peso delle tasse. È chiaro che tutto questo non deve andare perduto, perché ha significato consistenti vantaggi per i cittadini e i consumatori. Ma sarebbe un errore perdere di vista le iniquità che la liberalizzazione ha comportato». Nessun pentimento sulla via del mercato? «Certamente no. Dobbiamo tenere l’occhio sul mercato, perché c’è ancora tanta strada da fare. Ma ci vuole un riformismo "come Dio comanda", sufficientemente approfondito per ripulire le sacche di inefficienza residue, le distorsioni, i colli di bottiglia, il mancato incontro tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Nello stesso tempo occorre ripensare anche agli strumenti correttivi, tenendo conto che la correzione del mercato non è più solo una questione nazionale, ma va orientata su scala planetaria». Non si sentono molte voci disposte a unirsi all’idea di un nuovo interventismo statale. «È vero. Ma bisogna capire che non si tratta di un interventismo vecchio stile, per lasciare spazio a qualche monopolio. Si tratta di una sfida politica. Bisogna comprendere le ragioni di un’Europa partecipe di una globalizzazione profonda, e nello stesso tempo la necessità di correttivi adeguati alla nostra epoca, sia all’interno dei paesi europei sia nel senso dell’apertura di spazi politici ed economici ai paesi nuovi. Lo slogan da cui eravamo partiti, "trade not aid", era giusto, ma non funziona per i poverissimi. Va da sé, per dire, che l’Africa subsahariana non ce la fa, da sola, sul mercato mondiale». Ma nel mondo "unipolare", il ruolo dell’Europa è limitato. «L’11 settembre ha messo in crisi proprio il modello dell’unipolarità. Ha riportato sulla scena la Russia e la Cina. E l’Europa, con tutti i suoi limiti, può avere un ruolo proprio perché in passato è stata uno fattore di equità, e in molti casi è percepita come tale all’esterno». Anche in Europa però si è avuta l’ascesa irresistibile del laissez-faire. «Si è avuto un lungo processo di deregolamentazione, che è ancora più importante della privatizzazione, reso necessario dall’obbligo di competere con aree economiche molto più libere al loro interno. Un processo di lungo periodo, che ha visto all’opera diversi governi in ogni paese. La Spagna virtuosa di oggi è l’effetto dei governi spagnoli, quelli socialisti e quello di Aznar; il Regno Unito vede una significativa continuità, fuori dalle sigle politiche, fra i governi Thatcher e Blair…». E allora a che cosa serve votare laburista? «Occorre saper ragionare su due linee: la indispensabile deregolamentazione da un lato e la altrettanto indispensabile creazione di nuove e diverse forme di tutela sociale dall’altra. Nell’Unione europea la sfida del mercato è avvenuta troppo di recente perché si mettesse a fuoco il problema della distribuzione del reddito. Ma oggi che il crescere delle disuguaglianze interne diventa visibile, e può trasformarsi in una prospettiva di incertezza per i cittadini, ritorna essenziale porsi il problema della correzione del mercato, e della costruzione di nuove regole per garantire una performance sociale simile a quella già prodotta dall’Europa continentale nel dopoguerra». Si torna a guardare all’Europa "renana"? Quella di cui lei aveva descritto la specificità, insieme a Michel Albert, rispetto al capitalismo finanziario anglosassone? «Il capitalismo renano non è più quello di allora. È cambiato il rapporto fra banca e impresa, i partiti socialdemocratici hanno assimilato il mercato, la concorrenza si è imposta, la presenza dello Stato nell’economia si è fortemente ridotta. Siamo stati attraversati dall’onda d’urto della visione della Thatcher, che diceva: "Quella cosa chiamata società non esiste". La liberalizzazione ha avuto effetti profondi sul continente. Allorché in Europa continentale, una quindicina di anni fa, fu introdotto il sistema delle stock option, questa novità "americana" venne considerata come una rottura di lealtà entro una società che tendeva a limitare le differenze. Oggi è pura normalità. Ciò malgrado, anche se occorrerà liberalizzare, disincrostare, fluidificare ancora il sistema, occorrerà anche ripensare tutto il sistema delle regole, perché non si creino squilibri ancora più profondi». Per ora non sembra di avvertire in Europa un cambio di fase. «La percezione è troppo recente. Osserviamo l’affiorare di sintomi. Il conferimento del Nobel per l’economia a Joseph Stiglitz è sicuramente un segnale. I partiti europei, dai socialisti ai popolari, attraversano uno smarrimento, perché prima c’era