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Benvenuti nell’insicurezza totale

25/10/2001

Eccoci qua, precipitati nella "Risiko Gesellschaft", la società dell’insicurezza totale del sociologo Ulrich Beck, nel "mondo in frantumi" dell’antropologo Clifford Geertz, nel disordine globalizzato diagnosticato dall’esploratore della modernità Zygmunt Bauman. Imprigionati nei dilemmi incombenti della schizofrenia contemporanea: da un lato nell’attesa infantile che tutto ritorni normale, in modo che il "ground zero" delle Torri gemelle si ridefinisca come un problema di ricostruzione o come un nuovo progetto urbanistico, e dall’altro la sensazione che ogni minuto potrebbe innescare la destabilizzazione finale. Si scherza a denti stretti con la fatalità, e con le paure della distruzione, perché la funzione esorcistica non ha tabù. I giovani della Marcia della pace ironizzano sulle note antiamericane di Gianni Morandi: «Gli han detto va’ in Afghanistan, e spara ai taleban…». Ma nel frattempo, e per la prima volta, l’impulso angoscioso supera quello vecchio e classico che aveva nella crisi atomica il suo climax emotivo. Il Mad, la mutua distruzione assicurata dall’equilibrio nucleare, era un format rassicurante, perlomeno nel senso che rendeva tutti potenziali vittime, e quindi scoraggiava implicitamente l’aggressività degli Stranamore nonché la tentazione di risolvere la guerra fredda con il "first strike", il colpo preventivo. Adesso invece gli elementi in disequilibrio sono talmente numerosi da risultare psicologicamente incontrollabili: l’incubo dell’antrace o del vaiolo, la volatilità del Dow Jones, una paura di volare che non è più quella simbolica di Erica Jong, i video terrificanti dell’emiro e del mullah, gli scoop catastrofisti di Al Jazeera, il sospetto immediato per le acrobazie linguistiche degli imam immigrati. Mentre si ricorre ai freddi dettagli ingegneristici per spiegare come il "flash over" nelle Twin Towers colpite abbia provocato il crollo della struttura, un brivido supplementare viene generato dal lessico degli avvertimenti di Al Qaeda sull’imminente "tempesta di aerei" e dall’invito ai musulmani d’America a evitare voli e grattacieli. Se Umberto Eco spende due pagine per prospettare come il cosiddetto scontro di civiltà innescherebbe una catena di ritorsioni catastrofiche, se il dibattito sulla Fallaci è diventato un serial, se per un altro verso non si estinguono le leggende antisemite sui 4 mila ebrei assenti quel giorno dal Wtc, qualcosa vuol dire. Vuol dire che gli involucri della razionalità sono così sottili da permettere facilmente all’immaginazione di insinuarsi nel pensiero quotidiano; a un futuro distruttivo, a paure apocalittiche, di penetrare nelle routine giornaliere. Soprattutto entrano in conflitto concezioni diverse del tempo: per una famiglia occidentale la scansione temporale è un alternarsi di eventi individuali, nascite, adolescenze, lauree, matrimoni, carriere, successi d’impresa; mentre nei messaggi oracolari di Osama Bin Laden il tempo è una stringa lenta di umiliazioni storiche di una "nazione", in cui gli ottant’anni dalla caduta dell’Impero ottomano sono un tempo di vita ma soprattutto di memoria. E siccome "noi" misuriamo il tempo sulla velocità istantanea di connessione al web, si rivela insostenibile che qualcun altro possa misurarlo sul succedersi di epoche, di generazioni, di comunità. Al massimo, si pianificavano strategie di esistenza, progetti famigliari, programmi di investimento; adesso si attende dalle pagine del televideo la notizia che consentirà il ripristino della normalità. Ma ogni informazione rimane interlocutoria, e la sensazione che una fonte di alterità assoluta possa annichilire abitudini, standard di consumo, prevedibilità della vita, mandando per aria la nostra frammentarietà rassicurante, diffonde un’incertezza che in una psicologia collettiva inabituata al conflitto sfuma oscuramente nell’angoscia.

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