la certezza, oggi c’è il dubbio. Si ricomincia a discutere, con una passione rinnovata, perché di fronte a un modello che va in tensione si riaprono opportunità per la politica». Riemerge il Novecento, se è vero che in America si assiste a una sorta di ritorno di Keynes. «Ho avuto modo di dire che George Bush jr. ha fatto la cosa più keynesiana che poteva fare, ed è un bene che l’abbia fatta un politico come lui, un conservatore. Tuttavia il piano americano da 150 mila miliardi, essenziale per sostenere l’economia statunitense, è ancora un’operazione tecnica, si indirizza largamente sul settore militare: in sé e per sé non induce a mettere in discussione i problemi di fondo». Quindi toccherà alla vecchia Europa porsi alla guida "ideologica" della fase attuale? In realtà molti hanno visto nell’evoluzione geopolitica dopo l’11 settembre un’assenza dell’Ue. «È un errore di percezione, basato su una miopia. L’Unione conta moltissimo oggi, in un mondo che abbandona l’unipolarità, e conterà ancora di più nel futuro prossimo. Ha espresso una grande unità sulla difesa e la politica estera, ma non solo: ha preso decisioni in settori nei quali finora ogni intervento sembrava impraticabile: il mandato di cattura europeo, le misure contro il riciclaggio di danaro sporco. Ma è in prospettiva che si vedrà meglio il ruolo europeo. L’allargamento dell’Unione darà un contributo fortissimo alla globalizzazione "democratica", cioè a un dinamismo che valorizza le opportunità di apertura e di partecipazione. Pensiamo a che cosa significa un’Europa con un 30 per cento di popolazione in più, a cui accedono paesi meno privilegiati. Pensiamo a che cosa significa la presenza di paesi a cui l’Ue potrà offrire aiuti per consentire l’ammodernamento dell’economia, ma che apriranno uno spazio economico capace di fare da volano alla crescita. La nuova equità consiste anche in questo: in un equilibrio fra la crescita dei nuovi e quella dei vecchi». Dubbi e riserve sull’allargamento, o sulle sue scadenze, non mancano. «L’allargamento non ritarderà di un solo giorno. Entro la fine del prossimo anno concluderemo i negoziati con i paesi candidati all’adesione così che i più pronti tra loro possano entrare nell’Unione prima delle prossime elezioni europee. Non c’è nessun elemento per metterlo in discussione. Ci gioco il mio mandato, la mia posizione, la mia faccia. Ma soprattutto ci si gioca una prospettiva storica». Qualcuno si chiede qual è l’interesse dell’Italia relativamente all’allargamento dell’Unione. Ci ritroveremo concorrenti in casa. «È fuori dubbio che l’allargamento implica un dare e un avere. Si perde qualcosa come individualità di nazione, ma si guadagna come ritmo di crescita». Va bene, ma uno scettico obietterebbe: un paese come l’Italia, con le sue debolezze strutturali, la sua assenza di grandi imprese, i suoi squilibri interni, ha davvero interesse a trovarsi i "late comer" come competitori? «Non dimentichiamo la funzione di cerniera che il nostro paese ha avuto rispetto all’Europa centro-orientale. Già oggi, l’Italia esporta a Est quanto Francia e Gran Bretagna insieme. Il suo ruolo come economia di frontiera può essere determinante. La sfida dell’allargamento, per noi, è un appuntamento fondamentale, pareggiato solo dalla priorità della costruzione di un rapporto con la riva sud del Mediterraneo, che per tradizione e per geografia rappresenta l’altro grande compito del paese». Che cosa occorre all’Italia per poter giocare questa funzione di cerniera? «Ci vuole un paese che sappia individuare le sue priorità. La prima priorità è un colossale investimento nelle risorse umane, moltiplicato in modo esponenziale rispetto a oggi e rispetto a ieri. L’altra priorità consiste nella capacità di ridisegnare il sistema delle regole. Perché finora si è fatto un faticoso lavoro di liberalizzazione e di smantellamento dei monopoli. Occorre rendere ancora più mobile il sistema, intervenire anche sul mercato del lavoro, fare in modo che domanda e offerta si incontrino con efficacia, che tutto il sistema economico funzioni in modo fluido. Ma nello stesso tempo, abbiamo l’obbligo politico e morale di reinventare il sistema delle regole. Finora la priorità era stata il laissez-faire. Oggi dobbiamo riuscire a immaginare il mercato come comunità civile, quindi presidiato dalle regole. Regole moderne, ma regole. Perché se non si ha il coraggio di pronunciare questa parola, regole, la forza delle cose sconfigge la politica».

Facebook Twitter Google Email Email